Franco Pittau si occupa di emigrazione sin dagli anni Settanta. È di formazione filosofo: la sua tesi di dottorato alla Pontificia Università Gregoriana, subito pubblicata, verte infatti su Il volere umano nel pensiero di Vladimir Jankélévitch. Ha, però, rivestito una molteplicità di incarichi che lo hanno portato a interessarsi soprattutto della dimensione statistica. Dal 1973 al 1976 ha lavorato a Düsseldorf presso il Centro Assistenza Lavoratori Italiani del sindacato tedesco DGB e del patronato INAS-CISL. Dal 1977 al 1983 è stato responsabile nazionale dell’Ufficio Emigrazione del Patronato ACLI. Quindi è divenuto responsabile nazionale dell’Ufficio Studi e poi del Servizio medico-legale del Patronato INAS-CISL (1984-1993). In seguito è stato responsabile dell’Ufficio sensibilizzazione della ONG ISCOS-CISL (1994-1995) e responsabile dell’Ufficio Studi e Documentazione della Caritas diocesana di Roma (1996-2000). Intanto ha lanciato nel 1990 il Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, che ha seguito prima per la Caritas diocesana di Roma (1990-2003) e dal 2004 anche per la Caritas Italiana e la Fondazione Migrantes.
La produzione di studioso di Pittau è quantitativamente e qualitativamente pari al suo curriculum lavorativo. I primi saggi, in particolare ai contributi a “Studi Emigrazione” e al “Dossier Europa Emigrazione” degli anni Settanta, sono serviti da base per importanti volumi nel decennio successivo, per esempio Emigrazione italiana in Svizzera. Problemi del lavoro e della sicurezza sociale (Milano, Franco Angeli Editore, 1984) e L’altra Italia. Il pianeta emigrazione (assieme a Giuseppe Ulivi, Padova, Edizioni il Messaggero, 1986). Nel frattempo ha sviluppato notevoli analisi della normativa socio-previdenziale italiana ed europea, collaborando a numerose ricerche specializzate oppure dirigendole. Lentamente l’interesse per l’emigrazione italiana è accompagnato e poi sostituito da quello per l’immigrazione in Italia. Nel 1990 pubblica assieme a Luigi Di Liegro Il pianeta immigrazione: dal conflitto alla solidarietà (Roma, Edizioni Dehoniane, 1990), inizio di una proficua collaborazione anche intellettuale, cui dall’anno seguente si aggiunge l’annuale Dossier Statistico Immigrazione. Questo acquista con il tempo una mole sempre maggiore e abbina analisi storica e ricostruzione statistica. Così dalle 118 pagine del primo dossier si arriva alle 510 del sedicesimo.
Pittau non dimentica, però, il problema migratorio italiano e inizia a chiedersi in alcuni articoli perché si tenda a rimuovere quel passato. Sfrutta infine la struttura e le metodologie di ricerca messe a punto per il dossier Statistico Immigrazione e assieme a una nutrita equipe elabora un utilissimo Rapporto italiani nel mondo 2006 (Roma, Fondazione Migrantes – Centro Studi e Ricerche IDOS). Le 350 pagine di questo volume fanno il punto sui flussi e le presenze degli italiani del mondo, nonché sugli aspetti socio-culturali e religiosi e su quelli economico-politici di tale presenza, e inoltre offre una serie di approfondimenti storici, statistici e legislativi sull’entità e la genesi del fenomeno.
La lettura dei due volumi sugli immigrati nella Penisola e sugli italiani nel mondo mostra come nel 2006 la presenza degli uni e degli altri numericamente si equivalga. Come mai in Italia si finisce per dimenticare il peso ancora notevole della nostra emigrazione e a considerarla un fenomeno del lontano passato?
Non ho fatto studi specifici al riguardo, né ho avuto modo di condurre indagini sul campo. E però su questo aspetto ritorna spesso. Si tratta di una sorta di complesso che possiamo chiamare “oblio della storia”. L’Italia dovrebbe andare orgogliosa del fatto che ha visto emigrare milioni di analfabeti (o quasi) e nel giro di poche generazioni, per la loro tenace volontà di riuscire, ha constatato la loro affermazione. Questo non esclude che vi siano stati pure pesanti effetti negativi. Ad esempio, se partivano anche i mafiosi e i camorristi, non è che essi potessero essere contrassegnati da atteggiamenti di giustizia e di solidarietà.
