La marginalità della Puglia nelle grandi fasi dell’emigrazione nazionale e meridionale, il suo ruolo appartato, ad esempio nella transizione tra XIX e XX secolo, con valori migratori per così dire fisiologici sino alla metà degli anni Ottanta e poi, con il principiare del nuovo secolo, con valori non più trascurabili in cifre assolute, pur tuttavia dimezzati, all’incirca sino al 1910, rispetto al dato meridionale, possono forse spiegare la persistente indifferenza della storiografia ad indagare tempi ragioni e modalità delle migrazioni1.
Sino a tutti gli anni Settanta ad interessarsi di emigrazione non vi sono che gli studi di Franca Assante, lavori di certo importanti per la capacità di aprire la strada ad indagini successive, ma di fatto sintesi storico demografiche che, sulla base di fonti statistiche e documentarie formali e oggettive, dalla letteratura e pubblicistica d’epoca alle inchieste parlamentari, legano le ragioni delle migrazioni ai caratteri strutturali ed ai cicli dell’economia agricola locale, ne leggono gli effetti indotti di invecchiamento e di femminilizzazione della popolazione nelle aree di partenza ma anche di complessivo arretramento di quelle economie locali che proprio dall’emigrazione avrebbero potuto trarre spinte modernizzatrici2. Altri dati e informazioni sull’emigrazione regionale sono poi rintracciabili in quella letteratura, nel complesso di impianto descrittivo, che guarda all’emigrazione meridionale per grandi aggregati territoriali, il Mezzogiorno e le sue regioni amministrative, e appare interessata a coglierne le dinamiche quantitative e le componenti economiche e ad interpretarle da differenti presupposti ideologici a seconda del rilevo riconosciuto nelle migrazioni ai fattori di espulsione o a quelli di attrazione3. Si tratta di studi, come anche quelli della Assante, che possono inscriversi in una stagione storiografica che, richiamandosi alla tradizione del meridionalismo liberale o all’opposto alla tradizione del meridionalismo marxista, nel mentre guarda alla emigrazione italiana tra secoli XIX e XX, sembra voler interpretare le ragioni storiche della intensa mobilità che dal dopoguerra è andata riavviandosi nel paese, attraversando largamente le regioni meridionali, sia pure in termini temporali e spaziali differenti rispetto al passato4.
Dalla fine degli anni Settanta la felice stagione storiografica vissuta dagli studi sull’emigrazione, che l’apporto vitale delle scienze economiche e sociali arricchisce ora di temi e metodologie5, ed insieme la incisiva critica, avanzata dal gruppo di studiosi riuniti attorno all’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes, fondato nel 1986) e alla sua rivista “Meridiana” (fondata nel 1987), del mainstream storiografico di una visione dualistica e separata del Mezzogiorno, tutta incentrata sul paradigma dell’arretratezza e dell’immobilismo di questo e su un confronto con il resto più “sviluppato” del paese6, non possono che riflettersi positivamente sugli studi storici dell’emigrazione meridionale e regionale. Il ripensamento storiografico promosso da “Meridiana” investe le declinazioni tradizionali delle categorie spaziali e temporali della storia del Mezzogiorno italiano, nella dilatazione spazio temporale che ne segue appaiono illuminati di luce nuova territori e città, gruppi sociali e loro tempi di vita e lavoro, un ambiente relazionale che la visione di lunga durata e la prospettiva di economia mondo consentono di dilatare nello spazio-tempo del Mediterraneo e dell’accumulazione capitalistica originaria dell’economia in età moderna.
Mentre dunque si avvia una nuova generazione di storie, più distaccate e “locali” delle precedenti pur nelle loro rivendicazioni di maggiore scientificità, di storie interessate non “a negare le specificità della storia del Mezzogiorno ma a ripensare i modi in cui poterle leggere” 7, la riflessione storica sull’emigrazione regionale conosce una spinta disarticolazione, le sintesi generali lasciano il posto ad indagini ravvicinate, lo sguardo si sposta, ora nei termini di lungo periodo, dai grandi aggregati territoriali ad aree circoscritte e non banalmente coincidenti con le circoscrizioni politico amministrative8, la storia dell’emigrazione può divenire lente euristica attraverso cui leggere i processi economici e sociali che attraversano le comunità locali quando riesce ad arricchirsi dell’intreccio con l’analisi economica, demografica e sociologica.
Il rinnovato interesse, che segna ora la storiografia dell’emigrazione pugliese nei secoli XIX e XX, incomincia a mettere in discussione non pochi stereotipi consolidati come il legame tra emigrazione e arretratezza, quella ostinazione, scrive Lorenzo Palumbo, a riconoscere quali unici protagonisti dell’emigrazione regionale solo braccianti e proletari e a trascurare le molte partenze, in prevalenza dalla fascia costiera barese, verso la Dalmazia e la Grecia, di avvocati, medici, agronomi, flebotomi, farmacisti, ingegneri, partenze dettate dalla ricerca di migliori capacità di guadagno e di risparmio9. La stessa storica periodizzazione dell’emigrazione meridionale legata allo stereotipo della crisi agraria di fine XIX secolo, quale acceleratore di una migrazione prima latente, comincia ad essere incrinata. Accogliendo le sollecitazioni di quanti, in questi anni, invitano a non sottovalutare i fenomeni di continuità nei movimenti delle popolazioni tra età moderna e contemporanea10, le migrazioni oltre frontiera vengono confrontate e legate alle rilevanti correnti migratorie interne che attraversano, sin dall’età moderna, l’intero spazio regionale spesso travalicandone i confini amministrativi e conformandosi ai suoi particolari caratteri storico strutturali.
Gli studi storici incominciano a ripercorrere l’esperienza migratoria regionale assumendo quale paradigma interpretativo una “cultura della mobilità”, a spiegare come sia stata questa ad aver sorretto, per l’età moderna e contemporanea, il generale processo migratorio in qualche modo spiegandone entità e ritmi. Un rapporto tuttavia univoco e di correlazione inversa tra le migrazioni interne e le migrazioni estere, con il dispiegarsi di queste in fasi calanti di quelle, si ritiene non sempre verificabile, apparendo le due facce della migrazione complessiva riassumibili solo entro un modello complesso. Se dunque, talvolta, il modello migratorio può essere letto secondo fasi e catene ordinate e di tipo evolutivo, dal piccolo raggio a quello medio e lungo, dal breve periodo a quello medio e lungo, in numerosi altri casi la bi-univocità e sequenza cronologica tra l’alta pendolarità di lavoro delle popolazioni e l’emigrazione sembrano contraddirsi11.
All’interno del macromodello migratorio regionale la storiografia dell’emigrazione pugliese incomincia a distinguere differenti micromodelli geografico-funzionali e a costruire attorno ad essi i nuovi terreni di ricerca riconoscendo la ardua interpretabilità univoca e semplificata del processo migratorio e la presenza al suo interno di un intreccio di fattori di varia significatività e natura. Agli studi, ancora prevalenti, delle migrazioni rurali, ricollegabili alle progressive trasformazioni e ricorrenti crisi nelle campagne si affiancano ora gli studi delle migrazioni urbane che investono le città costiere della Puglia centrale, con Bari e attorno a Bari, e che vedono protagonisti non trascurabili strati di lavoratori delle città e dei rispettivi hinterlands, mobilizzati, nel bene e nel male, dagli intensi processi di urbanizzazione che vi si registrano tra fine XIX e XX secolo.
