L’immigrazione italiana in Alto Adige: approcci e questioni

Il presente contributo raccoglie i primi risultati di una ricerca in corso sull’immigrazione italiana in Alto Adige dagli anni Venti al secondo dopoguerra. Trattandosi di un lavoro in progress, mantiene – così come il titolo richiama – i caratteri di “provvisorietà” tipici di ogni studio che attenda ulteriori approfondimenti ed ulteriori analisi. Aggiungiamo che la scelta di soffermare la nostra attenzione in particolare sul Ventennio è dovuta al carattere di bozza, che ancora assumono le parti relative al periodo del secondo dopoguerra.
Sul piano della ricerca l’immigrazione italiana in Alto Adige ha solo in parte incrociato l’interesse degli studi storici. I motivi di questa scarsa fortuna sono molteplici e affondano nella ricezione della stessa storia, che ha accompagnato l’immigrazione e lo stabile insediamento degli italiani in questa provincia di confine.

Le correnti migratorie provenienti dalle altre regioni italiane, che contrassegnano un periodo che va dagli anni Venti alla metà degli anni Cinquanta, sono un fenomeno collocato e compreso dentro al capitolo della cosiddetta questione altoatesina. Il riferimento risulta significativo, se si tiene presente che la storia della questione altoatesina è venuta ad assumere, anche grazie ad una sterminata produzione di studi e di ricerche, il valore di paradigma interpretativo del XX secolo. L’Alto Adige come problema di confini, di nazionalità, di “etnie”, non è solo il filo rosso a cui si riconducono gran parte degli eventi e dei processi storici che hanno attraversato il secolo, è anche il profilo di un territorio, che si proietta e si riconosce dentro ad una chiusa della sua storia. Non è possibile discutere in questa sede le molte implicazioni che ne derivano da un punto di vista storiografico, si possono semmai tentare alcune riflessioni in merito al tipo di approccio, con cui è stato affrontato il capitolo dell’immigrazione italiana.

1. Una storia fatta con i numeri

Un primo aspetto da considerare è la prevalenza di analisi che privilegiano la lettura quantitativa del fenomeno. Si deve soprattutto ai molti studi e alle numerose ricerche, pubblicati a partire dall’immediato dopoguerra, la ricchissima produzione di dati e calcoli statistico-demografici sulla consistenza dei flussi migratori. È il periodo in cui si comincia a dover “fare i conti” con il riconoscimento e la ricostruzione degli equilibri tra i diversi gruppi linguistici e per i sudtirolesi, finiti i tempi in cui era vietato “contarsi” come minoranza, è il momento di chiedere, anche con la forza dei
numeri, garanzie di tutela e di autogoverno nel proprio territorio. Alle stime ed alle statistiche sullo stato e sul movimento della popolazione, ai calcoli sull’andamento dello scambio migratorio con le regioni italiane, sono assegnati due importanti e delicati compiti: monitorare l’andamento degli equilibri tra i gruppi, supportare richieste e rivendicazioni di natura politica, economica, sociale e culturale.
Nonostante le scarse e non sempre attendibili fonti, la parzialità di talune analisi scientifiche e la provvisorietà che caratterizza qualsiasi indagine quantitativa dei fenomeni migratori, si può dire che oggi abbiamo a disposizione sufficienti dati, per ricostruire con buona approssimazione le stime sull’immigrazione italiana in Alto Adige. Il vivo interesse per questo specifico aspetto, che ha monopolizzato l’attenzione al tema fino alla fine degli anni Sessanta, segnando un interessante parallelismo con la cronologia politico-istituzionale della “questione altoatesina”, ha contribuito da una parte a tracciare una prima possibile pista di ricerca, dall’altra ha caricato i “numeri” di un significato interpretativo, che va ben oltre al loro valore documentario. Il computo degli italiani giunti in Alto Adige è diventata la “cifra” per comprendere e interpretare l’intero complesso fenomeno dell’immigrazione; una sorta di unità di misura capace di dare conto più della profondità di alcuni cambiamenti in atto, che della loro ampiezza.
Non va poi dimenticato che, dal dopoguerra, gli altoatesini di lingua italiana hanno cominciato a configurarsi come gruppo linguistico, insieme alla minoranza di lingua tedesca e ladina, nel complesso quadro degli equilibri garantiti dall’assetto autonomistico e, in quanto gruppo linguistico, attentamente studiati dalle statistiche socio-economiche-demografiche.

Con tali premesse, l’interesse verso la conoscenza del fenomeno dell’immigrazione italiana si è venuto concentrando prevalentemente attorno alle ragioni ed al peso della presenza italiana in Alto Adige e si è coniugato dentro alla storia di un territorio, che si autorappresentava più nella stabilità, che nella mobilità. È soprattutto emersa una lettura attenta a ricondurre la storia dell’immigrazione italiana alle ragioni della politica fascista di italianizzazione forzata, che, se da una parte ha avuto il merito di evidenziare l’importanza di questo nesso, dall’altra ha finito per fornire una visione poco articolata del fenomeno. Sono rimasti a margine tutti gli elementi di indagine e di conoscenza sui percorsi di integrazione nel nuovo ambiente sociale, professionale, culturale, sulle tipologie dell’insediamento e sulle forme di radicamento.

2. Il chiavistello dell’identità di gruppo

Un secondo aspetto che emerge dai contributi di ricerca che si sono confrontati, più o meno approfonditamente, con la realtà dell’immigrazione italiana, è il richiamo a concetti di “identità”, “gruppo”, “comunità”, come chiavi per interpretare le modalità con cui gli italiani sono entrati in rapporto con il territorio, la società
locale e le sue culture di riferimento. Si tratta di qualche raro studio, e più frequentemente di cenni all’interno di opere sulla questione altoatesina, che hanno iniziato ad affrontare il problema del radicamento della popolazione di lingua italiana, insediatasi in Alto Adige. Pur non costituendo un corposo lascito di studi, tale da giustificare un possibile bilancio critico, questi contributi sono interessanti da analizzare per cercare di capire in che direzione si è mossa la ricerca e a che domande ha cercato di dare risposta.
Sul piano dell’analisi storica relativa agli aspetti dell’insediamento e dell’articolazione sociale e culturale degli italiani in Alto Adige, fa ancora scuola il profilo tracciato dallo storico Claus Gatterer, che in un’opera edita nel 1968, Im Kampf gegen Rom (In lotta contro Roma), parlava del gruppo italiano come di un “gruppo etnico senza coesione”, senza radici, perché privi – gli italiani – di “naturali” e comuni legami originari: “non avevano un dialetto comune; non avvertivano la solidarietà che deriva dall’essere originari di un villaggio o di una valle; nelle abitudini alimentari, familiari e domestiche c’erano fra gli emigrati da Torino o dal Friuli e quelli dalle Marche le stesse grandi differenze che ci sono fra i sudtirolesi e i lombardi”1. I processi di inurbamento, accanto alle differenti appartenenze e provenienze, portavano a concludere che gli italiani erano piuttosto “una polvere di individui”2.
Gatterer ha il merito di affrontare il problema delle modalità con cui gli italiani sono entrati in contatto con la realtà locale, di cogliere alcuni dei fattori che possono averne ostacolato il processo di integrazione e di offrire degli elementi di confronto tra mentalità e culture differenti. La sua analisi, però, risente dell’interpretazione su cui è prevalentemente costruito l’impianto dell’intera ricerca: la lotta contro Roma e la rivendicazione dell’autonomia di governo, letta dalla prospettiva dei rapporti di potere, ha come corollario la storia delle minoranze, che reclamano il diritto di difendere tanto la loro singolarità (identità), quanto le ragioni che le legano al territorio (le radici culturali). Un approccio che inchioda la lettura dei processi di radicamento nello scarto tra identità territoriali “forti” (quella tedesca e ladina) e identità “deboli” (quella italiana). Non stupisce, così, che alla fine scaturisca un’immagine degli italiani immigrati definita più per quello che gli italiani non sono (cioè, un gruppo etnico coeso) e non hanno (cioè, legami originari con il territorio).
La domanda se gli italiani possano considerarsi “gruppo”, se possano anche loro far valere una propria “identità”, tale da risultare fondativa di un più stretto legame con il territorio, ha continuato ad occupare l’interesse degli studiosi, più della curiosità di capire come si sono integrati in Alto Adige – indipendentemente dal fatto che siano rimasti un “gruppo senza coesione” – e quali sono i motivi della persistenza di una frammentazione culturale ed identitaria. Rispetto ai primi interrogativi, la gravitazione attorno ai concetti di “identità”, “gruppo”, ha fornito risposte in parte scontate e costretto l’analisi a talune forzature; rispetto ai secondi non ha potuto, né saputo darne.

