1. Lombardia terra di migranti
Per quanto la prospettiva regionale nella storia dell’emigrazione italiana sia stata adottata ormai largamente, ancora di recente il caso della Lombardia è risaltato come un’anomalia, poiché “malgrado sia stata una delle zone che hanno aperto la strada alla grande emigrazione della seconda metà dell’Ottocento, ha dedicato a questo pezzo della sua storia economica e sociale scarsissima attenzione” 1. Forse che la ben nota posizione di capofila dello sviluppo industriale e della modernizzazione del nostro paese rivestita da questa regione, ci si è chiesti a ragione, inducesse a rimuovere dal suo vissuto storiografico l’esperienza migratoria? La domanda, oltre che giustificata, risultava profetica, in quanto ancora nel 2001 nel volume La Lombardia, pubblicato nella collana sulle regioni della Storia d’Italia Einaudi, l’emigrazione non compariva fra i temi di indagine prescelti2.
Tuttavia, con oltre cinquecentomila espatri fra il 1876 e il 1900, questa regione è risultata al quarto posto fra quelle più intensamente mobili del nostro paese, dopo Veneto, Friuli e Piemonte, con il 9,9% degli emigranti, e gli oltre 823.000 espatri del primo quindicennio del Novecento hanno ancora rappresentato il 9,4% dell’intera emigrazione dalla penisola3. L’importanza numerica dell’esodo già nel primo periodo rimanda direttamente a un passato migratorio precedente all’unificazione politica del paese che è ampiamente noto e documentato, soprattutto per l’area dei laghi.
“La terra non ha quasi valore…. mentre una parte della famiglia vi suda, e alleva all’amore del suolo natio la povera prole, un’altra scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere, o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmi, che le danno la forza di continuare la sua lutta colla natura e colla povertà”. In tal modo nelle Notizie naturali e civili su la Lombardia Carlo Cattaneo tratteggiava l’economia della parte montana della regione, in un passaggio di frequente citato e adottato come la più icastica descrizione delle abitudini migratorie espresse dalla società alpina4. Anche Stefano Jacini, in un suo ben noto lavoro del 1858, scriveva, a proposito della popolazione dalla Valtellina, che “la ricchezza che suol trovarsi in paesi di montagna o è dovuta all’industria manifatturiera, o ai guadagni raccolti altrove dalle popolazioni stesse, le quali, seguendo naturale istinto, emigrano temporaneamente in paesi ricchi allo scopo di far ritorno presso i luoghi in cui nacquero onde godervi i frutti dei capitali ammassati “. Egli aggiungeva però che “tutte le valli che circondano la Valtellina sono più ricche di questa”, e il divario di ricchezze veniva individuato nel fatto che gli abitanti della vallate comasche, bergamasche e grigione emigravano in vista di guadagni certi, grazie al fatto di poter esercitare professioni più lucrose dei valtellinesi5.
I due grandi studiosi dell’età risorgimentale avevano tuttavia illustri precedenti: nel 1804 Melchiorre Gioia nella sua Discussione economica sul Dipartimento del Lario, che comprendeva i distretti di Como, Lecco, Sondrio e Varese, informava come dal dipartimento emigrasse annualmente un ventesimo della popolazione maschile censita, pari a circa quindicimila uomini, e le sue osservazioni erano state poi riprese e confermate dall’Inchiesta statistica del 18116. In precedenza, tale circostanza era stata osservata sia dalla famosa Inchiesta Neri del 1751, che aveva ribadito in molte risposte la formula “vanno per il mondo a guadagnarsi il vitto” a proposito delle popolazioni dei distretti alpini a nord di Milano, sia da quella del 1789 sull’emigrazione dalla Lombardia austriaca7.
L’attenzione alle consistenti e continue abitudini migratorie espresse dall’area alpina della regione è continuata nell’età unitaria, producendo ricchi e dettagliati resoconti a cominciare dall’Inchiesta agraria, come è noto curata per la Lombardia dallo stesso Stefano Jacini8. Perfino l’inchiesta promossa all’inizio degli anni Trenta dall’INEA sullo spopolamento montano, negli studi dedicati all’area alpina lombarda riprendeva frequentemente l’argomentazione che il fenomeno di abbandono e di spopolamento delle valli derivava in questo caso non dall’abbandono dalla terra, ma al contrario, dal forzato abbandono delle migrazioni circolari che per secoli avevano garantito l’equilibrio economico delle comunità di montagna. Non solo nelle note riassuntive Ugo Giusti, accennava ai “gravi danni… che derivano dalla fermata di questo flusso migratorio”, ma, rispetto alla montagna comasca, si affermava che “la popolazione ha una tradizione antirurale per eccellenza: sono scalpellini, muratori, decoratori, ma non montanari”. Tale tradizione aveva inoltre garantito un passato florido, testimoniato dai suntuosi arredi di chiese come quella di Peglio, acquistati con risparmi cospicui ricavati da attività artigianali svolte presso le corti dell’intera penisola9.
2. Il prototipo delle migrazioni alpine
Nel momento in cui, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si è aperta una nuova stagione di studi sulla società alpina, questa ha trovato nella lunga sedimentazione di inchieste e analisi delle Alpi lombarde molte delle informazioni che hanno guidato a conferire alla mobilità un ruolo così rilevante da indurre a rivedere non solo le interpretazioni malthusiane prevalenti, ma anche a mettere in discussione lo stesso paradigma della sedentarietà.