Alle migrazioni rurali, il primo dei terreni di ricerca suindicato, guardano le articolate e documentate ricostruzioni storico demografiche di Agnese Sinisi che assume il “nomadismo contadino” quale chiave di lettura della diversità della società rurale meridionale rispetto ad altre dello stesso mondo mediterraneo, una diversità databile al Medioevo ma che, come scrive, si è andata ancor più accentuando in tutta l’età moderna12. Nel ricostruire i molti percorsi delle migrazioni stagionali all’interno delle due zone agrarie della cerealicoltura (tra azienda contadina e masseria cerealicola nel Tavoliere, nell’area interna collinare di Bari, la Murgia, e nella parte nord-occidentale della Terra d’Otanto) e del giardino mediterraneo (tra le piccole aziende olivicole delle cittadine costiere e della Terra d’Otranto e le masserie cerealicole della Murgia e del Tavoliere o le aree cerealicole della stessa Terra d’Otranto) la Sinisi ne spiega l’intensificarsi e la trasformazione in migrazioni definitive in stretta connessione con i cicli dell’economia rurale, in un tempo lungo che dal XVI secolo si snoda sino alla prima metà del XIX.
Anche Biagio Salvemini, che ripercorre attraverso i contratti notarili di “anteneria” 13 il flusso ampio di lavoro tra la masseria cerealicola e il minifondo olivicolo nella Terra di Bari, un flusso “sostanzialmente a senso unico, dal secondo verso la prima, collocato tra maggio e giugno, quando la domanda di braccia nel latifondo si fa spasmodica e va ad incontrare sulla costa un’offerta di braccia altrettanto intensa causata da un vuoto pressoché assoluto del calendario olivicolo” 14, spiega come nei decenni postunitari proprio il diffondersi delle malattie dell’olivo abbia indotto molti migranti “a lacerare ogni rapporto con gli ingrati boschi di olivi e a trasformare le migrazioni stagionali verso le aree granifere in emigrazioni definitive, preparando il terreno alla grande emigrazione transoceanica dei decenni tra Ottocento e Novecento” 15.
Il rapporto tra migrazioni interne e migrazioni estere, come si è detto, non si configura come lineare, se le migrazioni stagionali preparano le emigrazioni, quasi “agevolandole”, anche spezzando l’isolamento dei contadini con la possibilità di acquisire informazioni utili e talvolta decisive per le successive scelte emigratorie16, le migrazioni oltre frontiera, spiegano Leandra D’Antone e Biagio Salvemini, ridisegnano la geografia della mobilità territoriale ed i relativi bacini di gravitazione mentre le stesse difficoltà nella gestione dei microfoni, acquistati con le rimesse o con i risparmi accumulati, spesso finivano con il sostenere nuove migrazioni interne17.
Il secondo terreno di ricerca, quello delle migrazioni urbane, viene perseguito da quanti ritengono ormai necessaria l’integrazione del tradizionale modello storiografico ruralista delle storie meridionali, appiattito sul tradizionale tempo lungo delle campagne e del lavoro agricolo, in un più ampio quadro di relazioni capace di cogliere il ruolo forte giocato dalle città, e non solo da quelle “contadine”, quanto anche dai nuovi centri amministrativi e dai più vecchi mercati costieri18. Gli studi, di chi scrive 19 e di Saverio Russo20, sulle emigrazioni dalla città capoluogo, la suggestiva microstoria della fishing community molfettese veicolo dell’emigrazione cittadina di fine secolo XIX di Biagio Salvemini21, hanno cercato di spiegare come in Puglia alla tipica emigrazione dalle aree della agricoltura marginale si affiancano scelte di espatrio di più complessa classificazione ed esito legate al variegato quadro dell’offerta di lavoro urbana tra transiti temporanei dequalificati di provenienza rurale, disagi e dislocazioni rivenienti alla vecchia società urbana di antico regime dalla modernizzazione produttiva e amministrativa della città, e ricerche di valorizzazioni e messe a frutto di professionalità possedute o acquisite (artigianato, edilizia) nei grand travaux di infrastrutturazione territoriale che dall’area balcanica si spingono sino a quella di Suez. Le migrazioni urbane investono, in misura crescente con il principiare del nuovo secolo, soprattutto il circondario del capoluogo regionale a partire dai grandi centri della costa, Molfetta, Trani, la stessa Bari, e si orientano, diversamente da quelle rurali, oltreoceaniche e americane, lungo le rotte degli antichi traffici commerciali della Puglia centrale con l’Oriente balcanico, l’Egitto e l’Europa centrale per il tramite adriatico e di Trieste.
L’indagine ravvicinata di scrive sulle emigrazioni da Molfetta, il più importante porto peschereccio della Puglia del XIX secolo, ed anche per questo luogo tradizionalmente aperto a mobilità e scambi, la ricostruzione, in parallelo con le vicende della grande pesca, della dislocazione rapida ed intensa della sua economia in chiave industriale prima e del suo altrettanto intenso e rapido declino poi per la troppa spinta concorrenza nazionale regionale, tentano di spiegare come l’emigrazione si configuri, in ampie realtà della Puglia, più come un riflesso della modernizzazione avanzante e della disgregazione da questa indotta entro i vecchi equilibri delle campagne e delle città, che un aspetto della crisi autonoma del vecchio ordinamento economico e sociale ed un prerequisito della modernizzazione22.
L’analisi più ravvicinata, che l’intreccio delle discipline storiche e sociali ha consentito, nel mentre rinvia ad una visione nuova e più complessa delle dinamiche migratorie regionali e dei progetti che le animano, comporta uno slargamento delle fonti archivistiche tradizionali e il dislocarsi dell’attenzione dalle dinamiche collettive a quelle individuali e familiari. Giovanna Da Molin – è nei suoi studi che si identifica prevalentemente questo terzo terreno di ricerca – utilizza le indicazioni sulla consistenza numerica della popolazione derivanti da documenti di stato, dai catasti, dalla “Collettive delle anime”, registri parrocchiali redatti con finalità religiose, per leggere le implicazioni economiche, sociali, demografiche e naturalmente umane rivenienti dalla mobilità territoriale della popolazione contadina in un tempo lungo che dal XVII secolo giunge sino al XIX23. Nei grossi centri del Tavoliere, Foggia in particolare, i bassi tassi di mascolinità della popolazione residente, ed anche la alta presenza di vedove, giovani e meno giovani, una caratteristica questa peculiare della Capitanata, nella regione, vengono letti come effetti indotti dalle consistenti emigrazioni, prevalentemente maschili, un impoverimento della popolazione che i movimenti stagionali di manodopera non riuscivano ad attutire24. La stessa struttura famigliare, in Puglia tendenzialmente nucleare, risente in queste aree di esodi della forte mobilità della popolazione, la famiglia tende ad allargarsi per accogliere nuclei parentali immigrati in cerca di lavoro ma anche per coprire quei vuoti ed alleviare quelle lacerazioni che le emigrazioni, spesso senza ritorno, avevano determinato25.
Anche la analisi sulla mobilità interna diviene più articolata e fine, penetra nelle comunità e nelle famiglie, negli orizzonti mentali di gruppi sociali e di singoli attori, ricostruisce pazientemente relazioni amicali e parentali ma anche complessi reticoli sociali: Giovanna Da Molin scrive delle “alleanze matrimoniali” tra “uomo forestiero” e “donna residente”, frequenti nei grossi centri di immigrazione del Tavoliere, come strada largamente praticata dai giovani lavoratori immigrati per stabilirsi nei luoghi in cui più alta era la domanda di lavoro, così trasformando la propria immigrazione da stagionale in definitiva26; Annastella Carrino ricorre alle biografie individuali e familiari dei “forestieri” per leggere il lungo percorso, complicato e non indolore, che trasforma Bari da città di antico regime a centro nodale sul finire del XIX secolo. La sua accurata ricostruzione delle reti di relazione e dei legami solidaristici intrecciati fotografa l’immigrazione come fenomeno complesso, capace di scomporsi in differenti fasi temporali, in una pluralità di modelli migratori e di strategie familiari27.