 

3. Dinamiche demografiche ed entità dei flussi
L’analisi sullo stato e sul movimento della popolazione, considerati sulla base dei dati statistici disponibili e in un arco di tempo che comprende le risultanze dei censimenti del 1910 e del 1971, è il punto di partenza per inquadrare tendenze e caratteristiche dell’immigrazione italiana in Alto Adige.
Una prima rapida panoramica porta ad osservare che, per consistenza ed incidenza sull’aumento della popolazione, il fenomeno interessa soprattutto la prima metà del XX secolo. A partire dal 1956 le statistiche ufficiali indicano, per i decenni seguenti, dei saldi migratori negativi, da imputare soprattutto ad una marcata perdita migratoria verso l’Italia3. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in sostanza, con l’eccedenza delle partenze sugli arrivi, si inverte una tendenza, che aveva connotato le dinamiche del movimento migratorio in Alto Adige. Per completare questo dato d’insieme, che già permette di definire una possibile periodizzazione storica e che va riferito ad un computo statistico che interessa l’intero territorio provinciale, si può aggiungere che Bolzano – il capoluogo – rappresenta una significativa eccezione. Il saldo migratorio relativo allo scambio con altre province italiane resta, infatti, quasi sempre positivo fino alla fine degli anni Sessanta.
La lettura comparata dei ritmi di crescita della popolazione altoatesina e di quella delle vicine regioni alpine del versante austriaco, nel periodo compreso tra il 1910 ed il 1951, mostra che, se da un lato lo sviluppo demografico non descrive tendenze vistosamente divergenti, dall’altro presenta particolari differenze rispetto a specifiche spinte di crescita, presenti in Alto Adige4. L’analisi da vicino delle curve relative allo sviluppo della popolazione nel Tirolo del nord e del sud evidenzia come, al di qua ed al di là del Brennero, la crescita proceda quasi parallela fino a circa la metà degli anni Trenta. Da quel punto in poi, la curva in Alto Adige fa segnare una punta, per poi ridiscendere negli anni Quaranta e risalire dal 1945. Nel Tirolo, al contrario, é riconoscibile una crescita della popolazione dall’inizio degli anni Quaranta e una fase di crescita più contenuta, a partire dal 1945. Lo specifico andamento di queste due curve, come è stato notato5, è facilmente spiegabile, tenendo presente che la divisione in due del Tirolo nel 1919 ha comportato, a nord e a sud del Brennero, un’evoluzione politica assai diversa. Ciò che il raffronto dei dati relativi all’aumento della popolazione nel Tirolo del sud e del nord mette in luce, è che, accanto al movimento naturale della popolazione, è il movimento migratorio a determinare le complementari corrispondenze descritte. L’insediamento degli italiani in Alto Adige a partire dagli anni Venti, il trasferimento di decine di migliaia di sudtirolesi oltre Brennero in seguito alle opzioni del 1939 ed il ritorno di parte di questi dopo il 1945, sono i fattori che maggiormente incidono sui rispettivi aumenti e diminuzioni della popolazione.
Se si restringe il quadro dell’analisi sullo sviluppo demografico alla sola provincia di Bolzano, al suo capoluogo e alla consistenza numerica dei gruppi linguistici, è possibile illustrare nel dettaglio quelle specifiche spinte di crescita, a cui prima si faceva cenno6.

 

Tabella 1: Sviluppo demografico in Alto Adige

anni popolazione residente differenza % crescita annua
1910 * 251.451
1921/23 256.610 5.159 0,19
1934 296.486 39.876 1,19
1939 322.162 25.676 1,7
1943 292.444 29.718 2,3
1946 305.944 13.500 1,53
1949 327.763 21.819 2,37
1951 334.506 6.743 1,03
1961 374.471 39.965 1,19
1971 414.437 39.966 1,07

* popolazione presente

Tabella 2: Sviluppo demografico a Bolzano
(i dati relativi agli anni dal 1935 al 1971 si riferiscono alla popolazione residente ad inizio anno)

anni popolazione residente differenza % crescita annua
1910 * 30.424
1921 32.679 2.255 0,67
1935 40.788 8.109 1,77
1939 56.812 16.024 9,8
1943 64.494 7.682 3,38
1946 61.778 -2.716 -1,4
1949 71.003 9.225 4,97
1951 71.900 897 0,63
1961 87.115 15.225 2,11
1971 106.009 18.894 2,17

*popolazione presente

Tabella 3: Popolazione per gruppi linguistici

1910 1921 1939 1943 1947 1953 1961 1971
TED.-LAD. 221.492 212.273 245.900 186.932 204.200 226.953 245.311 275.807
Percentuale 97,0 91,3 75,3 64,1 66,9 66,5 65,6 66,6
Differenza -9.129 33.627 -58.968 17.286 22.753 18.358 30.496
Crescita ann. 0,38 0,88 –6,0 2,3 1,85 1,01 1,24
ITAL. 6.950 20.306 80.743 104.766 101.000 114.568 128.271 137.759
Percentuale 3,0 8,7 24,7 35,9 33,1 33,5 34,3 33,3
Differenza 13.356 60.437 24.023 -3.766 13.568 13.703 9.488
Crescita ann. 17,47 16,53 7,5 –0,9 2,23 1,49 0,73
TOTALE 228.442 232.579 326.643 291.698 305.200 341.521 373.582 413.566
Differenza 4.137 94.064 -34.945 13.502 36.321 32.061 39.984
Crescita ann. 0,16 2,24 –2,68 1,15 1,98 1,17 1,07

 

Il semplice raffronto dei dati esposti mostra quanto i ritmi di crescita della popolazione, nei primi cinquant’anni del XX secolo, siano soggetti a oscillazioni, difficilmente riconducibili ad un equilibrato e “naturale” movimento demografico. A fronte di un movimento naturale della popolazione che cresce annualmente negli anni Trenta tra lo 0,9% e l’1,2%7, la rapida progressione del gruppo linguistico italiano (tab. 3), in particolare, esplicita con chiarezza il consistente apporto fornito dall’immigrazione di italiani provenienti da altre province, all’aumento complessivo della popolazione. È stato calcolato che tra il 1921 ed il 1939 il flusso migratorio dall’Italia abbia raggiunto una cifra stimabile tra le 55-56.000 unità8, assumendo soprattutto negli anni Trenta la fisionomia di una migrazione di “massa”. I dati statistici indicano il 1937 come anno culmine, sia per quanto riguarda l’immigrazione in provincia, che nel capoluogo. Nell’intero territorio provinciale si contano più di 24.000 nuovi arrivi, di cui quasi 10.000 nella sola Bolzano9.
Confrontando i valori relativi alla provincia e al capoluogo, ricordando che i dati di Bolzano riguardano la popolazione residente ad inizio anno, è possibile indicare nella città il maggiore polo di attrazione degli italiani. Le considerevoli spinte date dall’immigrazione italiana all’aumento della popolazione nel periodo 1921-1939, risultano altrettanto evidenti, se lette – oltre che dalla chiave rappresentata dalla consistenza numerica del gruppo italiano (tab. 3) – attraverso la comparazione dei ritmi di crescita demografica della provincia e del suo capoluogo: rispettivamente, il 3,19% ed il 9,23% annui.
Negli anni 1939-1943 l’andamento dello sviluppo demografico in Alto Adige è maggiormente influenzato dalla perdita netta di parte della sua popolazione: circa 75.000 sudtirolesi, optanti per la Germania, vengono trasferiti nei territori del Reich. Le correnti migratorie dall’Italia permangono10, anche se non è possibile quantificare la loro esatta consistenza. Ciò che si può desumere dall’osservazione dei livelli di crescita annua del gruppo linguistico italiano (tab. 3), è che la media del 7,5% resta comunque di molto superiore ai valori del movimento naturale della popolazione altoatesina, che tra il 1939 ed il 1943 oscillano tra l’1,2% e l’1,6%.
Dalle fonti statistiche del Comune di Bolzano, che non registrano dati per gli anni 1941 e 1942, sappiamo che, ancora all’inizio del 1940, il saldo migratorio relativo allo scambio con altre province italiane è di 4.440 unità. Un apporto, che di fatto bilancia il segno negativo del saldo con l’estero (- 4.682), dovuto alla partenza degli optanti. Tra il 1943 ed il 1945, gli anni dell’occupazione tedesca, anche il saldo migratorio con l’Italia diventa di segno negativo (-3.102), interrompendo per la prima volta, dopo circa 20 anni, il flusso costante di un’immigrazione, che aveva contribuito a mutare profondamente e strutturalmente la composizione etnica della popolazione.
Negli anni del dopoguerra i ritmi di crescita della popolazione altoatesina tendono progressivamente a riassestarsi. Nel 1953 (tab. 3) la percentuale di crescita annua del gruppo linguistico tedesco è prossima ai tassi di crescita della popolazione

complessiva. Il gruppo linguistico italiano, ormai lontano dalle spinte degli anni Venti e Trenta, si avvicina a livelli di crescita “naturali”. Osservando le risultanze relative all’aumento tendenziale dei periodi 1910-1943 e 1947-1971 (tab. 4), si può concludere che, nei circa trent’anni trascorsi dal dopoguerra, i ritmi con cui progrediscono tedeschi-ladini e italiani, non solo appaiono quasi equivalenti, ma di fatto si allineano alla percentuale di crescita complessiva della popolazione.