Soprattutto le ricerche condotte sulle forme di esodo espresse dalle aree di Como e di Varese hanno prodotto risultati che costituiscono importanti contributi al mosaico delle conoscenze sull’emigrazione alpina10. Nei confronti di questa zona, non solo il folto gruppo dei commercianti, dei venditori ambulanti di barometri e di strumenti ottici già in passato aveva attratto l’attenzione degli storici11, ma soprattutto la numerosa e composita schiera degli artigiani dell’edilizia. Questi ultimi costituiscono infatti una corrente migratoria ben nota soprattutto agli studiosi di storia dell’arte, che in opere dedicate alla presenza di scultori e di stuccatori italiani in Germania e nell’impero asburgico avevano segnalato fin dagli anni Trenta la presenza di dinastie e di gruppi di artigiani lombardi12.
In primo luogo sono stati ricostruiti i mestieri e gli itinerari in partenza dalle vallate comasche, mostrando gli effetti demografici dell’esodo, ma anche la ricchezza di informazioni sulle pratiche migratorie delle popolazioni di questa zona sedimentate nel tempo da quanti, in veste di amministratori e studiosi, avevano analizzato tale area lombarda fin dal Settecento13. Alla ricerca dei processi sociali che avevano condotto all’industrializzazione, sono stati analizzati i riflessi nella struttura delle famiglie e nell’esistenza degli individui prodotti dalle tradizioni di esodo. A tale riguardo è stato sottolineato il carattere prevalentemente maschile dell’emigrazione e la sua circolarità: “questi uomini, pur percorrendo tutta l’Europa, hanno come fine ultimo il ritorno a casa. Sembra che un filo elastico li leghi ai luoghi della loro nascita”, e inoltre ad esso si correlava la femminilizzazione dell’agricoltura di montagna e anche dell’intera comunità, che già nel Seicento appariva come una società di sole donne, dove queste ultime “fanno opere virili: loro comprano e vendono, reggono case vanno a’ mercati, arano i campi et li seminano”14. La ricostruzione di questo mondo diviso, operata per le vallate comasche, ha permesso, grazie alle ricerche che nel corso degli anni Ottanta erano state fatte sulla Valsesia e sul Biellese anche con gli strumenti della demografia storica, di delineare un preciso modello di società, comune all’intera area delle Alpi centrali compresa fra il Biellese e Comasco, caratterizzato dall’assenza prolungata degli uomini e da una capillare funzione di supplenza delle donne in tutti i settori della vita sociale15.
L’indagine storica condotta sull’area del Lago Maggiore e del Verbano ha consentito di aggiungere altri importanti tasselli per la ricostruzione di questa società alpina fondata sull’emigrazione maschile stagionale e temporanea, dedita prevalentemente all’attività edilizia16. In particolare sono state sottolineate le radici seicentesche del fenomeno, attraverso il ricorso a ricerche di demografia storica, e tale precocità è stata mostrata anche per la diffusione di alcune fra le più ricercate specializzazioni artigianali e artistiche nell’edilizia, quali i lavori degli scalpellini, dei pavimentisti, i cosiddetti “suolini”, degli stuccatori e dei capimastri17. Quanto ai meccanismi sociali sottesi alle partenze, è stato indicato come i gruppi di compaesani fossero formati in base a gerarchie organizzate attorno al rapporto fra capimastri e apprendisti, riproponendo schemi osservati in altre aree delle alpi occidentali anche per quel che riguarda la permanenza e l’utilizzo dei legami comunitari nelle attività imprenditoriali promosse attraverso l’esodo18.
Le ricerche condotte nell’ultimo scorcio degli anni Novanta hanno iniziato a delineare meglio anche la vasta ramificazione delle attività commerciali. Quelle in partenza da vari paesi attorno a Como, sono risultate all’origine di una folta comunità di mercanti insediata a Francoforte, al cui interno emerge l’ascesa sociale della famiglia Brentano. L’attività mercantile e finanziaria di queste famiglie si basava sul loro carattere migrante e stanziale al tempo stesso, in quanto sui rapporti continui con la porzione residente in Italia si basava un commercio che utilizzava il comasco come stazione di transito per il trasporto delle merci dall’Italia meridionale e centrale al di là delle Alpi e che utilizzava la stessa città di Francoforte come base per l’apertura di ulteriori filiali ad Amsterdam19. Anche l’indagine sulle montagne bergamasche ha rivelato come già nel Seicento fabbri costruttori di altiforni e carbonai della Val Brembana avessero istituito rotte consuetudinarie con alcuni centri del Delfinato20; mentre il gruppo dei facchini aveva stabilito solidi legami con i porti di Genova e di Venezia, controllandone il mercato del lavoro grazie ad una efficiente organizzazione corporativa21. Altre importanti correnti mercantili erano però originarie anche dalla Valtellina, come ha mostrato il caso di Chiavenna22.