Perché i nostri emigrati erano spesso della classe più infima e perché non mancavano i soggetti devianti, ci siamo attirati disprezzo, sguardi di arroganza e di superiorità, come Gian Antonio Stella ha descritto nel volume L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi. Sarebbe però sbagliato generalizzare (e forse è proprio la generalizzazione che ha favorito l’oblio), perché sono state le persone, semplici e senza studi ma di grande moralità e di altrettanta tenacia, che si sono meritate l’apprezzamento della popolazione ospite, hanno messo da parte i risparmi per una vita dignitosa e hanno anche acculato grandi fortune. E qui si intreccia un altro complesso: che l’emigrazione buona sia solo quella di quanti sono diventati ricchi, il che – andando al di là del linguaggio formale – è una colossale sciocchezza. L’emigrazione è una sorta di contenitore che ha accolto anche innumerevoli storie di povertà e di fallimento e così avviene ancora, come abbiamo cercato di mostrare in un apposito capitolo del “Rapporto”. Eppure anche in questi casi il fenomeno resta positivo, perché queste persone hanno avuto il coraggio, in un’Italia che non riusciva a sfamarli, di andare in altri paesi e di darsi da fare.
Un altro complesso consiste nel collocare i cittadini italiani all’estero nel passato. Certamente non vivono più quelli che emigrarono all’inizio del secolo scorso, mentre lo sono quelli andati via nel secondo dopoguerra, i loro figli nati all’estero, i familiari che si sono ricongiunti, che vivono tutti nella nostra era storica, anche se purtroppo segnati col timbro del passato.
Si riscontra, così, un non so che di innaturale nel rapporto tra Italia rimasta in patria e Italia stabilitasi al di fuori. Cosa dovrebbero fare le Regioni per vincere lo “stato inerziale” degli italiani non emigrati? Anche questo è un argomento interessante perché consentirebbe di valutare i piani di interventi, e le somme dedicate al riguardo, alla luce dei risultati conseguiti. Una corretta sensibilizzazione non è un risultato magico, bensì il frutto di una sapiente allocazione delle risorse e di un ripensamento continuo sulla programmazione alla luce dei risultati. Sappiamo tutti che le cose non avvengono sempre così.
Anche i rappresentanti degli immigrati devono porsi questi interrogativi, pronti a cambiare atteggiamenti, modo di parlare, campagne di sensibilizzazione e a sfruttare nuove strategie di approccio. I difetti non stanno mai da una sola parte.
In questa fase un grande aiuto ci può venire dal mondo globalizzato di oggi, in cui noi viviamo culturalmente ed economicamente vicini, anche se geograficamente lontani. Se solo vi si pensasse, si vincerebbero di colpo i complessi immotivati ai quali ho fatto cenno (e altri ancora): solo così la presenza italiana all’estero verrebbe ritenuta una benedizione e si instaurerebbe una fruttuosa simbiosi tra questa e l’altra Italia. Chissà se così avverrà: non sembra questo il tema che appassiona i politici e i grandi (!) fautori della cultura. Essendo stato abituato a operare in rete con grandi realtà pastorali come la Migrantes e la Caritas e a condurre la mia vita di operatore e di studioso a contatto con la gente, alla base, non posso che rammaricarmi per una concezione della vita staccata dall’esistenza di coloro sui quali si teorizza e, proprio perché ciò è innaturale, voglio sperare che si pervenga ad un rinsavimento.
L’immigrazione in entrata per molti aspetti è speculare a quella che abbiamo conosciuto in uscita, anche se è diffusa la convinzione che “quando si emigrava noi, allora era un’altra cosa”. L’attuale immigrazione dall’estero potrebbe aiutarci a capire, e ciò è avvenuto ma solo in parte: metà popolazione si ostina a non capire che, per una sorta di rovesciamento, la storia ci invita a inquadrare meglio, attraverso gli immigrati, il periodo in cui gli stranieri eravamo noi.