Tabella 4: Popolazione per gruppi linguistici

1910-1943 1947-1971
TED.-LAD. 221.492 186.932 204.200 275.807
Differenza -34.560 71.607
Crescita ann. -0,47 1,46
ITAL. 6.950 104.766 101.000 137.759
Differenza 97.816 36.759
Crescita ann. 42,64 1,5
TOTALE 228.442 291.698 305.200 413.566
Differenza 63.256 108.366
Crescita ann. 0,83 1,47
Il movimento migratorio, come già anticipato, fa segnare dei saldi positivi fino al 1955, dovuti al ritorno in patria di parte degli optanti e alla ripresa dell’immigrazione italiana nei primi anni del dopoguerra. Secondo le stime più attendibili11, tra il 1945 ed il 1954 sarebbero giunti in Alto Adige tra i 20 e i 25 mila italiani, provenienti da altre province. Una parte consistente di questo flusso si concentra nel capoluogo e in alcuni comuni della Bassa Atesina. In quest’ultima zona, secondo una ricerca condotta nel 195612, si stabilisce quasi il 50% degli italiani arrivati in Alto Adige. A Bolzano, nell’arco di circa dieci anni (1946-1955), la somma dei saldi migratori “da e per altre province” porta a quantificare in 9.306 unità, il numero degli italiani trasferitisi nel capoluogo, di cui più della metà (4.946) tra il 1946 ed il 1948.
La città, diversamente dalle dinamiche osservabili per l’intero territorio provinciale, resta interessata fino alla fine degli anni Sessanta da tassi di crescita della sua popolazione, a cui l’immigrazione italiana continua a contribuire in modo quasi ininterrotto. I ritmi di questa crescita appaiono comunque molto distanti da quelli registrati nel periodo che va dal 1921 al 1943 (9,23% annuo). I saldi del movimento migratorio nel comune di Bolzano, inoltre, evidenziano – a partire dal 1954 e con la sola eccezione del 1961 – come i flussi dall’Italia vadano via via riducendosi per consistenza e anche per eccedenza, rispetto a quelli che interessano lo scambio tra città e provincia13.

 

4. Aspetti politici e sociali dell’immigrazione italiana nel Ventennio
Contrariamente all’immagine anti-urbana ed anti-emigratoria che il fascismo seppe propagandare, il Ventennio fu un periodo di “vasto rimescolamento di popolazione”14. Quell’Italia che si voleva arroccata tra natalità e radicamento, capace di risolvere una volta per tutte il problema delle migrazioni e degli emigranti, era in realtà un Paese attraversato da notevoli ed inarrestabili flussi migratori. Le leggi del 1931 e del 193915, istituite allo scopo di disciplinare gli spostamenti interni di popolazione ed arginare la pressione degli immigrati sulle città, furono “un fatto più di immagine che di impegno effettivo”16. Il regime trovò nella propaganda un ottimo strumento per presentare con enfasi i risultati – di fatto scarsi – raggiunti nel campo della lotta contro l’urbanesimo e dei trapianti di popolazione nelle zone di bonifica. Se da una parte il fascismo poteva annunciare l’avvenuto trasferimento di circa un centinaio di migliaia di persone nelle zone di bonifica e di colonizzazione – tante furono nel periodo 1930-1938 – dall’altra erano i milioni di persone che cambiavano residenza di propria iniziativa, a denunciare tutti i limiti della politica demografica del regime.
Nell’arco di 15 anni (1923-1939) si registrò un incremento del 150% circa nel ritmo degli spostamenti di popolazione all’interno del territorio italiano. E nel 1937, anno in cui anche in provincia di Bolzano si raggiunse il più alto numero di immigrati, si toccò la cifra di 1,5 milioni di persone iscritte in un comune diverso da quello di residenza; un dato raggiunto di nuovo solamente nel 1961, nel periodo del cosiddetto “miracolo economico”. Le ragioni di un simile incremento delle migrazioni interne nel Ventennio vanno ricercate, secondo Treves, nella chiusura degli sbocchi transoceanici ed europei.
Le grandi aree urbane e industriali del nord (Liguria, Piemonte, Lombardia), ma anche Roma, furono poli di attrazione per masse di popolazione che provenivano prevalentemente dal sud e dal Veneto. E gli osservatori contemporanei cominciarono a parlare di “migrazioni vastissime”, oltre che di venetizzazione e meridionalizzazione della popolazione italiana17. In sostanza, prese avvio proprio negli anni Venti e Trenta un fenomeno che per caratteristiche, ampiezza e direttrici anticipava le grandi migrazioni interne dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta.
Nel quadro di grande mobilità della popolazione in tutto il territorio nazionale, l’immigrazione italiana in Alto Adige si riconosceva in quelle “particolari correnti migratorie, direttamente alimentate da specifiche politiche del regime fascista”18: – la politica di “italianizzazione” portava nella provincia di Bolzano coloni, impiegati e operai; – la politica di “sbracciantizzazione”19 spostava nuclei familiari – soprattutto ex contadini, affittuari, piccoli proprietari – nelle aree di bonifica (la zona di Sinigo presso Merano fu una di queste) e nelle città di nuova fondazione nel Centro e in Sardegna; – la politica di sventramento dei nuclei storici di grandi città che espelleva molti Giorgio Mezzalira 151 abitanti dalle proprie abitazioni, confinandoli nelle “borgate” e nelle periferie urbane.
L’Alto Adige costituì, dunque, un territorio da conquistare con l’immigrazione di popolazione italiana proveniente dalle altre province, secondo un chiaro disegno politico. Mussolini lo espose al Prefetto Ricci (15 gennaio 1927) in forma di precise istruzioni sulle mete da raggiungere per il governo della neo-costituita Provincia di Bolzano20. Al primo punto, l’uso politico della leva demografica per modificare artificiosamente la composizione “etnica” della popolazione. L’accelerazione imposta al trapianto di italiani in Alto Adige perseguiva coerentemente i programmi del regime, per giungere all’edificazione di una provincia italiana e fascista.
Fino ai primi anni Quaranta il numero degli italiani in Alto Adige crebbe costantemente e in modo consistente, ma l’obiettivo politico, di cui l’immigrazione era diventata strumento, fu solo in parte raggiunto.
L’ottimismo trasmesso dai risultati raggiunti dall’azione del regime in Alto Adige, che periodicamente si traduceva nei numeri delle grandi opere messe in cantiere e che aveva come esempio privilegiato lo sviluppo del capoluogo Bolzano, corrispondeva più alle necessità di alimentare l’immagine pubblica della “grandezza” del fascismo, che all’effettivo grado di penetrazione italiana in provincia. Dalle relazioni sulla situazione dell’Alto Adige che giungevano a Mussolini dai prefetti, oltre che dalle lamentazioni di Ettore Tolomei che si vantava di conoscere benissimo l’Alto Adige e di vivere “non nelle Prefetture, ma in campagna fra i contadini”21, emergeva un profilo del processo di italianizzazione assai meno compiuto ed efficace delle aspettative22.

L’“italianizzazione imperfetta”, come opportunamente lo storico Andrea di Michele ha definito l’opera dell’amministrazione dei governi italiani in Alto Adige dall’annessione alla fine del fascismo23, fu il frutto della combinazione di una serie di limiti, di incapacità e di difficoltà oggettive. La mancanza di una classe dirigente che si voleva selezionata per amministrare la nuova provincia di confine, il non facile compito che comportava la “conquista” del nuovo territorio, ovvero di portare a soluzione il “problema” della minoranza linguistica di lingua tedesca, la presenza in loco di forze, pronte a far valere la propria autorità e a stabilire tempi e modi del processo di italianizzazione ad ogni passo del governo di Roma interpretato come cedimento24, furono elementi che condizionarono il raggiungimento degli obiettivi.