Questa valle costituisce tuttavia un caso particolare all’interno dell’emigrazione delle Alpi lombarde, che in qualche modo ratifica l’ipotesi di frontiere interne, scandite appunto dalle modalità migratorie. Infatti la Valtellina, da cui fin dagli anni Settanta dell’Ottocento ha tratto origine una delle prime e più consistenti correnti migratorie verso l’Australia, in primo luogo ha offerto un osservatorio paradigmatico sul raggio d’azione degli agenti d’emigrazione, sulla formazione l’evoluzione delle catene migratorie e in definitiva sul ruolo della circolazione delle informazioni nelle aree dell’esodo. In secondo luogo avvicina l’esodo valtellinese a quello dei trentini, cui appunto gli emigranti della Valtellina si trovarono affiancati in tante destinazioni anche in Australia. In una realtà economica in cui il ruolo dell’emigrazione stagionale si era a lungo mantenuto secondario rispetto alle altre attività esercitate in valle, l’esodo verso l’Australia iniziò assai precocemente, in concomitanza con la prima ondata di partenze dal ticinese, e, presumibilmente, per l’intervento dei medesimi agenti d’emigrazione che negli stessi anni agivano nella valle di Poschiavo, nella zona italofona del Cantone dei Grigioni23. Si tratta degli stessi meccanismi all’opera nell’ondata di partenze per il Brasile dall’area collinare della provincia di Mantova, all’origine di un catena migratoria in funzione fino agli anni Venti del Novecento, anch’essa contigua con altre zone d’esodo verso il Brasile e probabilmente frequentata dagli stessi agenti d’emigrazione che si aggiravano per i borghi del veronese24.
Tirando le fila di questa necessariamente sommaria rassegna delle ricerche condotte sulle migrazioni dell’area alpina lombarda, appare evidente come i venditori ambulanti, i commercianti comaschi e i mercanti valtellinesi ripropongano figure e assetti sociali osservati in molte altre parti delle Alpi, che connotano in modo così esteso l’esodo della montagna da poter essere definiti come tipici dell’emigrazione alpina25. Tali correnti migratorie non sono apparse semplici fughe dalla povertà, ma piuttosto partenze verso destinazioni scelte in base a precise richieste del mercato26. L’analisi delle pratiche migratorie, assieme a quella delle varie attività industriali condotte in questa area alpina, ha contribuito a mettere in discussione la corrispondenza deterministica fra povertà della terra da un lato e sovrappopolamento e miseria degli abitanti dall’altro27.
Una seconda rilevante acquisizione consiste nella possibilità di disegnare i confini di una sorta di subregione migratoria, all’interno stesso della regione alpina, intesa a sua volta come una vasta terra di emigranti. Tale subregione si presenta infatti come area omogenea che travalica il tracciato amministrativo delle regioni postunitarie e delle divisioni statuali: dalle vallate Biellesi, attraverso la Valsesia, questa si estende dal Piemonte alle vallate che circondano i laghi lombardi, comprendendo anche l’area del Ticinese28. Si tratta di una regione bene caratterizzata dalla lunga tradizione dell’esodo, che ha dato vita a uno stile di vita basato sulla mobilità, e che si identifica nel primato dei mestieri dell’edilizia, negli assetti sociali e familiari che hanno sorretto l’emigrazione, nella frequente evoluzione imprenditoriale e sovente nella comunanza delle destinazioni. Sono queste le caratteristiche che hanno permesso di delineare quel modello di emigrazione alpina che proprio in questa regione geografica e sociale ha trovato la sua espressione più frequente.
3.La grande migrazione: catene migratorie e comunità
Gli studi sulla grande migrazione della seconda metà dell’Ottocento hanno allargato l’osservazione sia ad altri gruppi di migranti sia ad altre aree regionali, anche di pianura e di collina, che, soprattutto a partire dagli ultimi vent’anni dell’Ottocento hanno partecipato all’esodo, mostrando l’importanza dell’indagine sul funzionamento delle catene migratorie e di quella sulle comunità all’estero29.
L’adozione della prospettiva della catena migratoria professionale, coniugata con quella di una ricerca condotta anche sui luoghi di arrivo dell’esodo, ha tuttavia prodotto i suoi risultati più significativi nei confronti due categorie: quella degli operai tessili, che nel comasco cercarono attraverso l’emigrazione di mantenere la propria posizione di lavoratori specializzati, e quella degli edili del varesotto, che approfittarono della rivoluzione dei trasporti per inserirsi in un mercato del lavoro intercontinentale.
La vicenda dell’esodo dei tessitori e dei tintori della seta comaschi, iniziato dopo il grande sciopero del 1888 e causato dal tentativo di resistere agli effetti dell’introduzione del telaio meccanico, che permetteva la sostituzione del loro lavoro qualificato con quello femminile meno specializzato e meno retribuito, risulta particolarmente significativa sotto vari aspetti30. In primo luogo ci ha informati sul fatto che anche i tessitori comaschi avevano costruito i loro itinerari migratori, poiché già precedentemente nell’Ottocento essi ricorrevano al lavoro nei setifici di Lione e Zurigo per sfuggire alle crisi della produzione comasca. In secondo luogo, la ricostruzione dei molti movimenti di maestranze dai tecnici e maestri operai che venivano a loro volta importati nei setifici lombardi dalla Francia e dalla Svizzera, unita a quelli di imprenditori francesi e svizzeri operanti in tutte le principali aree di produzione della seta, a Lione come a Paterson, a West Hoboken e a Como, ha permesso di tracciare una sorta un circuito della seta, al cui interno le distanze geografiche erano ridotte dall’esistenza di uno spazio sociale condiviso31. In terzo luogo si è potuto osservare come questo circuito della seta fosse contiguo e sovrapposto a quello della lana, per cui le destinazioni dei tessitori di seta comaschi coincisero con quelle dei tessitori in lana biellesi32. Gli uni e gli altri infine partecipavano di una forte cultura militante e di radicate convinzioni politiche, tanto che il loro caso costituisce uno dei più noti esempi di quella tradizione socialista e anarchica che gli immigrati italiani portarono con sè nel nuovo mondo. Non è infatti casuale che proprio le ricerche su queste comunità abbiano fornito un importante contributo alla radicale revisione dei luoghi comuni sull’incapacità organizzativa degli italiani, precedentemente attribuita alla loro mancanza di esperienza di lavoro industriale33.