Gli studi sulla mobilità territoriale della Puglia di età moderna e contemporanea, articolati nei terreni di indagine di cui si è detto, hanno indicato con sufficiente chiarezza una prima classificazione e tassonomia di micromodelli geografico funzionali all’interno del macromodello migratorio regionale, si pone dunque, a quanti fanno ricerca, per una realtà come la Puglia a lungo priva di riflessioni sistematiche, il compito di procedere ad un lavoro tematico ulteriore, geograficamente più verticale e di profondità, anche se magari nuovamente “orizzontale” sul terreno dell’analisi e della microstoria sociale e di comunità. La ricerca invece appare essersi arenata, gli studi sull’emigrazione pugliese attraversano ora una fase di stanca, in linea certo con analoghe tendenze nazionali28, ma forse anche perché si inceppava, già dagli anni novanta, la rilettura storiografica promossa e animata da “Meridiana” per il manifestarsi di nuove marginalità e difficoltà economiche e sociali del Mezzogiorno – last but not least il resistere della criminalità ai pur rilevanti sforzi talora fatti per contrastarla – e di fronte ad esse incominciavano a vacillare gli ottimismi di visioni e iniziative auto-centrate e nuovamente riapparivano i fantasmi di una irrisolta questione nazionale. La Puglia poi si andava trasformando, rapidamente e tumultuosamente, in terra di approdo, o di solo transito verso l’Europa occidentale e settentrionale, di migrazioni provenienti dai paesi mediterranei dell’Africa prima, dagli altri più lontani bacini del Terzo Mondo poi, dalla fine degli anni ottanta dai paesi dell’est europeo, e l’attenzione di quanti erano stati attratti dai processi di mobilità territoriale regionale si spostava sui movimenti in arrivo dall’estero, per tentare confronti e analogie con la passata esperienza migratoria nazionale e locale29 e così contribuire alla migliore comprensione di processi divenuti ormai strutturali nella società italiana.
Le indagini ancora in fieri, di recente avviate da due giovani storiche, entrambe salentine, operanti l’una a Berlino e l’altra a Liegi, influenzate dalle prime ricostruzioni storiche del rapporto tra migrazioni e processo di integrazione europea30, promettono tuttavia di interrompere la rinnovata indifferenza della storiografia sull’emigrazione regionale e di aprire terreni di ricerca ancora inesplorati. Grazia Prontera guarda alla “negotiated labour migration” nella Germania federale del dopoguerra, alla comunità salentina nella città di Wolfsburg, la città nuova voluta dal nazismo, nella seconda metà degli anni trenta, per ospitare i futuri operai della Volkswagen31. Incastrando sapientemente fonti archivistiche italiane e tedesche, fonti a stampa e testimonianze dell’oggi, raccolte nelle comunità di partenza e di arrivo32, la Prontera ricostruisce, disarticolandolo in tre fasi, il percorso migratorio che portò i salentini alla e-migrazione dalla provincia di Lecce, poi alla im-migrazione a Wolfsburg ed infine alla re-migrazione in Salento. Le fonti utilizzate e la stessa comparazione tra fonti italiane e tedesche, se fotografano i diversi momenti della vicenda migratoria salentina, dalle modalità del reclutamento, al lavoro in fabbrica, alla quotidianità della vita al Berliner Brucke, restituiscono anche la povertà drammatica del paese di partenza e tutta la delusione che accompagnava i ritorni in quelle comunità di origine che rimanevano pur tuttavia, per ogni emigrante, costante punto di riferimento su cui valutare la propria realizzazione e definire la propria identità sociale, indagano inoltre sul valore assunto dall’esperienza migratoria nella vita dei protagonisti33. Paola Manno guarda invece a quegli emigranti salentini che, a seguito degli accordi bilaterali del 1946, partirono per lavorare “in profondità” nelle miniere carbonifere del bacino di Liegi e ricostruisce una geografia dei “villaggi salentini” in uno dei cinque bacini carboniferi del Belgio, quello di Liegi34. Come la Prontera, anche la Manno ricorre a fonti italiane e belghe, intreccia abilmente i dati quantitativi degli archivi italiani e dei registri delle miniere conservati nell’archivio di Seraing a Liegi35, “una preziosissima fonte d’informazioni sul lavoro operaio nelle miniere”, con quelli qualitativi delle testimonianze orali raccolte nelle comunità di partenza e di arrivo e nelle associazioni di ex minatori belghe e salentine. Le fonti studiate confermano la centralità delle relazioni parentali ed amicali nell’orientare e nel sostenere i percorsi migratori, documentano la estrema durezza e pericolosità del lavoro in miniera che costringe ad una alta mobilità geografica i minatori salentini, spiegano la non facile interazione sociale degli emigrati per la persistenza di forti legami con i luoghi di provenienza ma anche per la preferenza accordata dai belgi ai lavoratori settentrionali, “più simili per mentalità e per costumi al popolo belga”, indagano poi sui risvolti sociali e culturali derivanti dal confronto con una realtà socialmente e culturalmente diversa dal Salento del dopoguerra.
Le ricerche della Prontera e della Manno associano le migrazioni al fallimento della riforma agraria, assunta quale prima responsabile dell’emigrazione all’estero della popolazione contadina salentina36. Dalle campagne, e in esse dalle aree più direttamente coinvolte nella riforma, il Gargano, l’Appennino dauno, la Murgia salentina, la parte occidentale dell’Arneo, hanno inizio le prime migrazioni sotto la spinta delle contraddizioni suscitate da una riforma discriminante e incompleta ed insieme degli effetti indotti dall’avvio dell’integrazione nel Mercato comune europeo37. Le partenze verso il nord del paese o l’Europa centro occidentale si intrecciano, ancora una volta, con una intensa mobilità interna che ora muove verso le città capoluogo di provincia o verso le aree in via di crescente urbanizzazione, di frequente preparando spostamenti di più lungo raggio.“Ma come accadde nel primo decennio del secolo – ha scritto Luigi Masella – l’esodo degli emigranti pugliesi verso l’Italia settentrionale o in direzione degli altri paesi dell’Europa o delle Americhe non sconvolse il tessuto demografico e sociale della maggior parte delle comunità rurali. I flussi migratori, in altri termini, impoverirono ulteriormente aree già deboli e marginali della Puglia, non coinvolsero invece le aree trainanti della regione, che continuarono a far registrare un saldo demografico attivo, prodotto sostanzialmente dalla crescita naturale della popolazione” 38.Note
Sino a tutti gli anni Settanta ad interessarsi di emigrazione non vi sono che gli studi di Franca Assante, lavori di certo importanti per la capacità di aprire la strada ad indagini successive, ma di fatto sintesi storico demografiche che, sulla base di fonti statistiche e documentarie formali e oggettive, dalla letteratura e pubblicistica d’epoca alle inchieste parlamentari, legano le ragioni delle migrazioni ai caratteri strutturali ed ai cicli dell’economia agricola locale, ne leggono gli effetti indotti di invecchiamento e di femminilizzazione della popolazione nelle aree di partenza ma anche di complessivo arretramento di quelle economie locali che proprio dall’emigrazione avrebbero potuto trarre spinte modernizzatrici2. Altri dati e informazioni sull’emigrazione regionale sono poi rintracciabili in quella letteratura, nel complesso di impianto descrittivo, che guarda all’emigrazione meridionale per grandi aggregati territoriali, il Mezzogiorno e le sue regioni amministrative, e appare interessata a coglierne le dinamiche quantitative e le componenti economiche e ad interpretarle da differenti presupposti ideologici a seconda del rilevo riconosciuto nelle migrazioni ai fattori di espulsione o a quelli di attrazione3. Si tratta di studi, come anche quelli della Assante, che possono inscriversi in una stagione storiografica che, richiamandosi alla tradizione del meridionalismo liberale o all’opposto alla tradizione del meridionalismo marxista, nel mentre guarda alla emigrazione italiana tra secoli XIX e XX, sembra voler interpretare le ragioni storiche della intensa mobilità che dal dopoguerra è andata riavviandosi nel paese, attraversando largamente le regioni meridionali, sia pure in termini temporali e spaziali differenti rispetto al passato4.
