L’immigrazione italiana in Francia continua a stimolare ricerche e pubblicazioni, nonché a trovare spazio in sintesi più generali. Per esempio, Alexis Spire ne tratta nel suo studio sulle pratiche amministrative post-1945. A suo parere queste sono spesso state, volontariamente e coscientemente, più importanti delle leggi votate in parlamento per quanto riguarda la gestione degli stranieri 1. Spire evidenzia, a fianco della mentalità burocratica o delle eredità coloniali, la perennità dei criteri etnicisti o razzisti dispiegati attorno al concetto di assimilabilità, che serve a rivestire il rifiuto di qualsiasi novità. Tale attitudine è condivisa dal padronato e avvantaggia negli anni 1950-1960 gli italiani, quanto meno se venivano dal Nord della Penisola. Spire mostra anche l’iniziale ostilità delle camere di commercio e le inquietudini nelle zone frontaliere, soprattutto a Nizza, poi gli effetti della guerra fredda sui criteri di “lealtà”, infine le regolarizzazioni automatiche di “clandestini” in mancanza di un reclutamento legale e per bloccare l’arrivo di magrebini. Segnala pure che, quando lo stato italiano vorrebbe inviare celibi i quali ritiene possano tornare un giorno nella madrepatria, l’amministrazione francese preferisce invece attirare coppie con bambini e accorda, comunque, ai soli italiani il diritto di incassare i conguagli salariali per i lavoratori con figli, persino se questi ultimi restano in Italia. Infine evoca per il periodo più recente il passaggio da un’emigrazione quasi permanente a una forte rotazione legata alla radicale mutazione sociologica degli italiani che vanno in Francia. Tutti questi elementi favoriscono un approccio comparativo e sono altrettanti contributi a uno studio degli italiani in Francia dopo il 1945, che resta, però, ancora da scrivere.
Ronald Hubscher analizza una prospettiva temporale più lunga nel quadro della storia delle campagne, un soggetto così importante una volta e ora marginale. Inoltre opera sull’ambito di tutta la Francia, anche se insiste particolarmente sul Delfinato, il Sud-Ovest e il cuore del Bacino Parigino. Contro il primato accordato alle sedimentazioni e alle assimilazioni, ma anche contro l’elusione delle differenze sociali, presenta un’immigrazione tenuta a freno e fluttuante, nella quale gli italiani sono a metà tra svizzeri e belgi, da un lato, e spagnoli e polacchi, dall’altro. Presenta le ondate e le disuguaglianze, i discorsi e le rappresentazioni, la gestione ad un tempo statale e locale, le spinte contrapposte dell’accettazione e della xenofobia, le tensioni causate dall’acquisto di terra e dalla concorrenza sul mercato della manodopera, il posto delle donne (di norma raramente prese in conto), l’evoluzione tra le generazioni, i meccanismi delle naturalizzazioni e dei ritorni. Infine insiste sulle suddivisioni fra i contadini, dall’elite proprietaria ai più poveri, per arrivare al ruolo attuale degli stagionali, cosa che non concerne più gli italiani, anche se nell’insieme questo panorama allo stesso tempo completo e appassionante fa loro largamente posto, riutilizzando lavori già esistenti, ri-esaminando documenti sinora più citati che letti, infine appoggiandosi su archivi mai sfruttati prima 2.
In un certo modo la raccolta di saggi di autori italiani e francesi dedicata ai carbonai e ai boscaioli bergamaschi, pur estendendo l’inchiesta alla Svizzera, presenta un caso particolare di storia del mondo rurale evocato da Hubscher 3. I testi, a prima vista mal coordinati, si riorganizzano una volta terminata la lettura e, grazie ad essi e ai documenti allegati, si guadagna una visione chiara del mondo alpino prima del miracolo economico tra la fine della seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera del 1973. Condizioni di partenza, bollettini parrocchiali che mantenevano il legame con i villaggi d’origine tra controllo sociale e insistenza sulla necessità di tornare, inquietudini ecclesiastiche all’idea che le ragazze potevano sposarsi in un paese protestante, resoconti di itinerari diversi, reazioni xenofobe, rappresentazioni letterarie degli “uomini dei boschi”, vita quotidiana nell’isolamento delle foreste, pratiche professionali ed evoluzioni delle tecniche (per esempio, con il trasporto del legno mediante sistemi di cavi ereditati dalla guerra del 1915-1918 e diffusisi lentamente, talvolta addirittura dopo il 1945). Tutto questo disegna un’emigrazione peculiare, contraddistinta dalla tensione tra una puntigliosa competenza, una autorappresentazione valorizzante e, all’opposto, lo sguardo sprezzante degli autoctoni sedentari verso stranieri emarginati, destinati a luoghi distanti dall’abitato e all’isolamento del seminomadismo.