5. L’immigrazione come politica

Prima del 1922 la presenza italiana in Alto Adige era cresciuta in conseguenza dell’annessione del Sudtirolo all’Italia ed all’arrivo della nuova amministrazione del Regno. Per quanto gli italiani numericamente rimanessero una realtà assolutamente minoritaria, il censimento del 1921 registrava un incremento sostanziale nella percentuale
della popolazione italiana rispetto a dieci anni prima (vedi Tab. 3).
L’avvento del fascismo impresse una sterzata alla politica di italianizzazione, ma l’immigrazione non fu fin da subito considerata come l’elemento risolutivo. La conquista della nuova provincia, come conquista politica, poggiava – oltre che sulle leggi dello Stato fascista – sull’opera dei funzionari e dei gerarchi.
Negli anni Venti giunse in Alto Adige una fitta schiera di impiegati pubblici alle dipendenze dello Stato, personale militare, manodopera impiegata nei cantieri edilizi e nella costruzione di grandi opere pubbliche, coloni impegnati in opere di bonifica e operai assunti presso lo stabilimento della Montecatini, sorto vicino a Merano. Questa ondata migratoria, che pur faceva affidamento sull’arrivo in Alto Adige di coloni ed operai per facilitare la crescita di centri italiani25, era soprattutto tesa a favorire l’impianto dell’apparato politico e amministrativo, quale espressione compiuta della centralizzazione del potere e dell’autorità dello Stato Fascista26. Il regime si adoperò innanzitutto per permettere l’arrivo e la permanenza in Alto Adige di funzionari ed impiegati civili, con al seguito le loro famiglie, chiamati al compito di rappresentarlo con dignità e prestigio. Il trasferimento di sede degli impiegati e dei funzionari dello Stato venne ad assumere in Alto Adige, a differenza delle altre province italiane, il significato di un’urgenza e di una volontà “nazionale”. Lo documenta non solo l’azione di pressione svolta all’interno del Governo da alcuni esponenti dell’ala nazionalista, Federzoni tra tutti, per trovare una corsia preferenziale, capace di dare una risposta immediata in termini di interessamento e di finanziamenti. Lo testimonia anche la convinta adesione dei “tecnici”, non di leva politica, chiamati a dirigere con spirito “aziendalista” ed “efficientista” i nuovi enti centralizzati dell’amministrazione fascista. La necessità di trasferire in Alto Adige “impiegati tra i più valorosi che alto avessero il senso di italianità, che sentissero l’orgoglio della Patria” e che con la loro presenza facessero sentire il respiro “dell’aria nuova, penetrata su fino al Brennero per le vallate altoatesine, con la marcia delle Camicie Nere”, era quanto auspicava, con evidente slancio nazionalista, il segretario generale dell’INCIS ing. Paolo Angella, allontanato dall’incarico nel 1933 su pressione del PNF27.

Gli italiani giunti in Alto Adige, a dispetto degli auspici, si trovarono in difficoltà sia nell’affrontare la realtà della nuova provincia “riconquistata” all’Italia, sia nel farsi interpreti del “vero” spirito nazionale, che avrebbe dovuto caratterizzarla:

I dipendenti statali dislocati a Bolzano dal fascismo vivevano spesso la loro nuova sede come precaria, se non addirittura come punitiva, e non erano interessati ad acquistarvi una casa in proprietà. Accadde così che, quando il Governo intervenne (Decreto Legge n.1765 del 29.7.27, convertito in legge il 13.8.28 n. 2102) in favore dell’edilizia agevolata a Bolzano, stanziando nel 1927 un fondo di lire 5 milioni – che rappresentava un concorso del 20% sulla spesa delle costruzioni di case popolari ed economiche, per le quali metà dei costi era a carico dell’ente costruttore (IACP di Venezia) e solo il 30% degli acquirenti – questi non si trovarono28.
La preoccupazione di assicurare in Alto Adige la presenza e l’opera di italiani “degni di questo nome”, portò il Duce a prescrivere espressamente ai prefetti di vigilare sul loro contegno29. Si interveniva in tal modo con un provvedimento di natura disciplinare, su un problema che traeva in realtà origine, come già osservato, dai limiti e dall’impreparazione, che contrassegnarono l’amministrazione fascista in Alto Adige.
La constatazione del ritardo e dei limiti che incontrava la politica di assimilazione della minoranza di lingua tedesca, dettò a Mussolini la scelta di attribuire all’immigrazione degli italiani in Alto Adige una valenza di importanza strategica. A pochi mesi di distanza dalla trasmissione delle direttive per la creazione della provincia di Bolzano al prefetto Ricci, dove esplicitamente si faceva riferimento alla necessaria spinta da dare per aumentare al massimo il numero degli italiani, il Duce sottolineava nel discorso dell’Ascensione (26 maggio 1927), dopo aver ribadito l’importanza del peso demografico per la potenza delle nazioni, che il problema delle minoranze “allogene” “lo si capovolge, ma non lo si risolve”. A partire da quel momento il regime si adoperò per accelerare l’arrivo di italiani provenienti dalle vecchie province in Alto Adige allo scopo di raggiungere con la forza dei numeri; ciò che la politica di italianizzazione non era riuscita fino a quel momento a raggiungere. E quando, all’inizio degli anni Trenta, apparve chiaro che la penetrazione italiana non procedeva come previsto30, non rimase che “intensificare al massimo l’immigrazione di elementi delle vecchie provincie in Alto Adige fino a rovesciare il rapporto numerico della popolazione di lingua italiana di fronte a quella di lingua tedesca”31.
I provvedimenti per lo sviluppo industriale di Bolzano, tradotti in legge nella primavera del 1935, aprirono la strada ad una seconda e consistente ondata migratoria, che fece forza su un massiccio esodo di popolazione, da occupare nelle fabbriche della nuova zona industriale del capoluogo32. La pratica dell’esproprio delle terre che appartenevano ai contadini sudtirolesi, l’intensa attività di bonifica, lo sviluppo edilizio dei maggiori centri urbani e la creazione di importanti complessi industriali, furono i passaggi attraverso i quali dare un’ulteriore spinta alla penetrazione italiana in Alto Adige. A Bolzano, nel capoluogo, che secondo i piani del regime avrebbe dovuto aumentare di circa 60 mila unità la sua popolazione, per raggiungere l’obiettivo dei 100 mila abitanti, furono soprattutto la creazione della zona industriale e i molti cantieri che sorgevano in una città in piena espansione, a richiamare migliaia di immigrati provenienti dalle cosiddette “vecchie province”. La crescita della popolazione cittadina negli anni Trenta non arrivò a soddisfare le ottimistiche previsioni di quota centomila (sarà raggiunta trent’anni dopo), comunque il consistente flusso migratorio fu tale da provocare un radicale – e permanente – rovesciamento degli equilibri etnici, portando gli italiani a divenire maggioranza.
Ma che un simile traguardo per l’intera provincia fosse difficile da raggiungere, soprattutto nei tempi dettati – un decennio – sembrò risultare chiaro anche a

Mastromattei, quando nel 1939, scrivendo al Duce, prospettava la compiuta italianizzazione dell’Alto Adige non attraverso l’immigrazione, bensì attraverso l’esodo forzato dei sudtirolesi:

Il programma di immigrazione degli elementi delle vecchie provincie è sempre in atto e si prevede, in conseguenza dell’ulteriore sviluppo della zona industriale di Bolzano e di varie attività negli altri maggiori centri della provincia, che nel corso di pochi anni la popolazione possa essere raddoppiata. Infinite sono le iniziative prese in ogni campo per accelerare il processo di italianizzazione della provincia. Ma il problema rimane sempre in piedi a causa del numero relativamente enorme degli allogeni e dei tedeschi in genere. (…) Anche quando il numero dei cittadini di lingua italiana superasse quello dei cittadini di lingua tedesca rimarrebbe pur sempre salda, compatta, fortissima nei suoi mezzi, nei suoi irriducibili sentimenti, la grande massa allogena sostenuta nelle sue tradizioni ed aspirazioni da tutto il popolo tedesco33.

