Una città di immigrati nell’antico regime: demografia e inurbamento a Torino nei secoli XVIII-XIX1
A partire dagli anni Settanta una serie di studi dedicati a Torino tra XVIII e XIX secolo hanno restituito un’immagine di questa città caratterizzata da tassi elevati di crescita e di mobilità della popolazione, indizio di una realtà fluida e in movimento; insomma, una “città di immigrati” di antico regime. Negli stessi anni, poi, la raccolta dei dati e la riflessione metodologica hanno fatto un notevole balzo in avanti, grazie a un intenso lavoro di informatizzazione e trascrizione di fonti seriali su supporto informatico2.
Quali sono le caratteristiche di questa “città di immigrati”? Nel corso del XVIII secolo, la città si distingue per un processo di crescita che si aggira attorno al 60% nella prima metà e intorno al 25% nella seconda3. La popolazione passa da poco più di 33mila abitanti censiti nel 1705 ai 46278 del 1714 e alla metà del secolo arriva a 581284. La crescita è tuttavia interrotta da brevi parentesi di crisi e di decremento della popolazione, dovute a particolari congiunture economiche e militari come quelle degli anni 1733-1735 e 1742-1747. Sotto la spinta di una crescita vorticosa le flessioni vengono riassorbite fino alla crisi innescata alla fine del Settecento, destinata a culminare con l’egemonia francese sulla città; tuttavia, ancora nel 1799 la città conta più di 64 mila abitanti5. È stato anche osservato che per tutto il secolo Torino cresce con un ritmo uniforme: tra il 1714 e il 1794 la popolazione si accresce ogni venti anni del 10%, cioè a un tasso più elevato di quello di altre città europee contemporanee6. Nella prima metà del XIX secolo la città rallenta i ritmi di crescita rispetto alle altre capitali7. Tuttavia, alla metà degli anni Venti la popolazione (inclusi borghi e contado) supera ormai i 100mila abitanti. Alla vigilia dell’unificazione italiana, in un contesto economico, sociale e politico ormai del tutto mutato, la città conosce ancora una espansione enorme che la porta a raggiungere i 180mila abitanti (con borghi e contado) 8.
Ritmi di crescita elevati e un ricambio della popolazione rapido devono essere imputati in gran misura a fenomeni migratori consistenti: Torino è crocevia di intensi flussi di individui che arrivati in città, perlopiù da campagne e valli piemontesi, dopo un periodo limitato di tempo ripartono, o, secondo dinamiche circolari, si muovono con regolarità tra le comunità di origine e la città, o, infine, decidono di restare e di installarsi stabilmente nel tessuto urbano. L’osservazione non è affatto scontata, soprattutto se si tiene presente che per molto tempo la storiografia si è fatta promotrice di un’immagine delle società di antico regime dominata dall’immobilismo, soprattutto del mondo rurale.
Sui fenomeni migratori della Torino moderna esistono tre contributi principali; uno per la prima metà del Settecento, uno all’inizio dell’età napoleonica e uno a metà Ottocento. Nelle pagine seguenti mi propongo di illustrarli nei loro aspetti più significativi con due obiettivi. In primo luogo rendere conto dello stato dell’arte su Torino “città di immigrati”, perché proprio da lì deve partire qualsiasi altra ricerca sul tema. In secondo luogo il caso torinese può essere un ottimo punto di partenza per ripensare al tema delle migrazioni in antico regime e soprattutto rianalizzare i rapporti tra città e campagna.