Un caso analogo è offerto dagli scalpellini e dagli scultori in partenza dalle vallate lombarde del Lago Maggiore e in particolare dalla Valceresio, che formarono anch’essi una comunità fondata su condivisi valori di solidarietà di classe oltre che sulla comune provenienza geografica, la cui vicenda è stata oggetto di uno dei primi casi di ricostruzione sui due versanti migratori, quello dell’arrivo e quello della partenza34. In alcuni centri per l’estrazione del granito del Vermont gli scalpellini lombardi formavano il contingente più numeroso di una corrente migratoria formata di artigiani della pietra in arrivo dalle cave di Massa Carrara, dal biellese e dal Trentino, tutti percepiti dagli osservatori locali come lombardi. In particolare, l’importanza delle associazioni, dei giornali e della vitalità politica, oltre che la qualità del lavoro che questi emigranti garantivano, hanno sollecitato già ai tempo della grande migrazione l’attenzione delle analisi statunitensi dell’immigrazione italiana, cui non sfuggiva l’impossibilità di incasellare questi emigranti nei già consolidati stereotipi riguardanti gli emigranti italiani35. Inoltre, la ricerca contemporanea, con la riappropriazione del passato comunitario e dell’epopea sfortunata di una generazione di artigiani, uccisi precocemente dalla silicosi, ha ricucito le fratture dell’esodo, reintegrando la vicenda degli scalpellini emigrati in Vermont nella memoria e nella storia dei loro luoghi di partenza.
Esiti non diversi di recupero collettivo della memoria dell’esodo sono stati sperimentati da un paese dell’alto milanese, Cuggiono, luogo d’origine di una serie di ondate migratorie fin dagli anni Sessanta dell’Ottocento, ricostruite da Gary Mormino all’interno della sua indagine su una piccola e longeva little Italy, quella di Saint Louis nel Missouri36. La dinamica migratoria sottesa all’insediamento di Saint Louis, che sarebbe divenuto negli anni Novanta dell’Ottocento destinazione di una lunga catena migratoria, appare particolarmente illuminante. Infatti le partenze per gli Stati Uniti sono state collocate da Mormino all’interno di un contesto di generalizzato ricorso al lavoro temporaneo all’estero da parte di squadre di uomini che fin dal 1859 avevano lavorato alle dipendenze di un impresario edile del paese. Dalla costruzione delle ferrovie in Spagna queste avevano successivamente partecipato ai più grandi lavori pubblici del momento: dal canale di Suez, alle ferrovie del Congo belga, alle opere stradali intraprese nell’impero Ottomano fra Costantinopoli e la Bulgaria e infine al traforo del San Gottardo. Le donne nel frattempo, di regola occupate nei setifici, venivano inviate talvolta fino in Cina o in Giappone a perfezionarsi nelle tecniche di tessitura della seta. Nel 1880 si verificarono partenze tanto per l’Argentina, quanto per gli Stati Uniti, alla volta delle miniere di rame di Calumet in Michigan e solo per una casuale serie di circostanze la destinazione di questo secondo gruppo divenne invece Detroit, dove il nucleo originario della comunità italiana venne formato da lombardi e piemontesi. Mentre il gruppo partito due anni dopo, diretto alle miniere di Union in Missouri, per uno dei tanti episodi di migrazione nella migrazione, sarebbe stato all’origine dell’insediamento di Saint Louis, che avrebbe trovato il suo centro di aggregazione nella chiesa di Saint Ambrose. La sua vicenda avrebbe avuto una testimone formidabile: Rosa Cassettari, protagonista della più famosa e studiata biografia di una emigrante italiana in America, in un testo pubblicato negli Stati Uniti nel 1970 e tradotto in italiano solo nel 2003, che costituisce ancora un documento insostituibile tanto per l’esperienza dell’emigrazione femminile in Nord America quanto per quella del mondo della manifattura della seta dell’alto milanese, dove Rosa trascorse i primi diciotto anni della sua vita37.
4. Migrazioni dalla Lombardia e modelli regionali
Interrogandosi infine sulla possibilità di tratteggiare un modello regionale lombardo, dovrebbe essere già trapelato al lettore più di un dubbio. Da un lato infatti la risposta potrebbe essere che, sulla base della ricerca fin qui condotta, una regione migratoria effettivamente risulta ben delineata, ma che questa è trasversale alle regioni settentrionali e coincidente con la loro area alpina. In secondo luogo, all’interno di questa regione migratoria, l’intera area biellese-Valsesia-lago Maggiore-lago di Como può costituire una subregione migratoria con suoi caratteri definiti attraverso la pratica dell’esodo stagionale, gli assetti familiari che ne sono derivati, il ruolo delle donne che ne consegue e la prevalente specializzazione nei mestieri dell’edilizia. Anche le Alpi bergamasche e bresciane appaiono essere state zone di esodo, ma con caratteri diversi: tanto che nei ricercatori che all’inizio degli anni Trenta hanno condotto l’inchiesta sullo spopolamento montano promossa dall’INEA c’era la consapevolezza di un confine culturale e sociale: “la montagna lombarda – scriveva Giusti – appare così sotto l’aspetto demografico nettamente divisa in due parti (in corrispondenza delle diverse passate sorti politiche del territorio) e cioè quella appartenente alle province di Varese e di Como, che, per questo riguardo, può considerarsi come la continuazione delle Alpi occidentali e quella delle altre province Bergamo, Brescia e Sondrio, rispettivamente fino alla fine del secolo XVIII appartenenti alla repubblica di Venezia le prime due, sottoposta al cantone dei grigioni la terza”38.