A più di un decennio di distanza dalle direttive di Mussolini a Ricci, in Alto Adige non vi era né una maggioranza italiana, né una minoranza fortissima che potesse togliere il prevalente “carattere tedesco” del territorio. Per il regime si trattava di una sconfitta politica.
Simili risultati, non certo soddisfacenti, si ebbero nonostante gli elevati ritmi con cui procedeva l’immigrazione degli italiani e l’effettiva conquista di Bolzano, diventata una città a maggioranza italiana. Mastromattei avanzava il dubbio che non solo sarebbe stato difficile il rovesciamento del rapporto numerico della popolazione, ma che la stessa arma politica dell’immigrazione non sarebbe bastata allo scopo.
Le opzioni del 1939, che furono considerate l’atto risolutivo per porre fine alla questione dell’Alto Adige, ebbero indirettamente l’effetto di portare alla luce la scarsa efficacia – questo almeno secondo i piani e le valutazioni del regime – dell’immigrazione, come strumento decisivo per l’“italianizzazione” e posero di fatto in secondo piano il significato politico-strategico che l’immigrazione italiana aveva avuto fino a quel momento. Ciò non significò evidentemente lo stop all’arrivo degli italiani, che diventavano necessari per sostituire tutti quegli abitanti che avevano deciso di abbandonare l’Alto Adige, per trasferirsi con l’opzione nei territori del Reich. L’immigrazione italiana aveva ora un altro e diverso compito urgente da compiere. L’esito delle opzioni, almeno secondo le convinzioni del prefetto Mastromattei, era tale da cancellare il problema della presenza di una minoranza etnica34 e, di conseguenza, anche il problema del rovesciamento del rapporto numerico della popolazione poteva dirsi, in qualche modo, risolto.

 

6. Processi di insediamento e di radicamento
Nelle ragioni che indussero Mussolini a creare la provincia di Bolzano, contenute nelle direttive impartite al prefetto Ricci, l’esplicita assegnazione del compito
di aumentare il numero degli italiani di Bolzano agli impiegati da trasferire in Alto Adige, va letta oltre il dato quantitativo e la necessità di mettere in moto le istituzioni periferiche dell’amministrazione dello Stato. Agli impiegati il regime guardava, infatti, come importante ceto medio in formazione e possibile rappresentazione compiuta del “nuovo italiano”; a loro veniva assegnato il compito di supportare e assecondare il processo di “nazionalizzazione” politica degli italiani e di uniformazione di “massa” degli stili e dei costumi di vita35. Non può sfuggire, allora, quale significativa valenza tutto questo potesse assumere in un territorio di confine, dove la conquista italiana non si poteva dire ancora completamente attuata e che si prestava a divenire una sorta di laboratorio di coltura per il “nuovo italiano”. Il ceto impiegatizio in Alto Adige, chiamato a rappresentare il “prestigio” dello Stato, a promuoverne la fedeltà, a darne titolo di autorità giuridicamente fondata, era la proiezione di uno Stato, in cui si compiva la perfetta unione tra la superiorità delle sue leggi e la superiorità della civiltà e del “popolo”, che le aveva scritte. Lo stesso processo di “nazionalizzazione” in atto, che andava in direzione di una riduzione delle resistenze che opponevano le differenziazioni di tipo sociale e locale, trovava in Alto Adige degli interpreti convinti, capaci di coniugarlo in spirito nazionale.
Assicurare la residenzialità e la permanenza degli impiegati e delle loro famiglie significava introdurre modificazioni sia nell’assetto “etnico”, che sul terreno squisitamente sociale. In una società forte di tradizioni locali, saldata da una rete di rapporti in cui la famiglia, sia quella contadina che quella cittadina dedita alle professioni del commercio, continuava a preservare l’unità e la comunicazione tra sfera “privata” e “pubblica”, l’impatto di un corpo sociale modellato in base all’esigenza di uniformare costumi e stili di vita, reso permeabile all’invadenza dei “consigli” e delle prescrizioni di un “pubblico” (gli organismi nazionalizzati e statali), che giungeva a condizionare e a “normalizzare” la stessa vita familiare, non poteva non rappresentare una radicale cesura di tipo sociale e culturale.
Il nuovo ceto medio italiano in Alto Adige era quello che meglio poteva far proprio il richiamo all’italianità e crescere in un’idea dello Stato come garante del bene pubblico, del progresso e del benessere. I processi di “nazionalizzazione” e di “modernizzazione”, dietro ai quali avanzavano il rafforzamento e la centralizzazione dell’apparato statale e che facevano da schermo ad uno statalismo efficientista combinato con i precetti di una “sana” modernità (alle spinte modernizzanti corrispondeva l’azione di “bonifica” del regime), strutturavano il profilo di una categoria sociale slegata dalle tradizioni locali, dalla comunità di appartenenza, dalle sue origini regionali e ne esaltavano i “moderni” connotati di “massa”, di “standardizzazione” culturale e, come abbiamo già osservato, di “uniformazione” nei costumi e negli stili di vita. Fuori dalla retorica dell’orgoglio patriottico e della dichiarazione di fede al regime, l’“italianità” in Alto Adige ebbe modo di essere elemento di identificazione, di rivendicazione e di “vanto” per gli italiani “medi”, nel suo riconoscersi in pieno
con la modernità ed il progresso, di cui essi di sentivano portatori. Furono questi gli aspetti, per quanto ancora poco studiati, che incisero con forza – fino a diventare un resistente “luogo comune” del sentirsi italiani in Sudtirolo – sulla cultura e sui processi di radicamento del ceto medio italiano in Alto Adige. Rappresentano, infatti, una chiave non solo per comprendere la misura di quella distanza sociale e culturale che separava gli italiani dai sudtirolesi, ma anche la misura della difficoltà di piantare solide radici in una lontana periferia dello Stato. Ancora alla fine degli anni Trenta, alla vigilia della parabola del Fascismo, riecheggiava nell’immaginario delle novelle della rivista altoatesina “Atesia Augusta” – nata sotto gli auspici del Minculpop – il tema dell’Alto Adige da “saper amare” e da “saper conquistare”, impersonificato in alcuni racconti dal bravo funzionario che aveva saputo “ambientarsi”, a cui si contrapponeva la figura ridicolizzata del cattivo funzionario, che non aveva imparato a sentire sua la nuova terra italiana36.
La conquista “nazionale” del capoluogo impegnò il regime a prestare molte delle sue cure e delle sue attenzioni alle modalità dell’insediamento degli italiani. La “nuova Bolzano” disegnata dalla mano di Marcello Piacentini, che nel febbraio del 1934 venne incaricato di elaborare il piano regolatore, cresceva come espressione di una modernità chiamata ad interpretare un modello di società che ruotava tra gerarchia, rappresentatività e funzionalità. Lo spazio, tanto quello sociale quanto quello scandito dalle architetture, soggetto a norme e prescrizioni che ne definivano limiti e confini, esaltava il profilo di una città divisa per “parti”, segnata da diaframmi. I “quadri” urbani di Piacentini si riconoscevano come spazio tra le persone. La “nuova città italiana”, che ostentava la sua identità romana ed imperiale e irradiava spirito di rinascita, era un organismo capace di ricomporre il suo corpo sociale attraverso i riti della celebrazione dei suoi simboli, mentre restava poco più che un concetto inafferrabile, per quanti – soprattutto le famiglie operaie immigrate – gravitavano nelle cittadelle popolari e periferiche. I nuovi quartieri operai e popolari edificati a partire dalla metà degli anni trenta (il “Littorio” e il “Dux”) contrassegnavano la presenza di un gruppo sociale, che si sviluppava e si riproduceva lontano dalla vita cittadina; una realtà che cresceva (più di diecimila abitanti in meno di cinque anni) come appendice della fabbrica e come spazio di cura del PNF e delle sue organizzazioni.
Controllo sociale, controllo sulla velocità dei ritmi dell’urbanizzazione, controllo sulla densità degli spazi socializzanti e controllo dei costi, accompagnarono il modello residenziale delle cosiddette case “semirurali”, che si iniziarono a costruire dal 1937. Il loro azzonamento periferico, il loro profilo rurale-autarchico, la povertà dei materiali edilizi impiegati – caratteri che il regime cercò di nobilitare con il richiamo alla casa natale di Mussolini – rappresentavano una tipologia dell’insediamento adottata, su scala nazionale, per rispondere alla questione della residenza operaia. Il popoloso rione semirurale di Bolzano (nel 1944 erano stati costruiti 1.094 alloggi per altrettante famiglie), che la propaganda eleggeva a simbolo di “oasi tranquilla nel
tumulto della vita cittadina” e di sano, oltre che remunerante, ritorno al lavoro della terra, era un quartiere carente di infrastrutture e servizi, composto di unità abitative concepite secondo i criteri della “casa minima” (senza spazi accessori, con un unico lavandino e un piccolissimo vano gabinetto) e con alti indici di sovraffollamento. Il livello minimo di sussistenza del nucleo familiare era garantito dal salario operaio e, più che dai margini di auto-sufficienza che avrebbe dovuto garantire l’orticello di casa, da altre piccole entrate, a cui contribuivano entrambe i coniugi con lavori saltuari (sartoria, piccole riparazioni).
Per gli abitanti dei quartieri popolari, tra cui si mescolavano provenienze rurali e regionali diverse, fu il lavoro nell’industria a rappresentare un autentico fattore di omogeneizzazione e identificazione sociale. La fabbrica era ad un tempo il luogo di una possibile emancipazione dalla miseria e dalla povera estrazione contadina, della riconquistata dignità del lavoro, dell’avviamento all’istruzione scolastica (i corsi interni di preparazione alle mansioni), della crescita di un senso della comune appartenenza e, non ultimo, della trasmissione di modelli culturali e sociali cresciuti in ambito proletario e urbano: parte delle maestranze dello stabilimento Lancia di Bolzano, tra cui alcuni “politicizzati”, provenivano dalla casa madre di Torino37.
L’industria, strumento di italianizzazione e approdo per migliaia di nuovi immigrati, crebbe negli anni Trenta come “corpo estraneo”, sia rispetto alle tradizionali culture ed economie del territorio, sia per la mancata integrazione urbana del nuovo universo sociale, che aveva contribuito a far nascere. Tutto ciò ebbe inevitabili ripercussioni nel processo di radicamento degli italiani e nella stessa percezione, che essi avevano della nuova terra di adozione.