Personalmente auspicherei che l’emigrazione italiana venisse maggiormente affrontata nella scuola italiana, che rimane una poderosa agenzia di sensibilizzazione nonostante le “riforme” non sempre andate a buon segno e la mancanza di risorse: per aprire gli studenti all’immigrazione e alla diversità la scuola italiana ha fatto tanto, e altrettanto potrebbe fare per recuperare i ritardi nei confronti dell’emigrazione. È troppo sperare che le Regioni e il Governo destinino qualche risorsa in più a questo riguardo?
Le vostre rilevazioni mostrano che negli anni Sessanta gli emigrati inviavano in Italia ben 8 miliardi di dollari e che nei trent’anni successivi mandavano 28,5 miliardi di dollari. Dunque la mole delle rimesse ha continuato a crescere, ma non se ne è più parlato. Queste cifre sono così prive di interesse economico per la Penisola? Non meriterebbero di essere analizzate?
Le rimesse degli italiani residenti all’estero incidono attualmente in misura veramente limitata sul bilancio dello Stato ed è normale che sia così, perché, a parte i migranti temporanei, gli altri, vivendo da più generazioni all’estero, giustamente devono investire in loco. Per rendersi conto che l’Italia è un paese ricco, basti pensare che fino a qualche anno fa superava il prodotto interno lordo della Cina e ancora oggi supera quello dell’intera Africa. Non c’è paragone con il passato, quando i risparmi degli emigrati erano una risorsa fondamentale non solo per le famiglie (per saldare i debiti, aggiustare la casa, far studiare i figli), ma anche per lo Stato che di queste risorse aveva bisogno per i suoi investimenti.
Si sbaglierebbe, però, a ritenere che la presenza italiana all’estero non abbia più una valenza economica per la madrepatria; in realtà la ha e anche in misura più consistente rispetto a quanto potrebbero fare le rimesse.
Più di tre milioni di cittadini italiani nel mondo non sono un numero di poco conto. Se poi pensiamo agli oriundi, la presenza italiana all’estero arriva a superare abbondantemente i 60 milioni: 31 milioni in Brasile, 15 e mezzo negli Stati Uniti, 15 in Argentina. Bisognerebbe parlare ancora del Canada, dell’Europa, dell’Australia per ricomporre nella sua completezza la diffusione dei discendenti degli italiani. Il rapporto da intrattenere non riguarda solo gli italiani e i loro discendenti ma una cerchia più ampia di persone interessate al nostro paese, alla sua lingua, ai suoi prodotti, i cosiddetti italici.
Come è stato messo in evidenza alla presentazione del Rapporto italiani nel Mondo, dell’impatto economico dell’emigrazione si intuiscono le potenzialità, nonostante la diversità delle fonti consultate. Ad esempio, si parla solitamente di 60.000 ristoranti italiani nel mondo e poi si scopre che questi sarebbero 38.000 in Germania (in prevalenza nel settore gastronomico) e 25.000 negli Stati Uniti. Anche nella lontana Corea del Sud si contano 600 ristoranti italiani. In Germania solo le gelaterie, riunite nell’Uniteis, organizzazione affiliata alla Confartigianato tedesca, sono circa 2.500, in prevalenza gestite da italiani originari del Nord Est. Le gelaterie sono una buona vetrina del made in Italy e portano un indotto di circa 250 milioni di euro per approvvigionamento delle materie e 100 milioni di euro per investimenti in arredi e manutenzione.
Sono studi suggestivi, ancora ai primi passi, da portare avanti spinti dalla convinzione che questa conoscenza avrà un effetto tonificante in questa difficile fase del nostro paese, che in continuazione ha visto diminuire il grado di competitività, a parte qualche recupero (speriamo non effimero) in questi ultimissimi tempi.
La realtà italiana all’estero è una rete poderosa da valorizzare anche per il nostro benessere: milioni di italiani, di oriundi e di “italici”; migliaia di associazioni costituite dagli stessi italiani; centinaia di organi di stampa e di testate televisive e radiofoniche; numerosi letterati di formazione italiana; centinaia di politici di origine italiana; centinaia di migliaia di persone che studiano la nostra lingua; migliaia e migliaia di aziende che commerciano con l’estero e un buon numero di esse costituite dagli stessi italiani all’estero.