Sicuramente spetta a Giovanni Levi il merito di aver affrontato per la prima volta in maniera specifica il tema dell’intreccio tra crescita demografica e fenomeni migratori a Torino nella prima metà del Settecento, attraverso l’uso dei registri matrimoniali delle due parrocchie più popolose della città9. Verificando che nei primi cinquanta anni del secolo i non torinesi rappresentano il 60% degli sposi, cifra che in alcuni momenti sfiora il 70%, con oscillazioni e flessioni nei periodi di crisi, egli rileva che “la crescita urbana di Torino è frutto, in parte crescente, dell’immigrazione. La città che si espande richiede continuamente un incremento di immigrazione”10. In effetti le percentuali dei non torinesi sono abbastanza impressionanti, se confrontate a quelle di altre città italiane. Ad esempio, se a Torino negli anni Quaranta del XVIII secolo il 68,1% degli sposi è forestiero, a Mantova nello stesso periodo solo il 47,1% degli sposi e il 38,4% delle spose lo sono11. Soffermandosi poi sulle provenienze degli sposi, raggruppate in base alla diocesi di provenienza, Levi rileva che i flussi migratori sono di breve e medio raggio (dal Piemonte, dalla Savoia, da Nizza, dalla Liguria e dalla Lombardia), dalle campagne e dalle montagne, e di portata tale da andare a discapito di “una pluralità di centri di attrazione e di sviluppo qual è il Piemonte del ‘5-‘600” 12. Inoltre per tutta la prima metà del XVIII secolo si assiste a una crescita dell’importanza dell’immigrazione dal Piemonte a discapito di altri luoghi tradizionali di provenienza, come la Savoia, la Liguria e Nizza; se nel decennio 1700-1709 gli sposi forestieri dal Piemonte sono il 68,8% e quelli dalla Savoia il 12,8%, qualche anno dopo, nel decennio 1740-1749, i primi sono il 79,5% mentre gli sposi di origine savoiarda scendono al 5,8%13.
Ma l’immigrazione torinese della prima metà del XVIII secolo si caratterizza anche per il fatto che la composizione della popolazione “indica sempre una netta e costante prevalenza maschile” che regredisce nei periodi di crisi, quando invece aumenta il peso percentuale delle donne. Ciò è indizio di un’immigrazione prevalentemente maschile che, rispetto a quella femminile, è “più volatile e mobile, più sensibile alle crisi” 14. Inoltre, “se quel 70% di sposi forestieri avesse significato un insediamento definitivo, la crescita della città, malgrado la mortalità più drastica, sarebbe stata assai più vertiginosa: fu invece di meno dell’1% all’anno” 15. Insomma tutti gli indizi portano a concludere che la mobilità cittadina sia legata prevalentemente a flussi di andata e ritorno di individui, soprattutto maschi, dalle comunità di origine. Esiste infatti un rapporto stretto tra provenienza ed esercizio di alcune attività, più o meno qualificate (dai facchini e “brentatori”, cioè trasportatori di vino, delle Valli di Lanzo, ai servi della Moriana, ai mastri muratori e falegnami della Valle d’Andorno), che trova conferma anche nella pratica assai diffusa dell’endogamia geografica e nelle variazioni della struttura delle famiglie. Sebbene poi, all’interno del modello, egli distingua tra un’immigrazione fortemente specializzata, che considera Torino una delle tante tappe del percorso lavorativo stagionale, e una meno qualificata, che invece intrattiene un rapporto privilegiato e di lungo periodo con la città, è centrale l’idea che alcune comunità esercitino un controllo, più o meno serrato, su alcune fette del mercato del lavoro e proprio in virtù di ciò siano in grado di condizionare i percorsi di coloro che si spostano in città.
Per la seconda metà del XVIII secolo, i lavori dedicati alla demografia torinese sono meno numerosi e dettagliati e manca del tutto l’analisi del fenomeno migratorio. Tra i pochi, uno studio di Donatella Balani, utilizzando censimenti e statistiche della popolazione e consegne di case e immobili della fine del secolo, mette in luce i ritmi di crescita della città, certo non più vertiginosi come per la prima metà del Settecento, ma ancora molto significativi16: “Tutti i livelli di crescita della popolazione cittadina e la presenza di ricorrenti saldi passivi del movimento naturale fanno ritenere che la città abbia continuato a fungere da polo di attrazione per un flusso migratorio di notevole ampiezza” 17. Questo sembra essere confermato dall’elaborazione dei miei dati. Su un campione di individui estratti dai processicoli matrimoniali redatti per la parrocchia torinese dei Ss. Processo e Martiniano, raccolti tra il 1760 e il 1791, emerge che il tasso di immigrazione maschile, che comprende sposi e testimoni, supera il 64% mentre il tasso di immigrazione femminile, che peraltro non è calcolato da Levi per la prima metà del secolo, è del 44, 53%18. In conclusione però, come è stato rilevato, per la seconda metà del XVIII secolo non esistono esplorazioni sistematiche delle fonti in grado di fornire dettagli sull’immigrazione cittadina e soprattutto di verificare se e come i flussi e le modalità degli arrivi siano mutati rispetto alla prima metà del secolo.
