Bruno Ramirez insegna all’Università di Montréal dal 1989 e ha scritto alcuni fondamentali libri sulle migrazioni nelle economie atlantiche (Les premiers Italiens de Montreal: l’origine de la Petite Italie du Québec, Montréal, Boréal Express, l984; On The Move: French-Canadian and Italian Migrants in the North Atlantic Economy, 1861- 1914, Toronto; McClelland and Stewart, 1991; Crossing the 49th Parallel: Emigration from Canada to the USA, 1900-1930, Cornell University Press, 2001). Nel frattempo ha avviato un’importante carriera quale sceneggiatore per il grande e per il piccolo schermo e, a tale titolo, ha firmato nel 2004 la miniserie televisiva Il duce canadese. Poiché il tema trattato è assai controverso, lo abbiamo intervistato
Quale è la vicenda storica sulla quale hai basato la tua sceneggiatura?
Ho voluto raccontare la storia di una famiglia italo-montrealese che negli anni della Grande Depressione viene a trovarsi, volente o nolente, coinvolta nelle vicende interne di una comunità che subisce le pressioni da parte delle autorità consolari e dei notabili – oltre che della Chiesa – che sostengono il regime fascista. Si tratta di una famiglia che racchiude in sé tre generazioni e che in certi sensi costituisce un microcosmo dei contrasti e dissensi che esistevano nella più estesa comunità riguardo il sostegno o rifiuto del discorso fascista. Allo stesso tempo, questa varietà di profili generazionali e di rapporti intra-familiari mi ha permesso di approfondire i singoli personaggi, di “nuancer” aspetti della loro mentalità, e di mettere in risalto importanti dinamiche di genere. Questi aspetti vengono in risalto soprattutto allorché l’Italia entra in guerra e tre membri della famiglia vengono arrestati e internati – come centinaia di altri Italiani in Canada – in seguito alle leggi speciali di emergenza messe in vigore dallo stato canadese. Ben inteso, si tratta di una famiglia “fittizia”, ma la cui concezione è stata fondata su ricerche e interviste con individui e famiglie che hanno vissuto quel dramma in prima persona.
Come si situa il tuo intervento rispetto al dibattito storico-politico sulla sorte degli italo-canadesi durante la seconda guerra mondiale?
È essenziale premettere che “Il Duce Canadese” non è un documentario, bensì uno sceneggiato televisivo. Come sceneggiatore, la mia prima sfida era quella di produrre un’opera di valore drammaturgico in conformità al mandato della “CBC Drama Development Program”; e allo stesso tempo sfruttare le mie conoscenze di storico per far si che la trama e i personaggi riflettessero il più fedelmente possibile il quadro storico di quell’epoca. Quindi, non si è trattato di volermi situare all’interno di un dibattito politico, come avrei potuto fare scrivendo un documentario o una monografia interpretativa, poiché, in tal caso, sia la trama che i personaggi sarebbero stati tutt’altro. Il compito di ciò che in questo caso io chiamo “una fiction realista” è quello di coinvolgere lo spettatore nella vicenda, attraverso personaggi e situazioni storicamente e umanamente credibili, e fare in modo che lo spettatore venga trascinato nella vicenda, in un certo senso “partecipi” al dramma che vivono i personaggi; e ciò esige che si mettano in risalto gli aspetti di dramma umano e non quelli di dibattito ideologico. Starà allo spettatore, poi, decidere – ammesso che voglia farlo – se quei personaggi hanno meritato le punizioni che hanno subìto; e agli storici di provare se sanno fare la distinzione tra un’opera di fiction e un documentario.
Che cosa ti ha permesso di fare il medium televisivo che non avresti potuto fare scrivendo un libro accademico?
Come sappiamo, il medium televisivo o filmistico pone vari limiti – di tempo, di spazio, di budget, etc. E nel caso di un’opera di finzione, costringe a concepire una storia/vicenda in modo da approfondire al massimo i personaggi a discapito di un trattamento più sistematico o analitico del quadro storico in cui si inserisce la vicenda. Ma una volta fatte queste scelte e circoscritto il microcosmo sociale e umano da trattare, il linguaggio cinematografico offre enormi vantaggi. Niente di nuovo in questa affermazione ! Ma nel caso di Il Duce Canadese – come in quello di altri miei lavori cinematografici (La Sarrasine; La déroute) – mi ha permesso di penetrare nelle regioni più intime dei rapporti umani e sociali; regioni che generalmente rimangono in ombra o sono date per scontate in opere accademiche che io od altri abbiamo potuto scrivere sull’argomento. Senza menzionare i vantaggi delle tecniche narrative (metafore, simbolismi, ironia, etc.) che naturalmente sono applicabili a un “récit” filmistico o televisivo, e che contribuiscono enormemente a ricreare le varie sfaccettature della condizione umana.