Per concludere, il quadro della ricerca fin qui svolta mostra come, per quanto riguarda la fascia settentrionale della regione, sia utile il ricorso a un modello subregionale o sovraregionale di emigrazione alpina, che presenti al suo interno l’esperienza lombarda come modello prototipico. Quanto al resto della regione, le difficoltà di ricondurre il variegato quadro delle sue molte migrazioni ad un unico modello risultano al momento accentuate dal dato che in questa regione risultano presenti tutte le forme di migrazione principali che sono state identificate in Italia: da quella espressione dell’economia e dalla società di montagna, a quella di mestiere, all’esodo politico39 e a quello industriale. Non sono mancate successive ondate di quella rurale, dalla crisi agraria fino all’abbandono delle campagne del Novecento40, e neppure quella imprenditoriale 41. Per quanto riguarda le rotte inoltre, queste appaiono riproporre l’intera geografia dell’esodo italiano.
La ricerca fin qui condotta sui fenomeni migratori lombardi ha quindi illuminato un quadro regionale complesso, a causa delle molte e differenti realtà agrarie e economiche, da cui deriva da un lato la mancata coincidenza fra regione migratoria e regione amministrativa, ma soprattutto la conferma dell’ipotesi di vaste aree migratorie subregionali e sovraregionali, talvolta contigue ma anche intrecciate o sporadicamente coincidenti con quelle industriali e con quelle dell’agricoltura capitalistica. Inoltre le molte forme assunte dall’esodo dai territori lombardi rinviano a quel “paradosso” che è già stato indicato per il Piemonte, che verifica come l’emigrazione sia stata espressione non già di economie arretrate e stagnanti, ma al contrario si sia alimentata da società percorse da vivaci e innovative spinte manifatturiere42. Infine la molteplicità dei percorsi, delle scelte e dei destini rimanda a una molteplicità di strategie migratorie, di destini e di scelte individuali, non riconducibili meccanicamente ad appartenenze di gruppo o di corrente migratoria, ma attivate da protagonisti partecipi di una società inquieta e contraddittoria43.
Note
1 Cfr. Ercole Sori, Le Marche nell’ emigrazione italiana, in Le Marche fuori dalle Marche. Migrazioni interne ed emigrazione all’estero tra XVIII e XX secolo, a cura di Ercole Sori, I, Ancona, “Proposte e ricerche”, 1998, p. 37. Riguardo alle possibilità di costruire di modelli regionali, cfr. pure Paola Corti, L’emigrazione piemontese: un modello regionale?, “Giornale di storia contemporanea”, III, 2 (2000), pp. 22-41; Patrizia Audenino, Carlo Corsini, Paola Corti, Mauro Reginato, Emigrazione piemontese all’estero. Rassegna bibliografica, Torino, “Quaderni della regione Piemonte”, 1999.
2 Cfr. La Lombardia, a cura di Duccio Bigazzi e Marco Meriggi, in Storia d’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 2001. Riguardo ai confini della Lombardia, cfr. Aldo Carera, Questioni relazionali dell’area economica lombarda tra XVIII e XIX secolo: alcune chiavi di lettura, in Regioni alpine e sviluppo economico. Dualismi e processi d’integrazione, a cura di Fausto Piola Caselli, Milano, Angeli, 2003, pp. 69-86; Brunello Vigezzi, La Lombardia moderna e contemporanea: un problema di storia regionale, “Archivio storico lombardo”, CI, 1 (1975), pp. 262-292.
3 Cfr. Un secolo di emigrazione italiana, a cura di Gianfausto Rosoli, Roma, CSER, 1978.
4 Cfr. Gauro Coppola, La montagna alpina, in Storia dell’agricoltura italiana in età contemporanea, a cura di Piero Bevilacqua, I, Spazi e paesaggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 495; Carlo Cattaneo, Notizie naturali e civili sulla Lombardia, in Opere scelte, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, II, Torino, Einaudi, 1972, p. 465.
5 Cfr. Stefano Jacini, Sulle condizioni economiche della provincia di Sondrio, Sondrio, Banca popolare di Sondrio, 1963, pp. 27-28 (edizione originale Milano e Verona, Stabilmento Civelli Giuseppe, 1858).
6 Cfr. Ivano Pederzani, Società, emigrazione e mobilità demografica nel Varesotto dalla fine del settecento all’unità d’Italia, in Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, a cura di Carlo Brusa e Robertino Ghiringhelli, Varese, Lativa, 1995, p. 75; Melchiorre Gioia, Discussione economica sul dipartimento del Lario (Milano, 1804), Lugano, Ruggia, 1837.
7 Cfr. I. Pederzani, Società, emigrazione e mobilità, cit., p. 77, Risposte ai 45 quesiti, 1751, in Archivio di Stato di Milano, Catasto; Rosalba Canetta, Una fonte per lo studio della mobilità della popolazione nel Settecento: l’inchiesta del 1789 sull’emigrazione nella Lombardia austriaca, Bologna; CLUEB, 1980, pp. 501 ss.
8 Cfr. Ministero di Agricoltura Industria e Commercio, Giunta per l’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, VI, Roma 1882.