Il secondo approfondimento dei fenomeni migratori torinesi riguarda gli anni del periodo napoleonico. Gli ultimissimi decenni del XVIII secolo non sono facili per la città; le crisi politiche vanno di pari passo con quelle economiche, mentre le guerre richiedono sforzi notevoli in termini finanziari e umani. Non è questa la sede per ripercorrere quegli anni, in merito ai quali si è concentrato un lungo dibattito storiografico sulle dinamiche di sviluppo e progressione della crisi, sulle presunte ricadute, ambigue e controverse, dei fatti e delle diverse fasi della Rivoluzione Francese prima e dell’avventura imperiale di Napoleone poi19. Certo è che tra la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo la concomitanza di molteplici fattori innesca nella città una crisi di ampia portata che coinvolge molti contesti della società urbana. Per gli anni dell’occupazione francese non disponiamo di studi specifici dedicati alla demografia cittadina. Giovanni Gozzini ne ha proposto una lettura appoggiandosi ai pochi studi precedenti e soprattutto cercando di smentire l’ipotesi, accreditata nella storiografia meno recente sul periodo francese in Italia, di un blocco demografico dovuto ai grandi sconvolgimenti politici e sociali. Egli infatti scrive che le cifre assolute di nati nel periodo, così come quelle dei morti, non si discostano molto da quelle precedenti, elaborate da Giovanni Levi: “In realtà la rottura del ciclo demografico e l’inasprimento del saldo negativo di popolazione appaiono precedenti ai rivolgimenti politici a cavallo del secolo e maggiormente legati a fluttuazioni del ciclo economico e crisi congiunturali della struttura produttiva” 20.
Nei primissimi anni del XIX secolo la città, stremata dalle guerre e occupata dai francesi, sta per perdere il rango di capitale del regno per diventare provincia del nascente impero francese; tuttavia, mantiene una sua vitalità, tanto che è ancora una delle 78 città di Europa con più di 58mila abitanti21. Soprattutto, come scrive Maria Carla Lamberti, “manifesta ancora notevoli capacità attrattive, non inferiori a quelle di momenti più felici della sua storia: quasi il 43% dei maschi proviene da fuori, una percentuale che sale al 50% se si escludono dal computo i bambini con meno di 10 anni e non si tiene conto di almeno una parte dei figli nati a Torino da genitori immigrati; sale ancora, fino a superare il 60%, se si considerano le fasce che vanno dai 26 ai 60 anni” 22. Cifre analoghe vengono suggerite anche dai registri matrimoniali dello stato civile del periodo napoleonico, dove la percentuale di sposi forestieri si aggira intorno al 61,5%, mentre le spose forestiere sono poco meno del 43%23.
Dopo aver coordinato i lavori di informatizzazione del censimento napoleonico del 180224, Lamberti lo ha interrogato proponendone una lettura dinamica che per certi versi si riallaccia e porta avanti un discorso di lungo periodo dedicato ai fenomeni migratori cittadini e interrotto alla metà del XVIII secolo25. L’obiettivo non è tanto fornire una visione d’insieme della popolazione urbana, quanto verificare “come varia in una città di antico regime la condizione di immigrato, a seconda che egli sia uomo o donna: il tipo di famiglia in cui vive, la partecipazione al mercato del lavoro, l’accesso a quello matrimoniale; soprattutto quali legami intercorrano tra questi diversi piani dell’esistenza individuale” 26. Dunque Lamberti si propone di affinare i tradizionali modelli migratori introducendo esplicitamente le variabili del mestiere, del sesso e dello stato civile degli immigrati, con la consapevolezza che esse sono intrecciate e giocano ruoli diversi nel determinare i percorsi urbani. Per alcuni versi i suoi lavori riconfermano, per gli albori del XIX secolo, modalità migratorie di inizio XVIII; soprattutto, mettono in luce il rapporto privilegiato che alcune comunità intrattengono con la città attraverso il controllo di attività lavorative specifiche più o meno qualificate; ribadiscono poi il peso dell’immigrazione piemontese di medio e breve raggio e verificano l’esistenza di percorsi di andata e ritorno degli immigrati. Sull’altro versante invece l’approccio metodologico rende il quadro molto più articolato e dinamico. Viene così alla luce un rapporto multidimensionale tra provenienze, mercato del lavoro e mercato matrimoniale, esemplificabile in due casi, quello dei facchini e quello dei vellutieri. Per i primi, “indipendentemente dal grado di qualificazione del lavoro e dalle occasioni di incontro che esso offre (…), il peso e il controllo delle reti comunitarie riducono sensibilmente la probabilità di sposarsi al di fuori di esse”, anche se è pur vero che “ogni volta che queste condizioni non si verificano, o si verificano solo in parte, anche chi esercita mestieri con forte presenza di immigrati – indipendentemente dal loro grado di qualificazione – ha più ampie e talvolta anche alte possibilità di matrimonio con una nativa” 27. Un modello matrimoniale e lavorativo opposto è quello dei vellutieri. Scrive infatti Lamberti: “Si può presumere che ciascuna bottega sia un mondo aperto all’incontro tra immigrati e nativi e che la specializzazione professionale possa essere più importante della provenienza; tant’è vero che molto alta è l’endogamia professionale” 28.