Esiste già un’estesa rete operativa, che attende solo di essere potenziata e meglio raccordata, ed è costituita dalle 72 Camere di Commercio Italiane nel mondo, dai 104 uffici dell’Istituto nazionale per il Commercio Estero (ICE) e dai 155 uffici commerciali presso le 238 sedi diplomatico-consolari del Ministero degli Affari Esteri. Si può dire che tutto questo non rappresenti niente dal punto di vista economico? Per affermarsi nel mondo c’è bisogno di una rete molto ampia: noi abbiamo la rete ma non abbiamo ancora maturato il modo più adatto per valorizzarla.
Quale è la dimensione attuale dei flussi italiani verso l’estero e quali sono le loro caratteristiche? Analogamente cosa si può dire sui flussi interni? Esiste ancora un costante travaso di forze lavorative dal meridione al settentrione della Penisola?
A tenere conto delle statistiche ufficiali si direbbe che l’Italia, in un mondo in cui le distanze sono diventate minori, ha perso la propensione alla mobilità: sono meno di 50.000 unità l’anno quelli che lasciano il paese e al di sotto di tale soglia si collocano anche quelli che rimpatriano. Se si pensa che nella fase più intesa dell’ultimo dopoguerra si emigrava al ritmo di 300 mila l’anno, si conclude che il tasso di mobilità è veramente ridotto. Alla stessa conclusione si perviene, quando si tiene conto che il ritmo di crescita della popolazione immigrata in Italia è superiore alle 300.000 unità l’anno. Il cambiamento intervenuto, seppure con una certa gradualità, è notevole e, sotto un certo aspetto, bisogna dire che sorprende per il suo valore eccessivamente contenuto.
Quanto è avvenuto porta a ricordare che siamo il paese a più bassa crescita demografica nel mondo. Secondo una stima dell’Istat i giovani lavoratori tra i 19 e i 40, tra il 2005 e il 2020 diminuiranno di 4,5 milioni di unità e, quindi, in media al ritmo di 300.000 unità l’anno. Si sa che i giovani sono le persone più ricercate dal mercato occupazionale e anche quelli più disponibili a spostarsi: le statistiche ci dicono che non si è più di fronte ad una grande eccedenza e, anzi, inizia a presentarsi il bisogno di rimpiazzare con gli immigrati quelli che vengono a mancare.
Certamente la situazione è differenziata e nel Mezzogiorno sono molti quelli che non hanno un vero e proprio lavoro. Allora, viene da chiedersi, perché non emigrano o, o quanto meno, si recano nel Nord.
Innanzi tutto, bisogna dire che sono molti, anche se difficilmente quantificabili con esattezza, quelli che si spostano e non vengono registrati perché non si cancellano dalle anagrafi comunali. Fanno così perché all’inizio non sanno se si tratterà di una vera e propria emigrazione, mentre successivamente, protraendosi la permanenza all’estero, si provvede anche alla cancellazione anagrafica. Questo spostamento, iniziato sotto l’etichetta della provvisorietà (e che per un certo numero sarà effettivamente provvisorio), riguarda tanto quelli che vanno all’estero che quelli trasferitisi nel Settentrione.
Riconosciuto lo scostamento tra la realtà e la registrazione statistica, si può aggiungere che poi non sono tantissimi quelli che si spostano nel Nord Italia, dove senz’altro è più agevole trovare un’occupazione: è importante rendersene conto alla luce dei meccanismi che regolano la compensazione tra aree con fabbisogno di manodopera e aree con esuberanza di manodopera. Intanto il disoccupato meridionale, anche se di quando in quando, trova qualche lavoretto e, inoltre, abita nella casa dei genitori senza pagare l’affitto e da essi riceve anche qualche sussidio economico. Paradossalmente, lo spostamento al Nord in molti casi non consentirebbe un miglioramento della situazione economica dell’interessato e del suo standard di vita e, per giunta, lo costringerebbe ad un grande dispendio di energie. Una macigno, che ostacola lo spostamento, è il drammatico problema degli affitti, che ridimensiona sostanzialmente il vantaggio di una retribuzione che a prima vista potrebbe sembrare conveniente e che così sarebbe effettivamente se percepita nel paese di origine nel Sud.