9 Cfr. INEA, Lo spopolamento montano in Italia, II, Le Alpi lombarde, Note riassuntive, Prof. Ugo Giusti, p. XLII, e Varesotto-Comasco-Valle Brembana, Prof. Giuseppe Medici, pp. 68 e 70, Roma, 1935. Il corsivo è nel testo.
10 Quest’ultima città sarebbe divenuta provincia autonoma nel 1927, con tutta la parte settentrionale dell’area fino a quel punto denominata come “alto milanese”, cfr. Roberto Romano, La modernizzazione periferica. L’alto milanese e la formazione d’una società industriale 1750-1914, Milano, Angeli, 1990.
11 Cfr. Maurice Aymard, La Sicilie, terre d’immigration, in AA.VV., Les migrations dans le pays mediterranéens au XVII siècle at au debut du XIX siècle, Publications des cahiers du Méditerranée, sérié spéciale, 2, Nice 1973, pp. 147-154.
12 Federico Hermanin, Gli artisti italiani in Germania, II, Gli scultori, gli stuccatori, i ceramisti, Roma, La libreria dello stato, 1935; Arte e artisti lombardi, a cura di Edoardo Arslan, I, Architetti e scultori nel Quattrocento; II, Gli stuccatori dal Barocco al Rococò, Como, Società storica comense, 1959-1964.
13 Rosalba Canetta, Città e campagna nell’esperienza demografica, in Da un sistema agricolo a un sistema industriale: il comasco dal Settecento al Novecento, a cura di Sergio Zaninelli, I, Il difficile equilibrio agricolo-manifatturiero, Como, Camera di Commercio, Industria e Agricoltura, 1987, pp. 479-574; Id., Il perdurante divario tra risorse e popolazione, ibid., II, La lunga trasformazione tra due crisi (1814-1880), Como, Camera di Commercio, Industria e Agricoltura, 1988, pp. 605-640; Id., Popolazione e industrializzazione, ibid., III, L’affermazione industriale (1880-1914), Como, Camera di Commercio industria e agricoltura di Como, 1989, pp. 457-508.
14 Raul Merzario, Il capitalismo nelle montagne, Strategie familiari nella prima fase di industrializzazone del comasco, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 61; cfr. pure Id., Adamocrazia. Famiglie di emigranti in una regione alpina (Svizzera italiana, XVIII secolo), Bologna, Il Mulino, 2000.
15 Per la Valsesia cfr. Mariangela Bodo e Pier Paolo Viazzo, Gli status animarum come fonte storico-demografica: l’esempio di Alagna Valsesia, “Novarien”, 11 (1981), pp. 5-29; Pier Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo a oggi, Bologna, il Mulino, 1989, in particolare pp. 221-222; per il Biellese, i saggi di Paola Corti, Gli stagionali di Sala e Torrazzo nella Serra, in L’emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, Milano, Electa 1986, pp. 161-233; e di chi scrive, Tradizione e mestiere nelle migrazioni dalla valle del Cervo, ibid., pp. 77-160.
16 Cfr. in particolare Emigrazione e territorio: tra bisogno e ideale, cit.
17 Cfr. I. Pederzani, Società, emigrazione e mobilità, cit.; Pierangelo Frigerio, Beppe Galli e Antonio Trapletti, Le valli varesine e l’emigrazione delle maestranze d’arte, ibid., pp. 157-208.
18 Marina Cavallera, L’emigrazione nel corso del secolo XVIII: terre lombarde dell’arco alpino, ibid., pp. 13-74; Id., Imprenditori e maestranze: aspetti della mobilità nell’area prealpina del Verbano durante il secolo XVIII, in Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi in età moderna e contemporanea, a cura di Giovanni Luigi Fontana, Andrea Leonardi e Luigi Trezzi, Milano, Cuesp, 1998, pp. 75-116; cfr. pure Patrizia Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Angeli, 1990.
19 Cfr. Christiane Peter, Operatori prealpini all’estero: negozianti comaschi a Francoforte nel Settecento, in Tra identità e integrazione. La Lombardia nella macroregione alpina dello sviluppo economico europeo (secoli XVII-XX), a cura di Luca Mocarelli, Milano, Angeli, 2002; più in generale, per i caratteri delle tradizioni commerciali alpine cfr. Laurence Fontaine, Histoire du colportage en Europe XVe-XIXe siècles, Paris, A. Michel, 1993; La montagna mediterranea: una fabbrica d’uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), a cura di Dionigi Albera e Paola Corti, Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000.
20 Cfr. Jean-François Belhoste, Le migrazioni dei fabbri bergamaschi nel delfinato, in Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi, cit., pp. 47-54.
21 Cfr. Marina Cavallera, Imprenditorialità e strutture cetuali nel versante italiano delle Alpi in età moderna, in La montagna mediterranea, cit., pp. 71-92.
22 Cfr. Guglielmo Scaramellini, Der pundtner London: commercio, finanza e manifattura nel borgo e nel contado di Chiavenna nel secoli XVI-XIX, in Mobilità imprenditoriale e del lavoro nelle Alpi, cit., pp. 239-268; più in generale Id., Una valle alpina nell’età preindustriale. La Valtellina fra il XVIII e il XIX secolo, Torino, Giappichelli, 1978.