Dalla fine degli anni Settanta la felice stagione storiografica vissuta dagli studi sull’emigrazione, che l’apporto vitale delle scienze economiche e sociali arricchisce ora di temi e metodologie5, ed insieme la incisiva critica, avanzata dal gruppo di studiosi riuniti attorno all’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes, fondato nel 1986) e alla sua rivista “Meridiana” (fondata nel 1987), del mainstream storiografico di una visione dualistica e separata del Mezzogiorno, tutta incentrata sul paradigma dell’arretratezza e dell’immobilismo di questo e su un confronto con il resto più “sviluppato” del paese6, non possono che riflettersi positivamente sugli studi storici dell’emigrazione meridionale e regionale. Il ripensamento storiografico promosso da “Meridiana” investe le declinazioni tradizionali delle categorie spaziali e temporali della storia del Mezzogiorno italiano, nella dilatazione spazio temporale che ne segue appaiono illuminati di luce nuova territori e città, gruppi sociali e loro tempi di vita e lavoro, un ambiente relazionale che la visione di lunga durata e la prospettiva di economia mondo consentono di dilatare nello spazio-tempo del Mediterraneo e dell’accumulazione capitalistica originaria dell’economia in età moderna.
Mentre dunque si avvia una nuova generazione di storie, più distaccate e “locali” delle precedenti pur nelle loro rivendicazioni di maggiore scientificità, di storie interessate non “a negare le specificità della storia del Mezzogiorno ma a ripensare i modi in cui poterle leggere” 7, la riflessione storica sull’emigrazione regionale conosce una spinta disarticolazione, le sintesi generali lasciano il posto ad indagini ravvicinate, lo sguardo si sposta, ora nei termini di lungo periodo, dai grandi aggregati territoriali ad aree circoscritte e non banalmente coincidenti con le circoscrizioni politico amministrative8, la storia dell’emigrazione può divenire lente euristica attraverso cui leggere i processi economici e sociali che attraversano le comunità locali quando riesce ad arricchirsi dell’intreccio con l’analisi economica, demografica e sociologica.
Il rinnovato interesse, che segna ora la storiografia dell’emigrazione pugliese nei secoli XIX e XX, incomincia a mettere in discussione non pochi stereotipi consolidati come il legame tra emigrazione e arretratezza, quella ostinazione, scrive Lorenzo Palumbo, a riconoscere quali unici protagonisti dell’emigrazione regionale solo braccianti e proletari e a trascurare le molte partenze, in prevalenza dalla fascia costiera barese, verso la Dalmazia e la Grecia, di avvocati, medici, agronomi, flebotomi, farmacisti, ingegneri, partenze dettate dalla ricerca di migliori capacità di guadagno e di risparmio9. La stessa storica periodizzazione dell’emigrazione meridionale legata allo stereotipo della crisi agraria di fine XIX secolo, quale acceleratore di una migrazione prima latente, comincia ad essere incrinata. Accogliendo le sollecitazioni di quanti, in questi anni, invitano a non sottovalutare i fenomeni di continuità nei movimenti delle popolazioni tra età moderna e contemporanea10, le migrazioni oltre frontiera vengono confrontate e legate alle rilevanti correnti migratorie interne che attraversano, sin dall’età moderna, l’intero spazio regionale spesso travalicandone i confini amministrativi e conformandosi ai suoi particolari caratteri storico strutturali.
Gli studi storici incominciano a ripercorrere l’esperienza migratoria regionale assumendo quale paradigma interpretativo una “cultura della mobilità”, a spiegare come sia stata questa ad aver sorretto, per l’età moderna e contemporanea, il generale processo migratorio in qualche modo spiegandone entità e ritmi. Un rapporto tuttavia univoco e di correlazione inversa tra le migrazioni interne e le migrazioni estere, con il dispiegarsi di queste in fasi calanti di quelle, si ritiene non sempre verificabile, apparendo le due facce della migrazione complessiva riassumibili solo entro un modello complesso. Se dunque, talvolta, il modello migratorio può essere letto secondo fasi e catene ordinate e di tipo evolutivo, dal piccolo raggio a quello medio e lungo, dal breve periodo a quello medio e lungo, in numerosi altri casi la bi-univocità e sequenza cronologica tra l’alta pendolarità di lavoro delle popolazioni e l’emigrazione sembrano contraddirsi11.
All’interno del macromodello migratorio regionale la storiografia dell’emigrazione pugliese incomincia a distinguere differenti micromodelli geografico-funzionali e a costruire attorno ad essi i nuovi terreni di ricerca riconoscendo la ardua interpretabilità univoca e semplificata del processo migratorio e la presenza al suo interno di un intreccio di fattori di varia significatività e natura. Agli studi, ancora prevalenti, delle migrazioni rurali, ricollegabili alle progressive trasformazioni e ricorrenti crisi nelle campagne si affiancano ora gli studi delle migrazioni urbane che investono le città costiere della Puglia centrale, con Bari e attorno a Bari, e che vedono protagonisti non trascurabili strati di lavoratori delle città e dei rispettivi hinterlands, mobilizzati, nel bene e nel male, dagli intensi processi di urbanizzazione che vi si registrano tra fine XIX e XX secolo.
Alle migrazioni rurali, il primo dei terreni di ricerca suindicato, guardano le articolate e documentate ricostruzioni storico demografiche di Agnese Sinisi che assume il “nomadismo contadino” quale chiave di lettura della diversità della società rurale meridionale rispetto ad altre dello stesso mondo mediterraneo, una diversità databile al Medioevo ma che, come scrive, si è andata ancor più accentuando in tutta l’età moderna12. Nel ricostruire i molti percorsi delle migrazioni stagionali all’interno delle due zone agrarie della cerealicoltura (tra azienda contadina e masseria cerealicola nel Tavoliere, nell’area interna collinare di Bari, la Murgia, e nella parte nord-occidentale della Terra d’Otanto) e del giardino mediterraneo (tra le piccole aziende olivicole delle cittadine costiere e della Terra d’Otranto e le masserie cerealicole della Murgia e del Tavoliere o le aree cerealicole della stessa Terra d’Otranto) la Sinisi ne spiega l’intensificarsi e la trasformazione in migrazioni definitive in stretta connessione con i cicli dell’economia rurale, in un tempo lungo che dal XVI secolo si snoda sino alla prima metà del XIX.