Nella geografia della fame e della miseria, l’Alto Adige – poco importava se tedesco o italiano – si collocava e si risolveva nell’orizzonte quasi mitico dell’emigrazione:

Io lavoro a Marano tedesco, perché laggiù [nel Veneto, N.d.A.] c’è anche un paese che si chiama Marano, e anche questo lo chiamavano Marano ma per far capire la differenza lo chiamavano Marano Tedesco, Marano, dove si mangia cinque volte al giorno. “Sai che quelli lassù mangiano cinque volte al giorno?” e noi: “Ma come fanno a mangiare cinque volte?”38
Nella geografia della conquista, la “nuova” provincia continuava ad essere la rappresentazione ideale ed ideologica di un territorio imbevuto di spirito italiano e fascista. Uno spirito capace di aleggiare insistentemente, ma mai di tradursi in Alto Adige da “amare” nelle coscienze degli italiani immigrati. La “nuova Bolzano”, immagine di grandezza e potenza, aveva la sua zona monumentale, la sua zona industriale, ma dalle pagine del primo numero della rivista Atesia Augusta (marzo 1939), ci si chiedeva se non fosse venuto il tempo di far nascere anche una “zona spirituale”.

La profondità degli scarti tra matrici sociali e culturali diverse fu anche una delle ragioni dell’indifferenza degli italiani di fronte alle opzioni.