L’opera collettiva diretta da Judith Rainhorn tratta dell’Europa del Nord-Ovest, cioè la Lorena, il Nord, la regione parigina per quanto riguarda la Francia, ma anche Londra e Bedford, il Limbourg e Seraing in Belgio, Wolfsburg e la fabbrica della Volkswagen 4. D’altronde s’iscrive in un progetto di studio comparativo delle Little Italies, dunque dell’appropriazione dei territori, dell’inquadramento esterno e interno degli emigranti, della costituzione delle identità e delle appartenenze, della memoria di strutture ormai passate. Dalla fine dell’Ottocento agli anni 1960-1970, dalla periferia di Parigi a una strada londinese, dalla marcatura territoriale tramite il piccolo commercio all’arrangiarsi dei Gastarbeiter, dai tarantini di Dunkerque agli abruzzesi di Roubaix, dalle strategie patronali alla militanza sindacale e alla promozione organizzata della memoria collettiva, i contributi raccolti adottano molto spesso la prospettiva poco usuale del locale e delle pratiche concrete e indicano le piste per fruttuose future comparazioni tanto nazionali che internazionali.
Nelle pagine di Hubert Heyriès l’angolo prospettico è altrettanto ristretto per facilitare lo studio approfondito di un gruppo particolare seguito lungo la prima parte del Novecento i volontari garibaldini venuti a combattere in Francia prima dell’intervento italiano del 1915 5. Essi sono studiati per il loro ruolo nei combattimenti del 1914, per l’utilizzo del loro eroismo da parte della propaganda favorevole all’alleanza tra Roma e Parigi, per la rivendicazione della loro memoria tanto da parte dei fascisti quanto da quella del fuoriuscitismo antifascista, per il loro ritorno nel 1940 reso effimero non soltanto dalle divisioni ideologiche, ma soprattutto dalla prudenza francese e britannica. L’impatto di questo gruppo s’indebolisce definitivamente alla Liberazione e tale perdita di prestigio è esacerbata dalla meschinità italofoba del gollismo (e degli ex-petainisti allineatisi dietro il generale), malgrado il garibaldinismo sul suolo francese sia poi ricordato dalle commemorazioni degli anni 1960-1970 sullo sfondo della costruzione europea. In questo importante volume si mescolano lo studio della storia militare, politica e della mentalità il militare, il politico e le mentalità. Siamo dunque in presenza di un grosso lavoro su un soggetto in apparenza limitato, ma in realtà, oltre all’interesse per l’avventura umana ricostruita, adatto a rischiarare ben altre tematiche.
Per terminare questo troppo rapido sopralluogo non ci resta che ricordare il libro di Olivier Forlin sugli intellettuali francesi e l’Italia nel decennio dopo la Liberazione 6. Esso potrebbe sembrare lontano dal nostro tema, ma evidenzia tra le altre cose il ruolo di mediatori culturali di alcuni italiani di Francia come Maria Brandon-Albini o di francesi legati all’immigrazione come Gilles Martinet, il da poco scomparso genero di Bruno Buozzi. Inoltre mostra l’importanza dei contatti prima della guerra con il fuoriuscitismo in una Francia, che oscilla tra la simpatia e il disprezzo pieno di spirito di rivincita, nato dal bisogna di rivalorizzarsi dopo Vichy e diffuso a destra, ma anche tra molti nazional-comunisti alla Thorez. Non è questo il solo merito di questo lavoro, ma spiega perché sia qui citato. D’altronde la storia dell’immigrazione può guadagnare molto dall’incontro e dal confronto con altri specialismi e campi di ricerca, che essa stessa può inoltre contribuire a irrigare. In ogni caso la storia dell’immigrazione resta ben viva sul versante francese e le pubblicazioni qui troppo rapidamente presentate ne sono, si spera, una prova.