Anche Biagio Salvemini, che ripercorre attraverso i contratti notarili di “anteneria” 13 il flusso ampio di lavoro tra la masseria cerealicola e il minifondo olivicolo nella Terra di Bari, un flusso “sostanzialmente a senso unico, dal secondo verso la prima, collocato tra maggio e giugno, quando la domanda di braccia nel latifondo si fa spasmodica e va ad incontrare sulla costa un’offerta di braccia altrettanto intensa causata da un vuoto pressoché assoluto del calendario olivicolo” 14, spiega come nei decenni postunitari proprio il diffondersi delle malattie dell’olivo abbia indotto molti migranti “a lacerare ogni rapporto con gli ingrati boschi di olivi e a trasformare le migrazioni stagionali verso le aree granifere in emigrazioni definitive, preparando il terreno alla grande emigrazione transoceanica dei decenni tra Ottocento e Novecento” 15.
Il rapporto tra migrazioni interne e migrazioni estere, come si è detto, non si configura come lineare, se le migrazioni stagionali preparano le emigrazioni, quasi “agevolandole”, anche spezzando l’isolamento dei contadini con la possibilità di acquisire informazioni utili e talvolta decisive per le successive scelte emigratorie16, le migrazioni oltre frontiera, spiegano Leandra D’Antone e Biagio Salvemini, ridisegnano la geografia della mobilità territoriale ed i relativi bacini di gravitazione mentre le stesse difficoltà nella gestione dei microfoni, acquistati con le rimesse o con i risparmi accumulati, spesso finivano con il sostenere nuove migrazioni interne17.
Il secondo terreno di ricerca, quello delle migrazioni urbane, viene perseguito da quanti ritengono ormai necessaria l’integrazione del tradizionale modello storiografico ruralista delle storie meridionali, appiattito sul tradizionale tempo lungo delle campagne e del lavoro agricolo, in un più ampio quadro di relazioni capace di cogliere il ruolo forte giocato dalle città, e non solo da quelle “contadine”, quanto anche dai nuovi centri amministrativi e dai più vecchi mercati costieri18. Gli studi, di chi scrive 19 e di Saverio Russo20, sulle emigrazioni dalla città capoluogo, la suggestiva microstoria della fishing community molfettese veicolo dell’emigrazione cittadina di fine secolo XIX di Biagio Salvemini21, hanno cercato di spiegare come in Puglia alla tipica emigrazione dalle aree della agricoltura marginale si affiancano scelte di espatrio di più complessa classificazione ed esito legate al variegato quadro dell’offerta di lavoro urbana tra transiti temporanei dequalificati di provenienza rurale, disagi e dislocazioni rivenienti alla vecchia società urbana di antico regime dalla modernizzazione produttiva e amministrativa della città, e ricerche di valorizzazioni e messe a frutto di professionalità possedute o acquisite (artigianato, edilizia) nei grand travaux di infrastrutturazione territoriale che dall’area balcanica si spingono sino a quella di Suez. Le migrazioni urbane investono, in misura crescente con il principiare del nuovo secolo, soprattutto il circondario del capoluogo regionale a partire dai grandi centri della costa, Molfetta, Trani, la stessa Bari, e si orientano, diversamente da quelle rurali, oltreoceaniche e americane, lungo le rotte degli antichi traffici commerciali della Puglia centrale con l’Oriente balcanico, l’Egitto e l’Europa centrale per il tramite adriatico e di Trieste.
L’indagine ravvicinata di scrive sulle emigrazioni da Molfetta, il più importante porto peschereccio della Puglia del XIX secolo, ed anche per questo luogo tradizionalmente aperto a mobilità e scambi, la ricostruzione, in parallelo con le vicende della grande pesca, della dislocazione rapida ed intensa della sua economia in chiave industriale prima e del suo altrettanto intenso e rapido declino poi per la troppa spinta concorrenza nazionale regionale, tentano di spiegare come l’emigrazione si configuri, in ampie realtà della Puglia, più come un riflesso della modernizzazione avanzante e della disgregazione da questa indotta entro i vecchi equilibri delle campagne e delle città, che un aspetto della crisi autonoma del vecchio ordinamento economico e sociale ed un prerequisito della modernizzazione22.
L’analisi più ravvicinata, che l’intreccio delle discipline storiche e sociali ha consentito, nel mentre rinvia ad una visione nuova e più complessa delle dinamiche migratorie regionali e dei progetti che le animano, comporta uno slargamento delle fonti archivistiche tradizionali e il dislocarsi dell’attenzione dalle dinamiche collettive a quelle individuali e familiari. Giovanna Da Molin – è nei suoi studi che si identifica prevalentemente questo terzo terreno di ricerca – utilizza le indicazioni sulla consistenza numerica della popolazione derivanti da documenti di stato, dai catasti, dalla “Collettive delle anime”, registri parrocchiali redatti con finalità religiose, per leggere le implicazioni economiche, sociali, demografiche e naturalmente umane rivenienti dalla mobilità territoriale della popolazione contadina in un tempo lungo che dal XVII secolo giunge sino al XIX23. Nei grossi centri del Tavoliere, Foggia in particolare, i bassi tassi di mascolinità della popolazione residente, ed anche la alta presenza di vedove, giovani e meno giovani, una caratteristica questa peculiare della Capitanata, nella regione, vengono letti come effetti indotti dalle consistenti emigrazioni, prevalentemente maschili, un impoverimento della popolazione che i movimenti stagionali di manodopera non riuscivano ad attutire24. La stessa struttura famigliare, in Puglia tendenzialmente nucleare, risente in queste aree di esodi della forte mobilità della popolazione, la famiglia tende ad allargarsi per accogliere nuclei parentali immigrati in cerca di lavoro ma anche per coprire quei vuoti ed alleviare quelle lacerazioni che le emigrazioni, spesso senza ritorno, avevano determinato25.
Anche la analisi sulla mobilità interna diviene più articolata e fine, penetra nelle comunità e nelle famiglie, negli orizzonti mentali di gruppi sociali e di singoli attori, ricostruisce pazientemente relazioni amicali e parentali ma anche complessi reticoli sociali: Giovanna Da Molin scrive delle “alleanze matrimoniali” tra “uomo forestiero” e “donna residente”, frequenti nei grossi centri di immigrazione del Tavoliere, come strada largamente praticata dai giovani lavoratori immigrati per stabilirsi nei luoghi in cui più alta era la domanda di lavoro, così trasformando la propria immigrazione da stagionale in definitiva26; Annastella Carrino ricorre alle biografie individuali e familiari dei “forestieri” per leggere il lungo percorso, complicato e non indolore, che trasforma Bari da città di antico regime a centro nodale sul finire del XIX secolo. La sua accurata ricostruzione delle reti di relazione e dei legami solidaristici intrecciati fotografa l’immigrazione come fenomeno complesso, capace di scomporsi in differenti fasi temporali, in una pluralità di modelli migratori e di strategie familiari27.
