Questo volume si presenta come un’occasione di confronto tra esperti di migrazioni internazionali passate e recenti, nonché come una verifica sull’applicabilità di alcune nuove definizioni al paradigma migratorio italiano. Sollecitate dai più recenti fenomeni di globalizzazione, le discipline sociali hanno sviluppato un linguaggio considerato più aderente ad un mondo in rapido mutamento. Si è ricercato così un vocabolario ampio, capace di rappresentare i fenomeni che si manifestino a cavallo di più Stati, e che spieghi la tendenza dei migranti contemporanei a non assimilarsi nelle società di accoglienza ma a mantenere una rete di fitte relazioni con i luoghi di origine.
Il libro in esame si divide in tre parti dedicate al “Transnazionalismo”, alla “Diaspora” e alle “Generazioni”, con il contributo di 16 autori provenienti da paesi e aree di studio differenti, per un totale di 14 saggi che rileggono e valutano l’esperienza delle migrazioni italiane alla luce di queste più recenti categorie interpretative.
Nella prima sezione il compito di circoscrivere il significato del termine “Transnazionalismo” viene affidato a Robin Cohen; secondo il sociologo americano, la capacità espressa dai nuovi migranti di mettere in atto strategie articolate di “fedeltà multiple”, permette di scavalcare i limiti imposti dagli “Stati Nazione” che invece richiedono fedeltà esclusive. La pratica costante di questo potere (Soft Power) che si esprime nel sincretismo che deriva dalla mescolanza continua di abitudini e usi assorbiti dai luoghi di origine e dalle realtà ospitanti, rivela per lo studioso, il continuo rafforzarsi della dimensione transnazionale dei rapporti. Ma per Baily si è ancora lontani da una definizione rigorosa e largamente condivisa. Infatti ancora non è chiaro cosa sia o non sia legittimo chiamare transnazionale. Oltre a ciò, si deve aggiungere l’incapacità mostrata fino ad oggi, di apprendere dalle migrazioni storiche e di allargare gli studi in prospettiva comparata. A questo scopo l’autore fa seguire tre esempi tratti dall’esperienza degli italiani residenti in Argentina e dei loro rapporti con quelli rimasti nel paese di origine, per arrivare a concludere che il migrante transnazionale non è un frutto esclusivo della nostra epoca. E che i migranti italiani non fossero “stabili” ma “mobili” ci viene confermato da Bruno Ramirez che analizza il caso dei sojourners italiani e la loro esperienza quasi nomadica a cavallo della frontiera tra Canada e Stati Uniti.
Invece, il contributo di Franzina si sofferma sull’intricato rapporto tra identità originarie e fedeltà alla nuova patria degli italiani in Brasile. La centralità del tema viene ripresa negli interventi che compongono le sezioni dedicate alla “Diaspora” e alle “Generazioni”, in cui si è cercato di valutare se e in che modo i migranti di origine italiana si siano assimilati nelle società di accoglienza oppure se abbiano sviluppato una identità etnica tra loro condivisa. Proprio sull’utilizzo di questi termini si nota una maggiore reticenza: quello di “Diaspora” appare un concetto lontano dalla nostra sensibilità e viene impiegato con parsimonia; Werner Sollors invece passando in rassegna il dibattito emerso intorno al concetto di Generazione, ne sottolinea la retorica e ne contesta la validità interpretativa. Una constatazione comune ai saggi di Franzina, Gabaccia, Martellone, Devoto riguarda proprio la difficoltà nell’elaborazione di una memoria collettiva legata alla madrepatria, che si deve sostituire al legame più intimo con il paese di origine. Come nota bene Donna Gabaccia, ad essere mitizzati non sono il popolo italiano o la nazione, quanto il paese o la regione di provenienza. La studiosa americana è stata una delle prime ad includere il caso italiano nella cornice analitica della Diaspora, ma nel valutare l’aderenza delle migrazioni italiane al modello di Cohen, deve ammettere l’impossibilità di affermare pienamente che sia esistita una solidarietà e una consapevolezza etnica da parte degli italiani. Questo almeno per quanto riguarda le prime migrazioni basate sul “paese”, rimodellate poi nel tempo sia dalle pressioni esercitate dalle società di accoglienza, sia dalla storia italiana.
Martellone porta come esempio di studio il caso italoamericano, sottolineando come il superamento del locale e lo sviluppo della percezione di una appartenenza più ampia si siano sviluppati in modo diverso rispetto al percorso intrapreso dagli italiani in Italia. La nascita di una Koiné italoamericana è scaturita da necessità di tipo economico e politico, dal riconoscimento di pratiche e abitudini religiose e alimentari, ma anche dai meccanismi messi in moto dal neonato Stato italiano; non va poi sottovalutato il ruolo di ridefinizione reciproca che si instaura tra identità diverse che insistono sullo stesso luogo. Infatti il non riconoscersi “nell’altro” e il non essere riconosciuti “dall’altro” sono elementi che, anche per Gabaccia, accentuano sentimenti di tipo diasporico, particolarmente presenti nei paesi anglofoni dove la fobia per l’italiano era più esplicita che altrove.
