Judith Rainhorn, Paris, New-York : des migrants italiens, années 1880- années 1930, Paris, CNRS éditions, 2005, 234 pp.
Per quanto, a causa degli imperativi editoriali, costituisca una versione molto ridotta di una tesi di dottorato, quest’opera riesce a far rivivere l’evoluzione dei quartieri italiani di La Villette e di East-Harlem, a nord-est rispettivamente di Parigi e di Manhattan: la loro nascita, il loro sviluppo, la loro dissoluzione. A tal proposito offre una massa di informazioni sugli aspetti più vari delle migrazione alla loro origine, grazie alla capacità di utilizzare la scala dello studio di quartiere per muoversi tra i fenomeni nazionali e le relazioni inter-individuali, di restituire nel modo migliore la varietà di situazioni e di meccanismi. Le analisi basate sullo studio approfondito dei legami familiari o personali, per esempio di padrinaggio, esemplifica in maniera particolarmente interessante tale capacità dell’autrice.
In entrambi i casi si assiste negli anni 1880 all’investimento accelerato di spazi metropolitani in formazione, di zone periferiche molto simili a ghetti sociali, a partire di uno zoccolo migratorio pre-esistente nel caso francese, ma non in quello statunitense. Sempre in entrambi i casi abbiamo a che fare con una migrazione in larga parte meridionale, cosa più sorprendente sulle rive della Senna che su quelle dell’Hudson, a delle reazioni xenofobe molto vivaci e alla costruzione di un territorio ad opera di migranti che possono essere celibi e girovaghi, come vorrebbe lo stereotipo tradizionale, ma che nella realtà non lo sono così di sovente, che divengono sedentari, che migrano con la famiglia più spesso di quanto si pensi, per giunta essendo – per via delle origini regionali o delle attività professionali – assai meno omogenei di quanto vorrebbe la visione monolitica dei contemporanei. Gli stessi abitanti dei due quartieri accompagnano inoltre la sedentarizzazione con un “nomadismo degli angoli delle strade”, caratterizzato da una serie di traslochi in un raggio di poche decine di metri.
La forza dei legami familiari (nel senso più ampio) e del patriarcato tradizionale conta enormemente nei meccanismi di questi insediamenti, soprattutto nel caso newyorchese. In esso infatti l’americanizzazione dei nomi e dei cognomi non impedisce un’endogamia massiccia, che dura per più generazioni al contrario di quanto accade a Parigi. La differenza di comportamento non è legata alle tradizioni della regione d’origine, poiché il Mezzogiorno è ben rappresentato nella Villette e i piacentini di Nogent-sur-Marne sono paradossalmente molto più endogamici. L’ambiente di accoglienza e la struttura del gruppo conta di più e senza dubbio pesa soprattutto la dimensione quantitativa del gruppo, perché soltanto grazie ad essa quest’ultimo può fungere da società completa, autonoma e potenzialmente chiusa su se stessa.
Judith Rainhorn studia anche i modi con i quali gli emigranti si inseriscono nel mondo del lavoro e del “non-lavoro”, della politica, della religione e del tempo libero. Sottolinea la relativa scarsità dell’impiego nelle costruzioni, di nuovo al contrario degli stereotipi tradizionali, e la lentezza della promozione sociale, che richiede più di una generazione nel caso parigino, dove il commercio non funge da trampolino sociale come negli Stati Uniti. Fattore importante dell’italianizzazione di un paesaggio urbano, questo commercio presuppone la possibilità di accedere alla proprietà fondiaria relativamente poco cara, che manca a Parigi, e di nuovo una dimensione del gruppo sufficiente ad assicurare una clientela specifica. In Francia, quando negli anni 1930 è maggiormente rappresentato non è un elemento di promozione, ma piuttosto il risultato di impedimenti, un rifugio obbligato e non un coronamento o una tappa positiva. Altre diversità risaltano studiando un’altra sfera del terziario, quella degli impiegati, anzi delle impiegate. In quest’ultima infatti Parigi sopravanza New York tale differenza è legata a un peso minore del tradizionalismo patriarcale (e del lavoro a domicilio), a una maggiore emancipazione relativa, forse a sua volta dovuta alla coesistenza di gruppi regionali e nazionali diversi, dunque ancora una volta alle differenze di dimensione e di compattezza. Egualmente si notano grandi diversità fra i due insediamenti nella pratica religiosa. Di fronte a rifiuti di natura opposta, ma in entrambi i casi altrettanto violenti (da un lato il disprezzo di gruppi cattolici arrivati prima, soprattutto degli irlandesi, dall’altro l’incomprensione di una città alquanto scristianizzata), gli emigrati a New York manifestano con forza l’attaccamento a simboli e pratiche che marcano il territorio, in particolare una spettacolare processione mariana che si svolge ogni anno, quelli a Parigi lasciano al contrario che le pratiche e le tradizioni si dissolvano nell’indifferenza circostante. E per quanto attiene alla sociabilità, all’associazionismo, è altrettanto evidente la molteplicità delle strutture ad Harlem e la loro scarsità a La Villette. Si notano elementi comuni soltanto nella reticenza riguardo alla politica, malgrado la presenza di nuclei di attivisti molto minoritari. Quanto ai processi di dissoluzione che occupano l’ultima parte del volume, se in entrambi i casi passano attraverso la partenza verso le nuove periferie, sappiamo che queste sono ben differenti tra le due sponde dell’Atlantico.
Proseguire qui la comparazione, dando conto di tutti gli elementi portati alla luce da questo studio, è materialmente impossibile: il libro è infatti troppo ricco. Non resta che raccomandarne fortemente la lettura, rimpiangendo, però, che non si sia potuta stampare tutta la tesi di dottorato.