Gli studi sulla mobilità territoriale della Puglia di età moderna e contemporanea, articolati nei terreni di indagine di cui si è detto, hanno indicato con sufficiente chiarezza una prima classificazione e tassonomia di micromodelli geografico funzionali all’interno del macromodello migratorio regionale, si pone dunque, a quanti fanno ricerca, per una realtà come la Puglia a lungo priva di riflessioni sistematiche, il compito di procedere ad un lavoro tematico ulteriore, geograficamente più verticale e di profondità, anche se magari nuovamente “orizzontale” sul terreno dell’analisi e della microstoria sociale e di comunità. La ricerca invece appare essersi arenata, gli studi sull’emigrazione pugliese attraversano ora una fase di stanca, in linea certo con analoghe tendenze nazionali28, ma forse anche perché si inceppava, già dagli anni novanta, la rilettura storiografica promossa e animata da “Meridiana” per il manifestarsi di nuove marginalità e difficoltà economiche e sociali del Mezzogiorno – last but not least il resistere della criminalità ai pur rilevanti sforzi talora fatti per contrastarla – e di fronte ad esse incominciavano a vacillare gli ottimismi di visioni e iniziative auto-centrate e nuovamente riapparivano i fantasmi di una irrisolta questione nazionale. La Puglia poi si andava trasformando, rapidamente e tumultuosamente, in terra di approdo, o di solo transito verso l’Europa occidentale e settentrionale, di migrazioni provenienti dai paesi mediterranei dell’Africa prima, dagli altri più lontani bacini del Terzo Mondo poi, dalla fine degli anni ottanta dai paesi dell’est europeo, e l’attenzione di quanti erano stati attratti dai processi di mobilità territoriale regionale si spostava sui movimenti in arrivo dall’estero, per tentare confronti e analogie con la passata esperienza migratoria nazionale e locale29 e così contribuire alla migliore comprensione di processi divenuti ormai strutturali nella società italiana.
Le indagini ancora in fieri, di recente avviate da due giovani storiche, entrambe salentine, operanti l’una a Berlino e l’altra a Liegi, influenzate dalle prime ricostruzioni storiche del rapporto tra migrazioni e processo di integrazione europea30, promettono tuttavia di interrompere la rinnovata indifferenza della storiografia sull’emigrazione regionale e di aprire terreni di ricerca ancora inesplorati. Grazia Prontera guarda alla “negotiated labour migration” nella Germania federale del dopoguerra, alla comunità salentina nella città di Wolfsburg, la città nuova voluta dal nazismo, nella seconda metà degli anni trenta, per ospitare i futuri operai della Volkswagen31. Incastrando sapientemente fonti archivistiche italiane e tedesche, fonti a stampa e testimonianze dell’oggi, raccolte nelle comunità di partenza e di arrivo32, la Prontera ricostruisce, disarticolandolo in tre fasi, il percorso migratorio che portò i salentini alla e-migrazione dalla provincia di Lecce, poi alla im-migrazione a Wolfsburg ed infine alla re-migrazione in Salento. Le fonti utilizzate e la stessa comparazione tra fonti italiane e tedesche, se fotografano i diversi momenti della vicenda migratoria salentina, dalle modalità del reclutamento, al lavoro in fabbrica, alla quotidianità della vita al Berliner Brucke, restituiscono anche la povertà drammatica del paese di partenza e tutta la delusione che accompagnava i ritorni in quelle comunità di origine che rimanevano pur tuttavia, per ogni emigrante, costante punto di riferimento su cui valutare la propria realizzazione e definire la propria identità sociale, indagano inoltre sul valore assunto dall’esperienza migratoria nella vita dei protagonisti33. Paola Manno guarda invece a quegli emigranti salentini che, a seguito degli accordi bilaterali del 1946, partirono per lavorare “in profondità” nelle miniere carbonifere del bacino di Liegi e ricostruisce una geografia dei “villaggi salentini” in uno dei cinque bacini carboniferi del Belgio, quello di Liegi34. Come la Prontera, anche la Manno ricorre a fonti italiane e belghe, intreccia abilmente i dati quantitativi degli archivi italiani e dei registri delle miniere conservati nell’archivio di Seraing a Liegi35, “una preziosissima fonte d’informazioni sul lavoro operaio nelle miniere”, con quelli qualitativi delle testimonianze orali raccolte nelle comunità di partenza e di arrivo e nelle associazioni di ex minatori belghe e salentine. Le fonti studiate confermano la centralità delle relazioni parentali ed amicali nell’orientare e nel sostenere i percorsi migratori, documentano la estrema durezza e pericolosità del lavoro in miniera che costringe ad una alta mobilità geografica i minatori salentini, spiegano la non facile interazione sociale degli emigrati per la persistenza di forti legami con i luoghi di provenienza ma anche per la preferenza accordata dai belgi ai lavoratori settentrionali, “più simili per mentalità e per costumi al popolo belga”, indagano poi sui risvolti sociali e culturali derivanti dal confronto con una realtà socialmente e culturalmente diversa dal Salento del dopoguerra.
Le ricerche della Prontera e della Manno associano le migrazioni al fallimento della riforma agraria, assunta quale prima responsabile dell’emigrazione all’estero della popolazione contadina salentina36. Dalle campagne, e in esse dalle aree più direttamente coinvolte nella riforma, il Gargano, l’Appennino dauno, la Murgia salentina, la parte occidentale dell’Arneo, hanno inizio le prime migrazioni sotto la spinta delle contraddizioni suscitate da una riforma discriminante e incompleta ed insieme degli effetti indotti dall’avvio dell’integrazione nel Mercato comune europeo37. Le partenze verso il nord del paese o l’Europa centro occidentale si intrecciano, ancora una volta, con una intensa mobilità interna che ora muove verso le città capoluogo di provincia o verso le aree in via di crescente urbanizzazione, di frequente preparando spostamenti di più lungo raggio.“Ma come accadde nel primo decennio del secolo – ha scritto Luigi Masella – l’esodo degli emigranti pugliesi verso l’Italia settentrionale o in direzione degli altri paesi dell’Europa o delle Americhe non sconvolse il tessuto demografico e sociale della maggior parte delle comunità rurali. I flussi migratori, in altri termini, impoverirono ulteriormente aree già deboli e marginali della Puglia, non coinvolsero invece le aree trainanti della regione, che continuarono a far registrare un saldo demografico attivo, prodotto sostanzialmente dalla crescita naturale della popolazione” 38.Note
1 Dal 1900 si assisterà ad una crescente omologazione temporale della curva migratoria regionale rispetto al modello generale, l’emigrazione raggiungerà le decine di migliaia di emigranti, con lo sfondamento, nel 1901, delle diecimila unità (14.767) e il raggiungimento nel 1913 (sette otto anni dopo la corrispondente dinamica del regno e del meridione) della sua punta più alta (41.837). Cfr. MAIC, Statistica dell’emigrazione italiana, ad annum, Roma 1903-1925.
2 Franca Assante, Città e campagne nella Puglia del secolo XIX. L’evoluzione demografica, Genève, Droz, 1974; Id., L’emigrazione nella Puglia di fine Ottocento: origini ed effetti, in Il movimento migratorio italiano dall’Unità nazionale ai nostri giorni, Genève, Droz, 1978.
3 Alla tradizione del meridionalismo liberale si richiama Giuseppe Galasso, Migrazione e insediamenti nell’Italia meridionale, in Problemi demografici e questione meridionale, a cura di Corrado Beguinot e Giuseppe Galasso, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,1959; Giuseppe Galasso, Lo sviluppo demografico del Mezzogiorno prima e dopo l’unità, in Id., Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, Einaudi, 1965; a quella del meridionalismo marxista Francesco Barbagallo, Lavoro ed esodo nel sud 1861-1971, Napoli, Guida Editore,1973; Francesco Paolo Cerase, Sotto il dominio dei borghesi. Sottosviluppo ed emigrazione nell’Italia meridionale 1860-1910, Assisi-Roma, Carucci, 1975. Si veda anche Eugenia Malfatti, L’emigrazione italiana e il Mezzogiorno, in Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, a cura di Gianfausto Rosoli, Roma, Cser, 1978; Sebastiano Monti, Emigrazione e nuova demografia, in Storia del Mezzogiorno. Dal fascismo alla Repubblica, a cura di Giuseppe Galasso e Rosario Romeo, vol. XIII, Napoli, Edizioni del Sole, 1991; Maria Chiara Turci, Sovrappopolazione ed emigrazione, in Storia del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno nell’Italia unita, vol. XII, Napoli, 1990.