7. Questioni di eredità

Dalla svolta politica impressa dalla costituzione della provincia di Bolzano agli anni del declino del regime, il fascismo era riuscito a forzare il processo di italianizzazione, fino a raggiungere l’obiettivo di creare una forte minoranza italiana. La massiccia immigrazione aveva portato la presenza italiana a rappresentare un terzo della popolazione totale. Erano risultati che confermavano la convinta azione del fascismo nel perseguire la propria politica di conquista del territorio e di sopraffazione nei confronti dei sudtirolesi. Allo stesso tempo mostravano come quel piano di profonda e radicale italianizzazione voluto da Mussolini per togliere alla regione il “carattere prevalentemente tedesco”, si fosse solo in parte compiuto.
Di fatto si era avviato un processo irreversibile, destinato a trasformare strutturalmente e in maniera durevole l’assetto e la composizione della popolazione. Si trattava, però, di una popolazione italiana diffusa in modo squilibrato nel territorio (alta concentrazione urbana) e nel suo tessuto socio-economico. Lo sviluppo dell’industria, piegato alle ragioni della politica più che dell’economia, era stato tanto rapido, quanto poco determinante come fattore dinamico per l’intero territorio. La caduta delle premesse politiche su cui si reggeva, ridimensionò il suo ruolo ed il suo peso economico e portò di fatto alla luce che la dimensione agraria del territorio non solo resisteva, ma ne usciva rafforzata39. La società contadina, marginalizzata, era diventata una forte e territorialmente diffusa nicchia di autoconservazione e di riconoscimento per la minoranza sudtirolese. L’isolamento patito e l’oppressione subita erano stati tali da saldare i caratteri di un intero modello di società, quella agraria, con le ragioni di difesa e di rivendicazione di un’appartenenza etnica esclusiva.
Simili cesure si erano cristallizzate nella distanza tra italiani e sudtirolesi e nella rigida divisione sociale del lavoro per gruppi etnici, che ancora nei primi decenni del dopoguerra rispecchiava l’alta “specializzazione” dei primi nei settori dell’industria e del terziario (soprattutto pubblica amministrazione) e dei secondi nel settore agricolo40.
Rispetto ai processi di integrazione degli italiani in Alto Adige, il fascismo era riuscito a favorire la crescita di un ampio tessuto sociale, nel seno di una società gerarchica, burocratica e corporativa ad alto tasso di stratificazione. Venuti a mancare i suoi collanti – il PNF e le sue organizzazioni -, culture, differenze di classe, appartenenze regionali diverse, emersero come evidenti segni di scollatura, rispetto alle strette maglie del regime, oltre che come indicatori di una complessa articolazione sociale, chiamata a fare i conti con una realtà, che si apriva nel segno del rapporto – e del confronto “etnico” – tra i gruppi.
Note
1 Claus Gatterer, In lotta contro Roma, Bolzano, Praxis 3, 1994, p. 1008.
2 Claus Gatterer, Über die Schwierigkeit, Heute Südtiroler zu sein. Della difficoltà di essere sudtirolese oggi, Bolzano – Bozen, “Kontaktkomitee fürs andere Tirol”, 1981, p. 42.
3 Istituto Provinciale di Statistica – ASTAT, Annuario demografico della provincia di Bolzano – Demographisches Jahrbuch für Südtirol, Bolzano, Provincia Autonoma di Bolzano/ Alto Adige – Autonome Provinz Bozen/Südtirol, 1988, pp. 40-41.
4 Helmuth Alexander, 1945: Vorläufige Bilanz eines wirtschaftlichen und gesellschaftlichen Umbruchs in Südtirol, in Südtirol – Stunde Null? Kriegsende 1945-1946, a cura di Hans Heiss e Gustav Pfeifer, Innsbruck-Wien-München, Veröffentlichungen des Südtiroler Landesarchiv, Band 10, Studien Verlag, 2000, p. 166.
5 H. Alexander, 1945: Vorläufige Bilanz, cit., pp. 153-156.
6 Le tabelle presentate, meritano qualche breve nota esplicativa: la tab. 1 e la tab. 3 sono un’elaborazione e un approfondimento di dati già pubblicati nel lavoro di Helmuth Alexander, citato, al quale si rimanda per le fonti statistiche e gli studi sul tema. La tab. 2, relativa allo sviluppo demografico della città di Bolzano, è stata elaborata sulla base di fonti statistiche comunali contenute in: Comune di Bolzano – Stadtgemeinde Bozen, Annuario statistico. Bolzano 1988 – Statistisches Jahrbuch 1988, Bolzano 1988.
7 H. Alexander, 1945: Vorläufige Bilanz, cit., p. 156.
8 Adolf Leidlmair, Bevölkerungsentwicklung und ethnische Struktur Südtirols seit 1918, “Österreich in Geschichte und Literatur”, 34, 5b/6 (1990), p. 354.
9 Anche i saldi migratori di Bolzano e provincia per il 1937 toccano il massimo mai raggiunto con, rispettivamente, + 7.190 e + 8.364 di eccedenza degli immigrati sugli emigrati. Per i dati comunali si veda in: Comune di Bolzano – Stadtgemeinde Bozen, Annuario statistico, cit.; Comune di Bolzano – Stadtgemeinde Bozen, Bilancio pluriennale per il triennio 1987-1989 – Mehrjahreshaushalt für das Triennium 1987-1989, Bolzano 1987; per i dati provinciali in: Istituto Provinciale di Statistica – ASTAT, Provincia di Bolzano. Raccolta di dati statistici relativi agli anni 1936-1937-1938.
10 Leopold Steurer, Südtirol 1918-1945, in Handbuch zur Neueren Geschichte Tirols, II, Zeitgeschichte, 1. Teil: Politische Geschichte, a cura di Anton Pelinka e Andreas Maislinge, Innsbruck, Universitätsverlag Wagner, 1993, p. 280.
11 Adolf Leidlmair, Bevölkerung und Wirtschaft in Südtirol, Innsbruck, Tiroler Wirtschaftsstudien 6, 1958, p. 56; Silvio Goglio, Renzo Gubert e Adriano Paoli, Etnie fra declino e risveglio, Milano, Franco Angeli, 1979, p. 56.
12 Adelheid Heuberger-Hardorp, Volkstumsprobleme im Sprachengrenzgebiet des Bozner Unterlandes, Innsbruck, Tiroler Wirtschaftsstudien 24, 1969.
13 Giorgio Mezzalira, Quel “sud etnicamente estraneo”. Appunti sull’immigrazione italiana, in È sempre lavoro. Frammenti di storia del lavoro e dei lavoratori in Alto Adige, a cura di Anton Holzer, Othmar Kiem, Giorgio Mezzalira, Michaela Ralser e Carlo Romeo, Bolzano, Lega Provinciale delle Cooperative Bolzano, 1991, p. 213.
14 Anna Treves, Migrazioni interne, in Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzato, II, Torino, Einaudi, 2003, pp. 126-128.
15 Legge 9 aprile 1931, n. 358: Norme per la disciplina e lo sviluppo delle migrazioni e della colonizzazione interna; legge 6 luglio 1939, n. 1092: Provvedimenti contro l’urbanesimo.
16 A. Treves, Migrazioni interne, cit., p. 128. Sulla sostanziale inefficacia della politica del regime per arrestare il fenomeno migratorio interno e sul naufragio dei progetti di “ruralizzazione” dell’Italia vedi anche Renzo De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino, Einaudi, 1996. La legge del 1939, in particolare, che restò in vigore fino all’inizio degli anni Sessanta, non risultò solo inefficace per porre un argine alle migrazioni e all’urbanesimo durante il Ventennio, condizionò lo status degli emigranti nel dopoguerra e rese assai difficile la ricostruzione dell’esatta consistenza del fenomeno migratorio. Paul Ginsborg rileva, relativamente al periodo che accompagna il boom economico in Italia, che: “non esistono statistiche affidabili per aiutarci a descrivere le ondate migratorie che ebbero luogo in questi anni. I cambiamenti nei certificati di residenza rappresentano uno degli indicatori meno inattendibili, e tuttavia lasciano ugualmente seri problemi. Una legge fascista del 1939, istituita appositamente per prevenire le migrazioni interne e l’urbanesimo, intrappolava i possibili emigranti in una situazione a dir poco paradossale: per poter cambiare residenza essi avrebbero dovuto provare d’avere un’occupazione nel luogo della nuova dimora, ma per ottenere una simile occupazione essi avevano innanzitutto bisogno di un nuovo certificato di residenza. Questa legge assurda fu abrogata solamente nel 1961. Fino a quel momento essa era stata ampiamente ignorata, più ancora di tante leggi italiane, ma aveva nondimeno causato angoscia a migliaia di emigranti, aveva indebolito la loro posizione nei confronti dei loro datori di lavoro e padroni di casa, li aveva posti in un’ingiustificata situazione di illegalità. Essa inoltre ebbe l’ulteriore effetto di falsare ogni statistica sull’emigrazione, dal momento che molti degli emigranti anteriori al 1961 legalizzarono la loro posizione soltanto dopo l’abrogazione della legge” (Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1989, p. 295).
17 Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976, p. 20.
18 A. Treves, Migrazioni interne, cit., p. 128.
19 Per una sintetica e puntuale ricostruzione della politica fascista tesa a ridurre il numero dei braccianti, si rimanda alla voce Sbracciantizzazione curata da Paul Corner, in Dizionario del fascismo, cit., pp. 602-605, dove si legge tra l’altro: “Il principio stesso della sbracciantizzazione era minato da un’intrinseca debolezza: poiché per esplicita ammissione delle organizzazioni sindacali fasciste, l’assegnazione ai coltivatori di singoli lotti non poteva riguardare che un numero limitato di braccianti, mentre lasciava molti altri totalmente privi di possibilità di lavoro. In altre parole, la sbracciantizzazione non era una soluzione realistica al problema del soprannumero di braccia nelle campagne”.
20 Walther Freiberg [pseud. Kurt Heinricher], Südtirol und der italienische Nationalismus, 2. Teil – Dokumente, Innsbruck, Universitätsverlag Wagner, 1990, p. 330.
21 Così Ettore Tolomei apriva una lettera al Duce (1942) sulla situazione nell’Alto Adige. Cfr. W. Freiberg [pseud. Kurt Heinricher], Südtirol, cit., p. 678.
22 Si rimanda al citato volume di W. Freiberg, in cui sono contenuti numerosi documenti d’archivio, probabilmente provenienti dall’archivio di Ettore Tolomei. Una attenta ricostruzione storica sui rapporti tra PNF e prefetti in provincia di Bolzano si trova nel capitolo “Il partito fascista”, in: Andrea Di Michele, L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione in Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, pp. 343-404.
23 Il riferimento è al titolo dell’opera di Andrea Di Michele citata; il saggio analizza l’azione dell’amministrazione pubblica in Alto Adige, soffermandosi in particolare sul suo ruolo nei processi di italianizzazione.