Scegliendo un percorso finora poco praticato dalla letteratura sull’argomento, Lamberti introduce altre due variabili in grado di chiarire ulteriormente il significato dei percorsi di inurbamento: il tempo di permanenza e l’età di arrivo in città, apparendo “fuori discussione la relazione tra tempo di permanenza a Torino e collocazione professionale per gli individui di entrambi i sessi, sia pure con esiti in parte diversi per maschi e femmine” 29. Sono le attività di acquavitai, speziali (evidentemente garzoni speziali, usati per puro lavoro manuale nelle botteghe) e panettieri quelle in cui si concentrano maggiormente gli immigrati residenti a Torino da non più di due anni, mentre l’accesso ad altre professioni più qualificate – come quelle di parrucchiere, vellutiere, ma anche nastraio, calzettaio o macellaio, sembra richiedere tempi lunghi di residenza in città. La situazione è ancora diversa se si considerano gli individui arrivati in città da bambini, ovvero sotto i 10 anni d’età, presumibilmente a seguito dei genitori. Per costoro, e per entrambi i sessi, le possibilità di svolgere una professione a bassa qualificazione sono più basse che per coloro che arrivano in città da adulti.
Infine, lo studio dei fenomeni migratori attraverso il censimento del 1802 è anche occasione per una lettura trasversale del rapporto tra professioni dei genitori e dei figli, ovvero di quella che i sociologi chiamano mobilità inter-generazionale. Considerando le carriere dei figli di immigrati è possibile dare rilievo a un’altra variabile dei percorsi di mobilità urbana: ovvero l’importanza della stabilità degli individui nel tessuto urbano. Questa non solo garantisce un “accumulo di esperienza”, ma anche una “accresciuta consapevolezza delle opportunità offerte dal contesto urbano, che dovrebbe lasciare il segno sui destini dei loro figli e figlie” 30.
L’impostazione di questi studi permette di accantonare definitivamente le ipotesi di spiegazione dei fenomeni migratori più deterministiche o riduttive. In primo luogo il cosiddetto “modello gravitazionale” di Zipf, elaborato alla metà degli anni Quaranta, che, per spiegare le dinamiche dei flussi migratori, poggia sull’idea che l’intensità degli scambi di popolazione tra due punti sia direttamente proporzionale alla dimensione di ciascuna popolazione e inversamente proporzionale alla distanza che le separa31. O il modello elaborato dal sociologo Stouffer, anch’esso degli anni Quaranta del XX secolo32, e ancora utilizzato agli inizi degli anni Settanta da Giovanni Levi. Egli infatti tentava di spiegare la carta dei flussi diretti verso Torino nella prima metà del XVIII secolo combinando insieme distanza e opportunità economiche incontrate dagli individui lungo il percorso di immigrazione. Oppure ancora, per giustificare l’alto tasso di mobilità tra la città e le campagne circostanti, scriveva che i percorsi più brevi degli abitanti della campagna collocata nelle immediate vicinanze della città consentivano loro di tornare nella comunità di origine, in caso di malattia, molto più facilmente di quanto distanze più lunghe lo permettessero agli altri immigrati.