23 Sulle vicende successive dell’emigrazione valtellinese e sulla sua vocazione australiana cfr. Flavio Lacchesi, Caratteristiche e modalità dell’emigrazione valtellinese in Australia dalle origini alla seconda guerra mondiale, in Mondo alpino. Identità locali e forme d’integrazione nello sviluppo economico secoli XVIII-XX, a cura di Pietro Cafaro e Guglielmo Scaramellini, Milano, Angeli, 2003, pp. 271-284; Jacqueline Templeton, Dalle montagne al Bush. L’emigrazione valtellinese in Australia (1860-1960) nelle lettere degli emigranti, Tirano, Museo Etnografico Tiranese, 2001; Guglielmo Scaramellini, L’emigrazione valtellinese e valchiavennasca. Lo stato degli studi e obiettivi per la ricerca, in Valli alpine ed emigrazione. Studi, proposte, testimonianze, a cura di Bruno Ciapponi Landi, Tirano, Museo Etnografico Tiranese, 1997, pp. 17-77; Enrico Bellora et al., L’emigrazione valtellinese e valchiavennasca nel mondo: contributo introduttivo per uno studio sull’argomento, Tirano, Museo Etnografico Tiranese, 1994; Paolo e Valentina Via, La saga dei Tam: lettere degli emigranti valchiavennaschi in America 1880-1981, Sondrio, L’officina del libro, 1994; Antonio Silvio Baitieri, Aspetti nuovi dell’emigrazione valtellinese, Sondrio, Bonazzi, 1988.
24 Cfr. Marco Gandini, Questione sociale ed emigrazione nel mantovano 1873-1896, Mantova, Associazione Mantovani nel mondo, Editoriale Sometti, 2000 (1° edizione 1984); Renzo M. Grosselli, Vincere o morire. Contadini trentini, (veneti e lombardi) nelle foreste brasiliane, Trento, Museo degli usi e dei costumi della gente trentina, 1986; Emilio Franzina, La grande migrazione, Venezia, Marsilio, 1976; Piero Brunello, Emigranti, in Storia d’Italia, Le regioni dall’unità ad oggi, Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984.
25 Cfr. L. Fontaine, Histoire du colportage, cit.; Renzo M. Grosselli, L’emigrazione dal trentino. Dal medioevo alla prima guerra mondiale, Trento, Museo degli usi e dei costumi della gente trentina, 1998; Alessio Fornasin, Ambulanti, artigiani e mercanti. L’emigrazione dalla Carnia in età moderna, Verona, Cierre Edizioni, 1998.
26 Cfr. Domenico Sella, Au dossier des migrations montagnardes: l’example de la Lombardie au XVII siécle, in AA.VV., Mélanges en l’honneur de Fernand Braudel, I, L’histoire économique du monde mediteranéen, Toulouse, Privat, 1975, pp. 544-554; cfr. pure Id., Salari e lavoro nell’edilizia lombarda durante il secolo XVII, Pavia, Fusi, 1968.
27 Cfr. Dionigi Albera, L’emigrante alpino: per un approccio meno statico alla mobilità spaziale, in Gli uomini e le Alpi – Les hommes et les Alpes, a cura di Daniele Jalla, Torino, Regione Piemonte, 1991, pp. 179-206.
28 Cfr. Tra Lombardia e Ticino, a cura di Raffaello Ceschi, Bellinzona, Casagrande, 1995; Id., Migranti, Bellinzona, Archivio storico ticinese, 1992; AA.VV., Col bastone e la bisaccia dall’ arco alpino. Migrazioni stagionali di mestiere dall’arco alpino nei secoli XVI-XVIII, “Bollettino storico della Svizzera italiana”, fascicoli I-IV, gennaio-dicembre, 1991, Giorgio Cheda, L’emigrazione ticinese in California, Locarno, Dadò, 1981; Id., L’emigrazione ticinese in Australia, Locarno, Dadò, 1976.
29 Cfr. AA.VV., Lombardi per il mondo, Milano, Regione Lombardia, Direzione Generale Cultura, 1997; Ferruccio Arnoldi, 50 storie di bergamaschi nel mondo, Bergamo, s.d.; Antonio Fappani e Bernardo Falconi, Bresciani sulle rotte di Colombo, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 1994; Marco Gandini, Questione sociale ed emigrazione nel mantovano, cit.; Elio Benatti, Brasile chiama… Mantova. Una manciata di semi sul terreno della memoria, Comitato Tricolore Italiani nel mondo. Delegazione della Lombardia. Associazione culturale dei Mantovani in Brasile, Associazione mantovani nel mondo, Verdello (BG), Tipolitografia Gamba, 1998; Guido Cavicchioli, L’esodo dalle campagne del mantovano, Mantova, Istituto mantovano per la storia del movimento di Liberazione, 1991.
30 Patrizia Sione, Storia delle migrazioni e storia del movimento operaio: il caso dei tessili comaschi e biellesi nel New Jersey (USA) 1880-1913, in La riscoperta delle Americhe. Lavoratori e sindacato nell’emigrazione italiana in America latina 1870-1970, a cura di Vanni Blengino, Emilio Franzina e Adolfo Pepe, Milano, Teti, 1994, pp. 277-290
31 Rispetto alla dimensione “non euclidea” dello spazio migratorio cfr. Maurizio Gribaudi, Introduzione a Movimenti migratori e mobilità sociale, in SIDES, Disuguaglianze. Stratificazione e mobilità sociale nelle popolazioni italiane dal secolo XIV agli inizi del secolo XX, Bologna, Clueb, 1997, pp. 171-176.
32 Per le circostanze dell’esodo di questi ultimi cfr. Franco Ramella. Terra e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984.