4 Ornella Bianchi, Tendenze recenti nello studio dell’emigrazione meridionale, “Trimestre”, XXVII, 3-4, (1994), pp. 401-403.
5 Emilio Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni (1978-1988), “Altreitalie”, I,1, (1989), p. 7; Ercole Sori, Un bilancio sulla più recente storiografia italiana sull’emigrazione, in Studi sull’emigrazione, un’analisi comparata, Atti del Convegno storico internazionale sull’emigrazione, a cura di Maria Rosaria Ostuni, Milano, Electa, 1991, pp. 62-63.
6 Piero Bevilacqua, Corsi e ricorsi della storiografia sul Mezzogiorno, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di Paolo Macry e Angelo Massafra, Bologna, Il Mulino, 1994; Giuseppe Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Venezia, Marsilio,1992, in particolare la Introduzione, pp. IX-XXXI; Salvatore Lupo, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo, “Meridiana”, 32, (1998).
7 Jonathan Morris, Le sfide del meridionalismo: la costruzione di una nuova storia dell’Italia meridionale, in Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d’Italia, a cura di Robert Lumley e Jonathan Morris, Roma, Carocci, 1999, p. 27; Piero Bevilacqua, Corsi e ricorsi della storiografia, cit., pp. 146-148; Francesco Barbagallo, Il Mezzogiorno come problema attuale, “Studi storici”, 31, 3, (1990), 585-596.
8 Emilio Franzina, Il concetto storico di “regione migratoria”: il caso Veneto, in Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati: le coordinate territoriali della storia contemporanea, a cura di Franco Andreucci e Alessandra Pescarolo, Torino, La Casa Usher, 1989; Id., Emigrazione transoceanica, cit., p. 19; Ercole Sori, Un bilancio della più recente storiografia, cit., p. 69.
9 Lorenzo Palumbo, L’emigrazione pugliese in età moderna e contemporanea, in Alla scoperta delle identità regionali. La Puglia, a cura di Franco Guglielmelli, Torino, Event, 1987.
10 Rassegna storiografica sui fenomeni migratori a lungo raggio in Italia dal Basso Medioevo al secondo dopoguerra, a cura di Giovanni Pizzorusso e Matteo Sanfilippo, “Bollettino di demografia storica”, 13, (1990), pp. 70-79; Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 12; Id., Un bilancio della più recente storiografia, cit., pp. 71-72.
11 Ornella Bianchi, Emigrazione e migrazioni interne tra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Puglia, a cura di Luigi Masella e Biagio Salvemini, Torino, Einaudi, 1989, pp. 539-540; nello stesso volume einaudiano, sulla emigrazione dei contadini della Puglia “pietrosa” di Terra di Bari, adusi a spostarsi stagionalmente nel Tavoliere per la mietitura e la trebbiatura dei cereali, si veda Saverio Russo, Questioni di confine: la Capitanata tra Sette e Ottocento, pp. 271-272.
12 Agnese Sinisi, Migrazioni interne e società rurale nell’Italia meridionale (secoli XVI-XIX), “Bollettino di demografia storica”, 19 (1993); sulle migrazioni rurali, così definite non in quanto coinvolgono esclusivamente gli addetti all’agricoltura, ma in quanto si traducono in occupazioni rurali, all’interno del latifondo cerealicolo pastorale della pianura del Tavoliere, si veda Saverio Russo, Immigrazioni di contadini nella “Puglia piana” tra Sette e Ottocento, in Ricerche di Storia moderna IV, in onore di Mario Mirri, a cura di Giuliana Biagioli, Pisa, Pacini Editore, 1995; dei “violenti processi di socializzazione” indotti dalle migrazioni rurali temporanee in Capitanata scrive Aldo Cormio, Le campagne pugliesi nella fase di ‘transizione’ (1880-1914), in La modernizzazione difficile. Città e campagne nel Mezzogiorno dall’età giolittiana al fascismo, a cura di Angelo Massafra, Bari, Dedalo, 1983, pp. 150 e sgg.; per le migrazioni rurali all’interno della Terra d’Otranto alcuni riferimenti sono in Maria Antonietta Visceglia, L’azienda signorile in Terra d’Otranto nell’età moderna (secoli XVI-XVIII), in Problemi di storia delle campagne meridionali nell’età moderna e contemporanea, a cura di Angelo Massafra, Bari, Dedalo, 1981, pp. 62 e sgg.
13 Il contratto notarile di anteneria veniva stipulato di solito in autunno tra il massaro e l’anteniere, un lavoratore agricolo di fiducia della stessa comunità agricola che il più delle volte lo designava. In base al contratto l’anteniere si impegnava a reclutare un determinato numero di mietitori che avrebbe condotto alla masseria nella data che veniva stabilita nel contratto stesso e per questo riceveva un compenso per anteneria proporzionale al numero dei lavoratori che si impegnava a reclutare. Il contratto inoltre definiva il compenso e in denaro e in natura che sarebbe stato corrisposto ai lavoratori.
14 Biagio Salvemini, Prima della Puglia, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, cit., p. 48.
15 Ibid., p. 170.
16 Agnese Sinisi, Migrazioni interne, cit., p., 63; si veda anche Giulio Esposito, Uomini di frontiera. Immagini e documenti per una storia dell’emigrazione dei Comuni di Alberobello, Castellana Grotte, Locorotondo, Noci, Putignano e Turi, Sammichele di Bari, Suma Editore, 2006; Cento anni di emigrazione all’estero da una area del Sud Barese: Mola, Conversano, Rutigliano 1890-1990, a cura della Regione Puglia. Assessorato Pubblica Istruzione, Bari, Edizioni dal Sud, 1993.
17 Leandra D’Antone, Un problema nazionale: il Tavoliere, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, cit., pp. 453-454; Biagio Salvemini, Prima della Puglia, cit., pp. 176-177.
18 Sulle ragioni di una lettura della realtà meridionale più attenta alla formazione e al consolidamento dei sistemi urbani si veda Giuseppe Barone, Mezzogiorno ed egemonie urbane, “Meridiana”, 5 (1989); Biagio Salvemini, Note sul concetto di ottocento meridionale, “Società e Storia”, VII, 26 (1984), pp. 917-945.
19 Ornella Bianchi, Emigrazione e migrazioni interne, cit., in particolare pp. 532-533 e 537-539; Id., Un profilo delle migrazioni nell’area della Puglia tra XIX e XX secolo, in L’età giolittiana nel Mezzogiorno e in Puglia, Atti del 7° Convegno di Studi sul Risorgimento in Puglia, Bari, Levante Editore, 1990, pp. 179-201.
20 Russo intrecciando nella Bari ottocentesca immigrazione, emigrazione definitiva infraregionale ed emigrazione definitiva oltre frontiera solleva la necessità di superare luoghi comuni che continuano a dipingere a tinte fosche gli esodi rurali e ancor più gli afflussi in città. Gli immigrati, scrive, giungono sulla traccia di relazioni personali, culturali, professionali, non pochi appartengono alla borghesia dell’hinterland, comunque posseggono mestieri qualificati e generalmente un tasso di alfabetizzazione superiore a quello dei cittadini. Saverio Russo, La crescita demografica: tendenze generali, in Storia di Bari:l’Ottocento, a cura di Francesco Tateo, Bari, Laterza, 1994.
21 Biagio Salvemini, Comunità “separate” e trasformazioni strutturali. I pescatori pugliesi fra metà Settecento e gli anni Trenta del Novecento, “Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen âge, Temps modernes”, 97, 1 (1985), pp. 441-488.