Qualcosa di simile può avvenire per quanto riguarda l’emigrazione nei paesi esteri, possibilità che viene soppesata con maggiore circospezione. In Europa si prevedono aiuti per favorire la circolazione degli studenti, interessati a trascorrere un semestre in un altro Stato membro (programma Erasmus), ma non vi è nessun programma nel quale si possa inserire un lavoratore intenzionato a spostarsi: a farlo sono solo i neocomunitari, provenienti da paesi ad alto esubero occupazionale, e gli immigrati extracomunitari. Queste persone sono estremamente decise a ricercare una migliore sorte all’estero, hanno quella volontà di riuscire che ci contraddistingueva quando noi si era un popolo di emigranti. Ora non è più così: un diffuso stato di benessere ha attenuato la capacità volitiva di noi italiani e ciò, insieme ad altre cause, influisce sugli spostamenti.
Diverso è il discorso per i migranti qualificati. Sono essi a diventare sempre più i protagonisti dei flussi attuali: si pensi ai ricercatori e ai tecnici al seguito delle aziende, i primi fortemente motivati dalla disperazione di una società che li fa preparare per poi non offrire niente e i secondi incentivati da retribuzioni consistenti e certe. Quindi, è cambiata radicalmente la situazione rispetto agli anni ’70 e ’80.
Pensate di continuare a elaborare rapporti sugli italiani nel mondo, oppure questo vostro volume è un’eccezione nel vostro lavoro sulle statistiche dell’immigrazione?
Il “Rapporto”, iniziato dalla Migrantes con il sostegno di altre organizzazioni in qualche modo legate all’area ecclesiale (Acli, Inas Cisl, Mcl e Missionari Scalabriniani) e anche di altre, ha interrotto una carenza di 20 anni e può avere senso solo se destinato a continuare. All’inizio ho potuto io stesso sentire qualcuno pensare a una certa egemonia della comunità ecclesiale e invece, fortunatamente, è andata prevalendo la convinzione che si tratta di un servizio reso alla società. Poiché, seppure con tanti sforzi, si è cominciato, si deve assolutamente continuare, perfezionando il sussidio che non può ritenersi del tutto esauriente già alla prima edizione. In effetti sono già iniziati i lavori preparatori per la seconda edizione, che coinvolgerà un numero ancora maggiore di autori, residenti in Italia e all’estero.
Per tutti noi curatori questo lavoro è stato uno stimolo prezioso per pensare vicini gli italiani sparsi nel mondo e per raccoglierne le suggestioni. Noi senz’altro possiamo migliorare nella raccolta dei materiali, nella loro sistematizzazione e nella loro presentazione. Anche il mondo dell’emigrazione ci può aiutare a raccontarlo meglio. Questo è l’inizio del cammino: le cose da raccontare sono tante e, almeno in teoria, la continuazione del “Rapporto” è assicurata. Poi vi sono questioni finanziarie da risolvere, rapporti da intessere, sintesi dialettiche da mediare, visioni scontate da superare, prospettive future sulle quali insistere: è lo scotto da pagare in questo tentativo innovativo, che dobbiamo portare avanti tutti insieme, noi redattori in Italia e gli italiani all’estero, per riavvicinare l’Italia ai suoi emigrati.
Il compito che ci attende non è solo quello di redigere una nuova edizione del “Rapporto”, ma di trasformarlo in maniera più diffusa in uno strumento di sensibilizzazione. L’emigrazione, anziché essere conosciuta solo dagli addetti ai lavori, deve diventare patrimonio condiviso della gente comune: del normale cittadino abituato ad avere una buona infarinatura dei problemi; dell’amministratore tenuto a pronunciarsi su importanti decisioni; dei docenti chiamati a spiegare agli studenti le diverse fasi della nostra recente storia; dell’imprenditore, che in questa fase di globalizzazione, intraprende sempre più la via dell’estero; dello stesso politico sollecitato a prendere decisioni di fondamentale importanza per la vita degli emigrati. È troppo importante questo compito per essere abbandonato a metà strada e perciò la Fondazione Migrantes intende andare avanti.