33 Cfr. tra gli altri, The Lost World of Italian-American Radicalism, a cura di Philip Cannistraro e Gerald Meyer, Westport CT, Praeger, 2003; Donna Gabaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal medioevo a oggi, Torino, Einaudi, 2003; Id., Worker internationalism and italian labor migration 1870-1914, “International Labor and Working-Class History”, 45 (1994), pp. 63-79; Rudolph Vecoli, The italian immigrants in the United States Labor movement from 1880 to 1929, in Gli italiani fuori d’Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi d’adozione 1880-1940, a cura di Bruno Bezza, Milano, Angeli, 1983, pp. 257-306.
34 Cfr. Carlo Brusa, Barre Vermont: il granite center of the world e l’immigrazione italiana, I, “Lombardia Nord Ovest”, n. 1 (1992), pp. 21-45, II, ibid., n. 1 (1993), pp. 27-43; Quando in Valceresio si emigrava (1861-1915), a cura di Id., Varese, Comunità montana Valceresio, 1990; Patrizia Audenino, Tradizione e mestiere nelle migrazioni dalla valle del Cervo, cit., Id., Storie di pietra: gli scalpellini di Barre e l’Aldrich Public Library, “Movimento operaio e socialista”, 9 (1986), pp. 425-432.
35 Cfr. Robert Foerster, The italian emigration of our times, Cambridge, Harvard University Press, 1919; Brayley Arthur Wellington, History of the Granite industry of New England, Boston, National Association of Granite Industries, 1913.
36 Cfr. Gary Ross Mormino, Immigrants on the hill. Italian-Americans in St. Louis 1882-1982, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 1986. Sull’emigrazione da quest’area cfr. pure Ernesto Milani, Victoria, Texas e Silton, Saskatchewan, l’altro aspetto del mito della ferrovia, in Emigrazione e territorio, cit., II, pp. 259-270; Id., L’esperienza lonatese nelle Americhe, in Monate Pozzolo, Storia Arte e Società, Gavirate, Nicolini editore, 1985, pp. 361-372.
37 Marie Hall Ets, Rosa. The life of an italian immigrant, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1970 (trad. it. Rosa. Vita di una emigrante italiana, Cuggiono, Ecoistituto della valle del Ticino, 2003); Chana Gazit, Breaking free: a woman’s journey, documentario PBS, USA, 2004 in Destination America; Andreina De Clementi, L’America di Rosa, in Il racconto delle donne, a cura di Angiolina Arru e Maria Teresa Chialant, Napoli, Liguori, 1990; Maria Parrino, Breaking the silence: autobiographies of italian immigrant woman, “Storia nordamericana”, V, 2 (1988), pp. 137-158.
38 INEA, Lo spopolamento montano in Italia, II, Le Alpi lombarde, Note riassuntive, cit., p. XXXVIII.
39 Cfr., fra gli altri, Marco Sioli, Nella terra della libertà: Luigi Tinelli in America, in I Tinelli. Storia di una famiglia (secoli XVI-XX), a cura di Marina Cavallera, Milano, Franco Angela, 2003, pp. 67-92; Maria Luisa Betri, Cittadella e Cecilia, due sperimenti di colonia agricola socialista, Milano, Edizioni del gallo, 1971 sull’esperienza del bresciano Giovanni Rossi. Per una riflessione recente sui molti risvolti rivestiti dall’esodo politico cfr. Matteo Sanfilippo, Problemi di storiografia dell’emigrazione italiana, Viterbo, Settecittà, 20052.
40 Cfr. Guido Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, Roma, Donzelli, 1994; Guido Cavicchioli, L’esodo dalle campagne nel mantovano, cit.; Giuseppe Pellizzi, Spostamenti d’attività delle popolazioni agricole del basso milanese e loro correnti migratorie, in Aspetti problemi realizzazioni di Milano. Raccolta di scritti in onore di Cesare Chiodi, Milano, Giuffré, 1957.
41 Sia sufficiente ricordare che l’eroe dell’imprenditoria italiana all’estero Enrico Dell’Acqua, partiva per la sua avventura argentina da Busto Arsizio, in provincia di Milano. Cfr. Luigi Einaudi, Un principe mercante. Studio sulla espansione coloniale italiana, Torino, Bocca, 1900. Sull’emigrazione lombarda in Argentina cfr. Eugenia Scarzanella, Italiani in Argentina: storie di contadini, industriali e missionari italian in Argentina, 1850-1912, Venezia, Marsilio, 1983; José Oscar Frigerio, Italianos en la Argentina: los Lombardos, Buenos Aires, Asociación Dante Alighieri, 1990; Ludovico Incisa di Camerana, I Lombardi in Argentina, “Politica Internazionale”, 2 (1999), pp. 205-212; Anna Maria Minutilli, Italo argentini. Una diaspora, Mantova, Edizioni Mantovani nel mondo, 2003.
42 Cfr. Valerio Castronovo, Lavoro ed emigrazione nella storia della comunità biellese, in L’emigrazione biellese fra ottocento e Novecento, cit., pp. 39-76; Franco Ramella, Emigration from an Area of Intense Industrial Development: the Case of Northwestern Italy, in A century of European migration, 1830-1930, a cura di Rudolph Vecoli e Suzanne M. Sinke, Saint Paul-Minneapolis, University of Minnesota Press, 1986.
43 Giancarlo Consonni e Graziella Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in La Lombardia, cit.; Angiolina Arru, Joseph Ehmer e Franco Ramella, Premessa, “Quaderni storici”, 106 (2001), pp. 3-23.