Si tratta di modelli rigidi che tendono a spiegare i fenomeni migratori in base a leggi che si ripeterebbero meccanicamente, riducendone la portata, l’importanza e la varietà. Al contrario, le migrazioni erano e restano fenomeni complessi, non riconducibili riduttivamente all’esistenza di un mercato del lavoro vivace e appetibile o a un gioco di push and pull areas. Le pratiche migratorie infatti rientrano in logiche relazionali e comunitarie di ampio raggio, talmente radicate nelle consuetudini di alcune aree geografiche da poter essere considerate un tratto distintivo della loro cultura e da poter essere messe in atto anche nel corso di grandi sconvolgimenti. Insomma, i percorsi migratori rimandano all’esistenza di canali privilegiati di dialogo e scambio tra città e aree geografiche che ben difficilmente potrebbero essere cancellati con un solo colpo di spugna, anche dai più gravi cambiamenti.
Queste osservazioni del resto trovano eco in un lavoro pionieristico degli anni Quaranta del geografo svedese Torsten Hägerstrand, il quale, prendendo le distanze dai modelli spaziali elaborati in quegli stessi anni da Zipf e Stouffer, cerca di costruire e formalizzare uno spazio “determinato storicamente” 33. Egli parte dall’osservazione che una comunità, a pari distanza da due città che hanno la stessa popolazione, privilegia e intrattiene scambi migratori solo con una di esse. Per dimostrarlo cartografa i flussi di uomini tra le due comunità risalendo a ritroso nel tempo, dal momento della ricerca – il 1945 – al 1785 e perviene alla conclusione che “les migrations présentes sont liées aux migrations passées avant de l’être aux conditions socio-économiques du moment” 34. In altre parole, secondo Hägerstrand, una tradizione migratoria di lungo periodo profondamente assorbita dalle popolazioni locali e protratta per inerzia lungo i decenni spiega perché i flussi migratori privilegino un certo percorso piuttosto che un altro, apparentemente simile.
Conclusasi l’esperienza napoleonica e, per la precisione, a partire dalla metà degli anni Venti, la popolazione di Torino, borgo e contado, supera i centomila abitanti, tanto che dal 1830 inaugura una fase di crescita positiva. Pochi decenni dopo, nel 1858, in un contesto sociale, politico ed economico ormai completamente mutato, la città registra ancora una volta un trend espansivo notevole e alcuni studi registrano tra il 1848 e il 1858 una crescita annua media del 28 per mille che raggiunge il 34 nel decennio successivo. I tassi di immigrazione rimangono elevati e la popolazione immigrata maschile al di sopra dei 10 anni si aggira sul 67%, mentre quella femminile è all’incirca il 63%35.
La vulgata storiografica locale ha attribuito questa ripresa al ritorno dei sovrani in città e alla fine del dominio francese, innescando un nesso causale molto forte tra contrazione demografica e vicende politiche. Al contrario, un recente articolo di Gozzini ha mitigato questa interpretazione dimostrando che, almeno nei primi decenni del XIX secolo, la popolazione di Torino non ha perso alcune delle peculiarità già registrate nel XVIII. Studiando l’andamento del saldo naturale della popolazione egli rileva che dagli anni dell’occupazione francese, almeno fino al 1817, Torino riproduce “l’immagine tradizionale della città come distruttrice di popolazione, continuamente alimentata dal flusso di immigrazione dalle campagne, che Giovanni Levi ha applicato alla sua storia tardosettecentesca” 36. D’altro canto, come già per il XVIII secolo, la popolazione continua a essere caratterizzata da un’alta percentuale di individui maschi immigrati.
In questo contesto, innovativi per contenuti e metodo sono stati i lavori di Giovanni Levi e Franco Ramella, i quali studiano le dinamiche migratorie in rapporto al ciclo di vita della famiglia e al mercato del lavoro37, sfruttando soprattutto le dichiarazioni di arrivo e di ospitalità degli immigrati in posti letto di locande e camere ammobiliate. Al di là di questi importanti contributi, mancano ancora lavori sistematici sulla demografia e sui fenomeni migratori di metà XIX secolo. Soprattutto mancano studi in grado di ricollocarli in un quadro di lungo periodo (da inizio XVIII secolo), il solo che potrebbe consentire di valutare appieno continuità e rotture; e questo nonostante sia disponibile su supporto informatico, e dunque agevolmente interrogabile, il censimento torinese del 1858.