Una delle ragioni addotte per spiegare questa repulsione può essere individuata nell’ambigua collocazione degli italiani all’interno della “whiteness”, vale a dire sull’incertezza del loro colore. Come hanno notato Sollors e in modo più ampio Vecoli, gli italiani hanno goduto di uno status razziale del tutto particolare, considerato “in mezzo”. Questo però non significa che il concetto di cosa sia davvero bianco non sia immutabile e inclusivo, tant’è vero che gli italiani sono stati sottoposti nel tempo ad un processo di “sbiancamento”. L’ammissione definitiva nel mondo dei privilegi dei bianchi si è manifestata quando questi hanno rinunciato alla protesta e dimenticato la loro eredità di soprusi andando contro l’espansionismo degli afroamericani. Secondo Vecoli, questa omologazione esercitata dalla cultura di massa statunitense rappresenta per italoamericani, un tradimento della propria eredità culturale. Conclude poi sostenendo che un’interpretazione basata sul contrasto tra colore e razza rimane incompleta e riduttiva, senza dimenticare che ultimamente essere italiano e scuro sembra abbia acquisito un valore positivo. Anche per Sollors infatti le ultime “generazioni” invece di annullare la loro origine in un processo di assimilazione, continuano a manifestare la loro adesione culturale proclamandosi italoamericani, anche se italiani per meno di un quarto.
Questo ancora una volta, suggerisce come fa Devoto, che l’identità sia un fattore dinamico che cambia a seconda dell’interazione tra il “bagaglio” specifico che ci si porta dietro e realtà ospitante in un determinato momento storico.
Ma se in ogni sezione di Itinera si è cercato di verificare la capacità dei migranti italiani di superare gli spazi geografici e nello stesso tempo si è vagliata la tenuta della loro identità, fosse essa localistica o nazionale, sotto la pressione di processi di nazionalizzazione e assimilazione, Corti, Audenino e Albera in un modo e De Rosa in un altro, offrono una visione diversa del processo migratorio concentrata non tanto sui luoghi di arrivo, quanto su quelli di partenza. De Rosa, basandosi sui risultati dell’Inchiesta parlamentare sulla condizione dei contadini nelle province meridionali tra il 1909 e il 1910, mostra le ripercussioni del fenomeno migratorio sulla vita e sul costume sociale nel Mezzogiorno, arrivando a concludere che nonostante la separazione e le lunghe distanze, la famiglia non ne sia stata scalfita e non abbia mai perso la sua centralità; Albera, Audenino e Corti invece si muovono in un contesto diverso, quello della provincia biellese. Qui, la necessità di esercitare un mestiere in paesi anche lontani, si è unita alla frequenza dei rientri e al mantenimento di reti sociali molto fitte, tanto da creare nell’immaginario di chi partiva l’annullamento dell’idea di essere un migrante. Questa condizione di “viaggio immobile”, si è accompagnata ad una non curanza per le distanze e ad un’alta specializzazione professionale che contraddice gli elementi necessari per valutare questa esperienza come diasporica. Il paese di origine e la famiglia rimangono elementi centrali nella vita del migrante, così come i legami affettivi ed economici tra le due sponde. Lo studio delle comunità di partenza e dei percorsi individuali prevengono dall’appiattimento dell’esperienza dei singoli nei luoghi di arrivo e fa emergere le differenze di scelta e di strategia messe in atto in relazione al mestiere e alla funzionalità delle destinazioni scelte. Questa mobilità mina nel profondo “l’isomorfismo tra nazione, cittadinanza e popolo” creando una difformità nel tessuto di una nazione. Per questo, come indicano Gabaccia e Ramirez, l’unico modo per impedire che sia messo in discussione questo principio fondamentale per la costruzione dello Stato, rimane l’inasprimento del ruolo della frontiera.
In complesso questo volume, successivo alla presentazione di un convegno tenutosi a Torino nel marzo 2004, rappresenta un tentativo di raccordo tra le più recenti interpretazioni del fenomeno migratorio e gli studi intensi prodotti fino ad oggi sulle migrazioni italiane. La spiccata “poliedricità spazio-temporale” che ha caratterizzato l’esperienza migratoria del nostro paese potrebbe offrire spunti validi per l’interpretazione di fenomeni più recenti, come la globalizzazione e i massicci movimenti dei popoli, ma il dialogo tra presente e passato non sembra lineare né di facile attuazione. Scorrendo le pagine di questo libro si ha l’impressione che gli storici abbiano voluto raccogliere la provocazione lanciata dalle scienze sociali statunitensi, sforzandosi di far rientrare storie e vicende in un quadro interpretativo che nonostante si voglia “ampio e globale” rimane comunque un vincolo cui la complessità spazio temporale del fenomeno e la molteplicità dei risvolti sulle società di partenza e di arrivo non si addice. Il rischio maggiore, oltre quello di arenarsi nel semplice esercizio, è di avviare una stagione di studi in cui si passi il tempo a stabilire che cosa rientri o meno nelle categorie interpretative. Ad ogni modo, Itinera è un volume necessario proprio per mettere al riparo gli studiosi dal rischio di facili esemplificazioni e contemporaneamente renderli aperti agli stimoli provenienti da altre discipline.
Una mancanza forse, a cui si accenna nel volume stesso, riguarda il non aver considerato un altro genere di “migrazioni”, vale a dire quelle interne alla penisola italiana. A questo punto come si spiegherebbe la complessità dei rapporti tra le popolazioni del sud e del nord di Italia? Effettivamente, si può migrare in molti modi e per molte ragioni, e se si prescinde da questo e dal bagaglio che ci si porta dietro, non si può nemmeno comprendere appieno la disponibilità o meno ad aprirsi alla società ospitante. L’essere transnazionale è insito nell’essere migrante ma il confine da travalicare non è detto che debba essere necessariamente quello di una mappa geografica.