22 Ornella Bianchi, Emigrazione e modernizzazione in un comune dell’Italia meridionale: Molfetta tra i secoli XIX e XX, in Studi sull’emigrazione, cit., pp. 243-262. Si veda anche Orazio Panunzio, Cento anni di emigrazione. I molfettesi all’estero nell’emigrazione pugliese degli ultimi cento anni, Molfetta, Mezzana, 1972. Più in generale sulla “modernizzazione” pugliese si veda La modernizzazione difficile, cit.; Luigi Masella, Tra corporativismi e modernizzazione. Le classi dirigenti pugliesi nella crisi dello Stato liberale, Lecce, Milella,1983; Biagio Salvemini, Note sul concetto, cit.
23 Giovanna Da Molin, Mobilità dei contadini pugliesi tra fine Seicento e primo Ottocento, in La popolazione italiana nel Settecento, a cura della Sides, Bologna, CLUEB, 1980, pp. 435-475.
24 Id., Lo sviluppo demografico di Foggia dal XVI al XIX secolo, in Storia di Foggia in Età moderna, a cura di Saverio Russo, Bari, Edipuglia, 1992, pp. 139-154.
25 Id., Demografia, famiglia e società in Capitanata in età moderna, in La Capitanata in età moderna, a cura di Saverio Russo, Foggia, Claudio Grenzi Editore, 2004, pp. 75-94; Id., La famiglia nel passato. Strutture familiari nel Regno di Napoli in età moderna, Bari, Cacucci, 1990; Id., Famiglia e matrimonio nell’Italia del Seicento, Bari, Cacucci, Bari, 2000, pp. 154-156 e 237-248.
26 Id., Demografia, famiglia e società, cit., p.76; Id., Famiglia e matrimonio, cit., pp.237-248.
27 Annastella Carrino, I flussi migratori: strategie individuali e di gruppo, in Storia di Bari, cit., pp. 45-92.
28 Cinque domande sulla storiografia dell’emigrazione a Emilio Franzina e Ercole Sori, “Storia e problemi contemporanei”, 34 (2003), pp. 15-31; Paola Corti, L’emigrazione italiana e la sua storiografia: quali prospettive, “Passato e Presente”, XIII, 64 (2005), pp. 89-96.
29 Ornella Bianchi, Tra partenze ed arrivi: le migrazioni in una prospettiva storica, in Terre di esodi e di approdi. Emigrazione ieri e oggi, a cura di Pasquale Guaragnella e Franca Pinto Minerva, Progedit, Bari, 2005, pp. 269-313; L’immigrazione albanese in Puglia. 1991-1997, a cura di Giovanna Da Molin, Bari, Cacucci, 1999; L’immigrazione in Puglia: dall’emergenza all’integrazione. Aspetti demografici, sociali e sanitari, Bari, Cacucci, 2003.
30 Federico Romero, Emigrazione e integrazione europea 1945-1973, Roma, Edizioni Lavoro, 1991; Id., L’emigrazione operaia in Europa (1948-1973), in Storia dell’emigrazione italiana, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina, I, Partenze, Roma, Donzelli, 2001, pp. 397-414; su questo nuovo filone di indagine si veda Antonio Varsori, Il movimento sindacale e gli sviluppi della storia delle relazioni internazionali, in La storia del movimento sindacale nella società italiana, Vent’anni di dibattiti e di storiografia, a cura di Andrea Ciampani e Giancarlo Pellegrini, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2005, pp. 82-84.
31 Grazia Prontera, Wolfsburg, “il più grosso paese italiano al di là delle Alpi”: contributo alla storia dei Gastarbeiter italiani della Volkswagen nel secondo dopoguerra, in Petites Italies dans l’Europe du Nord-ouest. Appartenance territoriale et identités collectives, a cura di Judith Rainhorn, Valenciennes, Presses Universitaires de Valenciennes, 2005, pp. 117-133; Id., «Italiani a Wolfsburg». Die Monatsschrift der italienischen Jugendlichen in Wolfsburg 1972-1975, Hamburg, LIT-Verlag, in corso di stampa.
32 Per le fonti archivistiche si tratta della documentazione conservata in Archivio di Stato di Lecce e di Napoli, Archivio Friedrich Ebert Stiftung di Bonn, in particolare il fondo IG-Metall, Archivio Centrale dello Stato tedesco a Koblenz (Bundesarchiv), Archivio di Stato e Archivio IG-Metall di Wolfsburg. Sulla esiguità della documentazione degli archivi provinciali e comunali salentini, che conservano tracce sbiadite e fragili di una vicenda che pure ha segnato pesantemente la storia dei novanta comuni che costituiscono la provincia di Lecce, Grazia Prontera, Wenn moderne Geschichtswissenschaft auf Unfahigkeit in der offentlichen Verwaltung trifft. Die Grenzen der Erstellung einer Emigrationsgeschichte auf Archivbasis im Falle Suditaliens, in Dem Raum eine Grenze geben. Ost-West Perspektiven, a cura di Verena Kruger e Anna Olshevska, Bochum, Band 6, 2006, pp. 85-102.
33 Anche su questo terreno di ricerca non vi sono che pochi studi di carattere statistico, Russel King, Alan Strachan e Luigi Di Comite, Migrazioni di ritorno nel Mezzogiorno d’Italia, in Il recente assetto dei fenomeni migratori, a cura di Luigi Di Comite e Onofrio Papa, Bari, Editrice Safra, 1984, pp. 27-42; di carattere linguistico-letterario, Lettere dalla Merica, a cura di Armistizio Matteo Melillo, Bari, Adriatica, 1991; e l’analisi antropologica sui processi di acculturazione nelle comunità di Roseto Valfortore in Pennsylvania e in Puglia, Emigrazione, a cura di Carla Bianco e Emanuela Angiuli, Bari, Dedalo, 1980.
34 Paola Manno, Salentini a Liegi (1946-1956). Un difficile processo di interazione e/o integrazione, di prossima pubblicazione in “Revue belge d’histoire contemporaine”.
35 Si tratta dell’Archivio dell’I.H.O.E.S (Institut d’Histoire Ouvrière, Economique et Sociale), in esso di particolare interesse la documentazione relativa al F.N.R.O.M. (Fond National de Retraite des Ouvriers Mineurs) che nel “modèle 34” conserva i registri delle 41 miniere componenti il bacino carbonifero di Liegi.
36 Gli studi della Prontera sull’emigrazione salentina si collocano in linea di continuità con una sua precedente ricerca, anch’essa fondata su fonti archivistiche e testimonianze orali, interessata a ricostruire le lotte contadine nel Salento, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, per l’assegnazione delle terre incolte. Grazia Prontera, Una memoria interrotta. Lotte contadine e nascita della democrazia. Il Salento 1944-1951, Lecce, Edizioni Aramirè, 2004.
37 Pasimeni, in una analisi documentata e di lungo periodo dell’economia salentina, sostiene essere l’emigrazione inscritta nello stesso progetto di riforma agraria, l’assegnazione di terre marginali avrebbe dovuto trattenere solo parte della manodopera bracciantile, gli esodi conseguenti avrebbero allentato la tensione sulle terre e consentito una più soddisfacente distribuzione delle risorse. Carmelo Pasimeni, L’economia salentina dal fascismo al secondo dopoguerra, in Id., Un vescovo meridionale tra primo e secondo novecento. Giuseppe Ruotolo a Ugento (1937-1968), Lecce, Congedo, 1993, pp. 116-121.
38 Luigi Masella, La difficile costruzione di una identità, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, cit., p. 415.