La letteratura sull’argomento descrive quindi esplicitamente Torino come una “città di immigrati” dagli alti tassi di mobilità, sia nei momenti di espansione che nei momenti di grave recessione, per tutto il XVIII secolo e a XIX secolo inoltrato, tra gli alti e i bassi delle crisi e dei mutamenti demografici, economici e politici. Sebbene questa sia una caratteristica di molte altre città di antico regime, cifre così elevate per una città di dimensioni medie non sono affatto scontate; e per rendersene conto è sufficiente osservare i dati di altre città della penisola nelle quali i tassi di immigrazione, ma più in generale i movimenti della popolazione, non sono così evidenti e massicci. Ad esempio Giovanni Gozzini, studiando Firenze durante il periodo dell’occupazione francese, a partire dal censimento del 1810, rileva che “il 79,5% degli abitanti risulta nato a Firenze, contro un 7,2% proveniente dalle campagne immediatamente circostanti, un 10,01% dal resto della Toscana, un 2,3% dagli altri stati italiani, uno 0,9% dall’estero” 38. Gozzini, parlando esplicitamente di “assenza di mobilità” e “mancanza di forti correnti migratorie e di fenomeni di urbanesimo”, rileva che l’immigrazione fiorentina è legata alle necessità dell’aristocrazia cittadina che attingeva nelle campagne circostanti la manodopera da impiegare al proprio servizio e dagli spostamenti del personale burocratico e militare, oltre che dalle carriere intellettuali. Anche un recente studio sulla città di Napoli, che nel XVIII secolo non conosce ancora la crescita straripante del XIX, rileva per l’anno 1790 un peso dell’ immigrazione esiguo, che si attesta attorno al 20% della popolazione39 mentre a Mantova, all’inizio e per tutto il XVIII secolo, essa interessa all’incirca il 40% della popolazione40. Torino si colloca quasi al pari di Roma, dove, nella centrale parrocchia di San Lorenzo in Damaso, la percentuale di immigrati maschi durante il XVIII secolo oscilla tra il 77 e il 66%41. I tassi di immigrazione di Torino sono anche vicini a quelli di alcune città d’oltralpe, alcune delle quali ben più popolate. Nell’ormai classico lavoro dedicato a Caen, Jean-Claude Perrot stima che nel 1789 la popolazione maschile adulta immigrata coprisse il 51,8% di tutta la popolazione42. Maurice Garden invece calcola che a Lyon, tra il 1749 e 1751, il 60,3% degli sposi e il 52,8% delle spose fosse forestieri43; e Daniel Roche cita per la Parigi di fine Settecento tassi che vanno, a seconda dei quartieri, dal 60 al 73%44. Altri dati di città europee si ritrovano anche nei lavori di Jean De Vries: ad Amsterdam per tutto il XVIII secolo “immigrants continued to account for nearly half of all marriage patterns” 45.
In conclusione, Torino può essere un ottimo punto di osservazione dei fenomeni migratori di antico regime così come delle dinamiche di inurbamento da questi innescate nel contesto urbano preindustriale. Quali siano le condizioni sociali, economiche e politiche in gioco nelle quali matura e prende forma la crescita vertiginosa descritta, ma anche se e come le modalità migratorie permangano invariate o mutino lungo tutto il secolo, rimangono problemi tuttora aperti sui quali intendono confrontarsi le ricerche che ho in corso.
In particolare, la ricchezza di dati disponibili per la città offre un’interessante occasione per mettere a punto modelli migratori più articolati e multidimensionali rispetto a quello fondato sulla centralità delle reti parentali o di compaesani. Certo, non si tratta di negare l’importanza di questo modello, mutuato dalla sociologia delle migrazioni e ampiamente e proficuamente utilizzato per spiegare alcune dinamiche migratorie in antico regime, come dimostrano gli studi citati. Ma non è l’unico: altri possono emergere se si rimettono in gioco e si prendono nella giusta considerazione variabili fino ad ora trascurate. Esse possono emergere con l’analisi dei meccanismi che stanno dietro a singoli percorsi migratori, ricostruiti attraverso puntuali e faticose ricostruzioni biografiche: solo così si possono aprire nuovi spiragli per lo studio delle società preindustriali e la mobilità degli individui verso la città e nel tessuto cittadino.
Note