24 “Le direttive di Mussolini riguardo alla politica da condurre in Alto Adige furono spesso influenzate da valutazioni di politica estera. Periodicamente il duce diede indicazione di inasprire o di attenuare gli interventi in provincia di Bolzano in relazione all’atteggiamento che intendeva mantenere nei confronti di Germania, Austria e Vaticano. Di conseguenza, la politica fascista poteva talvolta apparire contraddittoria ed oscillante, pur all’interno di un disegno generale che non perse mai di vista l’obiettivo della snazionalizzazione. Ciò risultava inaccettabile agli esponenti locali del partito fascista e del nazionalismo italiano che facevano dell’italianizzazione dell’Alto Adige l’obiettivo fondamentale da perseguirsi senza alcuna esitazione” (A. Di Michele, L’italianizzazione imperfetta, cit., p. 394).
25 Paolo Valente e Claudio Ansaloni, Con i piedi nell’acqua. Sinigo tra bonifica e fabbrica. Storia di un insediamento italiano nell’Alto Adige degli anni Venti, Merano, ed. Sturzflüge, 1991.
26 Riportiamo qui di seguito tre diversi estratti sullo stato della “penetrazione italiana” a Bolzano e in provincia tra il 1927 e il 1929. I dati presentati, sulla cui attendibilità non è possibile avere precisi riscontri, offrono comunque un quadro indicativo sul processo di italianizzazione in corso, nel periodo dell’istituzione della Provincia di Bolzano. Il primo estratto è tratto dalla relazione dell’on. Alfredo Giarratana, commissario straordinario del PNF della provincia di Bolzano, in occasione dell’assemblea generale di tutti gli iscritti alla sezione di Bolzano della Federazione Provinciale Fascista (24.12.1927). Si citano i risultati parziali di una ricerca a cura della Federazione Provinciale Fascista, che a quella data è ancora in corso e riguarda lo “stato demografico” della popolazione altoatesina. La finalità di una simile ricerca era, secondo lo stesso Giarratana, di dimostrare ciò “possiamo e sappiamo fare”: “Io credo di fare una rivelazione quando vi dirò che su 36.400 abitanti di Bolzano, oggi almeno 13.200 sono italiani, e se dovessi precisare di più, dovrei dire che 4.500 sono trentini e 8.700 sono regnicoli. (…) Siamo dunque, malgrado i 2.500 stranieri viventi in Bolzano senza cittadinanza, a buon punto, e più avanti ancora andremo quando si saranno insediati in Bolzano taluni uffici come naturale conseguenza della costituzione in Provincia. (…) vi dirò che in 74 Comuni dei quali mi risultano le cifre dettagliate, rappresentanti una popolazione di 83.189 individui, abbiamo questi risultati: presenti 6.599 regnicoli, 4.718 trentini, funzionari pubblici: 471 regnicoli, 279 trentini, 346 atesini; maestri: 91 regnicoli, 130 trentini, 66 atesini. (…) Devo ricordare come in tutta la provincia vi sono 2.251 ferrovieri, tutti italiani, dei quali 871 residenti in Bolzano; vi sono 834 agenti delle Poste e Telegrafi dei quali 247 trentini, 87 delle vecchie provincie e 500 allogeni. In quanto agli altri impiegati delle varie amministrazioni, escludendo il personale civile e militare della guerra, vi sono 590 impiegati dei quali 240 in Bolzano e 350 nella provincia”. Federazione Provinciale Fascista di Bolzano, L’azione fascista in Alto Adige, 12 luglio 1928 – A. VI., Bolzano, S.I.T.E., 1928, pp. 166-167. Il secondo estratto, tratto dall’“Archivio” di Ettore Tolomei, è relativo alla popolazione della città di Bolzano: “Dalle ultime statistiche risulta che la popolazione complessiva di Bolzano, compresa la guarnigione, ammonta a 38.743 persone, di cui 25.030 alloglotti con cittadinanza italiana, 3.154 cittadini stranieri (l’8%!), e 10.559 cittadini italiani di lingua italiana (di cui 7.109 provenienti dalle vecchie Provincie)” (“Archivio per l’Alto Adige”, A. XXIV – 1929, p. 451). Il terzo estratto è opera di Sandro Giuliani che, in una pubblicazione edita per celebrare l’istituzione delle nuove province, riporta note e informazioni raccolte sulla provincia di Bolzano, in occasione del suo viaggio nel febbraio del 1927: “La popolazione attuale parlante italiano nella provincia è composta da 42.632 allogeni, 26.928 regnicoli e trentini; 4.398 appartenenti a forze armate (totale 73.958) su una popolazione di 253.696 cittadini compresi i militari. (…) I funzionari degli uffici governativi (prefettura, questura, tribunale, preture, Intendenza di Finanza, scuole, postelegrafonici, ferrovieri, ecc.), di quelli provinciali e comunali sono a Bolzano città 376 allogeni, 171 trentini, 1.182 regnicoli; nell’intera provincia 664 allogeni, 316 trentini, 1.915 regnicoli” (Sandro Giuliani, Le 19 provincie create dal Duce, Milano, Tipografia del “Popolo d’Italia”, 1928.VI, p. 96).
27 Mariuccia Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione borghese nell’Italia fascista. Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 208. Nel prospetto del fabbisogno presuntivo per le case degli impiegati calcolato dall’INCIS nel 1925 e riferito a tutti i capoluoghi di provincia, vi figurava anche Bolzano tra le “province di nuova istituzione”, con l’indicazione di una stima di appartamenti (150) e un investimento finanziario (11.500.000 lire) tra i più alti d’Italia (superiori a città come Genova, Firenze, Bologna); per il Circondario di Merano, rispettivamente, 50 appartamenti per un investimento di 3.500.000 lire. In sintesi, l’attività iniziale dell’INCIS nelle “nuove province” fu prevalentemente dirottata su Bolzano, a sostegno di un disegno di “italianizzazione” alimentato tanto dalle motivazioni politiche, quanto dall’ispirazione nazionalista di un’elites di “professionisti”, che interpretava la propria funzione nell’amministrazione dello Stato, come funzione centrale e “superiore” agli interessi di parte e di partito (M. Salvati, L’inutile salotto, cit., pp. 205-207).
28 Fausto Pantano, Politica abitativa e vita quotidiana a Bolzano tra le due guerre, tesi di laurea, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Storia Contemporanea, a.a. 1990/91, pp. 29-30.
29 È tra le direttive impartite da Mussolini al prefetto Ricci nel gennaio del 1927 quella di “Vigilare a che Funzionari, Ufficiali, Soldati, Carabinieri tengano sempre un contegno dignitoso, come deve fare un popolo vittorioso e fiero della sua vittoria, non solo, ma della sua civiltà e della sua storia. Senza borie fuori di luogo, quanti sono rappresentanti dello Stato Fascista nell’Alto Adige devono mettere la massima cura nella salvaguardia del loro prestigio, che è il prestigio dello Stato. Non tollererei, ad esempio, che degli Ufficiali si mascherino da tirolesi, o altri parli tedesco, per rendersi accetti ai tedeschi!” (W. Freiberg [pseud. Kurt Heinricher], Südtirol, cit., p. 331).
30 Il prefetto di Bolzano Marziali fu rimosso dal suo incarico nel 1933 “per aver sottovalutato la diffusione del movimento nazista tra la popolazione sudtirolese e per aver presentato in termini eccessivamente ottimistici i risultati dell’opera di penetrazione” (A. Di Michele, L’italianizzazione imperfetta, cit., p. 391).
>31 Con tali parole il prefetto Mastromattei ricordava l’impegno assunto al momento del suo incarico a massimo rappresentante del governo in sede locale, nella sua relazione sull’“ Esodo dei tedeschi dall’Alto Adige” del 12 maggio 1939. (Renzo De Felice, Il problema dell’Alto Adige nei rapporti italo-tedeschi dall’Anschluss alla fine della seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973, p. 97).
32 I bacini regionali a cui attingere quote di popolazione da trasferire in Alto Adige furono il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, l’Emilia e soprattutto il Veneto. Il vicino Trentino risultò tra le province che maggiormente contribuirono a ingrossare il flusso migratorio in Alto Adige negli anni Trenta, anche se le direttive mussoliniane contro il “trentinismo” ebbero l’effetto di produrre la costante flessione dell’immigrazione trentina soprattutto a partire dagli anni 1934-1935. Su quest’ultimo aspetto si rimanda ad A. Di Michele, L’italianizzazione imperfetta, cit., pp. 157-215.
33 Estratto dalla relazione di Mastromattei sull’“Esodo dei tedeschi dall’Alto Adige” del 12 maggio 1939, in R. De Felice, Il problema dell’Alto Adige, cit., p. 98.
34 “Le cifre degli optanti sono tali da soddisfarci completamente: non è l’esodo in massa sognato e voluto a fini politici ed economici dai germanici, non è l’esodo minimo che mantenga in piedi il problema di una minoranza etnica”. (Dalla relazione spedita dal prefetto Mastromattei a Mussolini, 9 gennaio 1940, in W. Freiberg [pseud. Kurt Heinricher], Südtirol, cit., p. 655).
35 Mariuccia Salvati, Il regime e gli impiegati, Bari, Laterza, 1992.
36 Giorgio Mezzalira, Un nuovo mondo da raccontare, in Tiroler Beiträge zum Kolonialismus, a cura di Anton Holzer e Benedikt Sauer, Bozen-Innsbruck, Skolast, 1992, pp. 121-129.
37 Carlo Romeo, Una fabbrica nella “Nuova Bolzano”. Esperienze di lavoro alla Lancia 1937- 1945, in È sempre lavoro, cit., pp. 81-96.
38 P. Valente e C. Ansaloni, Con i piedi nell’acqua, cit., p. 40.
39 H. Alexander, 1945: Vorläufige Bilanz, cit., p. 164
40 Popolazione attiva per settore di attività economica e gruppo linguistico. Anni 1939-1951- 1961-1971 (valori percentuali)
1939* 1951** 1961*** 1971
ted. it. ted.
lad.
it. ted. lad. it. ted. lad. it.
Agricoltura 60,5 6,0 67 3 44,8 37,9 4,2 29,9 20,6 2,7
Ind. e Artig. 14,6 23,0 20,9 33,4 40,6 26,9 37,1 36,6
Commercio 11,6 21,6 28 62 17,1 13,8 16,8 22,8 22,7 18,7
Altre attività 12,8 31,5 13,7 11,6 18,1 14,2 13,0 22,0
Pubblica amm. 0,5 17,1 5 35 3,5 3,3 20,3 6,2 6,6 20,0

* Adolf Leidlmair, Bevölkerung und Wirtschaft, cit., pp. 111-112
** “Industria, Commercio e Altre attività” sono stati computati insieme, in Christoph Pan, Die Südtiroler Wirtschaft- und Sozialstruktur von 1910 bis 1961, Schriftenreihe des Südtiroler Wirtschaft- und Sozialinstitutes, Band 2, 1963, p. 82
*** I dati del 1961 e del 1971 sono desunti da: Provincia Autonoma di Bolzano – Alto Adige, Alto Adige 1981. Documento programmatico preliminare al piano di sviluppo provinciale, Bolzano, 1973, p. 24.