Ronald Hubscher analizza una prospettiva temporale più lunga nel quadro della storia delle campagne, un soggetto così importante una volta e ora marginale. Inoltre opera sull’ambito di tutta la Francia, anche se insiste particolarmente sul Delfinato, il Sud-Ovest e il cuore del Bacino Parigino. Contro il primato accordato alle sedimentazioni e alle assimilazioni, ma anche contro l’elusione delle differenze sociali, presenta un’immigrazione tenuta a freno e fluttuante, nella quale gli italiani sono a metà tra svizzeri e belgi, da un lato, e spagnoli e polacchi, dall’altro. Presenta le ondate e le disuguaglianze, i discorsi e le rappresentazioni, la gestione ad un tempo statale e locale, le spinte contrapposte dell’accettazione e della xenofobia, le tensioni causate dall’acquisto di terra e dalla concorrenza sul mercato della manodopera, il posto delle donne (di norma raramente prese in conto), l’evoluzione tra le generazioni, i meccanismi delle naturalizzazioni e dei ritorni. Infine insiste sulle suddivisioni fra i contadini, dall’elite proprietaria ai più poveri, per arrivare al ruolo attuale degli stagionali, cosa che non concerne più gli italiani, anche se nell’insieme questo panorama allo stesso tempo completo e appassionante fa loro largamente posto, riutilizzando lavori già esistenti, ri-esaminando documenti sinora più citati che letti, infine appoggiandosi su archivi mai sfruttati prima 2.
In un certo modo la raccolta di saggi di autori italiani e francesi dedicata ai carbonai e ai boscaioli bergamaschi, pur estendendo l’inchiesta alla Svizzera, presenta un caso particolare di storia del mondo rurale evocato da Hubscher 3. I testi, a prima vista mal coordinati, si riorganizzano una volta terminata la lettura e, grazie ad essi e ai documenti allegati, si guadagna una visione chiara del mondo alpino prima del miracolo economico tra la fine della seconda guerra mondiale e la crisi petrolifera del 1973. Condizioni di partenza, bollettini parrocchiali che mantenevano il legame con i villaggi d’origine tra controllo sociale e insistenza sulla necessità di tornare, inquietudini ecclesiastiche all’idea che le ragazze potevano sposarsi in un paese protestante, resoconti di itinerari diversi, reazioni xenofobe, rappresentazioni letterarie degli “uomini dei boschi”, vita quotidiana nell’isolamento delle foreste, pratiche professionali ed evoluzioni delle tecniche (per esempio, con il trasporto del legno mediante sistemi di cavi ereditati dalla guerra del 1915-1918 e diffusisi lentamente, talvolta addirittura dopo il 1945). Tutto questo disegna un’emigrazione peculiare, contraddistinta dalla tensione tra una puntigliosa competenza, una autorappresentazione valorizzante e, all’opposto, lo sguardo sprezzante degli autoctoni sedentari verso stranieri emarginati, destinati a luoghi distanti dall’abitato e all’isolamento del seminomadismo.
L’opera collettiva diretta da Judith Rainhorn tratta dell’Europa del Nord-Ovest, cioè la Lorena, il Nord, la regione parigina per quanto riguarda la Francia, ma anche Londra e Bedford, il Limbourg e Seraing in Belgio, Wolfsburg e la fabbrica della Volkswagen 4. D’altronde s’iscrive in un progetto di studio comparativo delle Little Italies, dunque dell’appropriazione dei territori, dell’inquadramento esterno e interno degli emigranti, della costituzione delle identità e delle appartenenze, della memoria di strutture ormai passate. Dalla fine dell’Ottocento agli anni 1960-1970, dalla periferia di Parigi a una strada londinese, dalla marcatura territoriale tramite il piccolo commercio all’arrangiarsi dei Gastarbeiter, dai tarantini di Dunkerque agli abruzzesi di Roubaix, dalle strategie patronali alla militanza sindacale e alla promozione organizzata della memoria collettiva, i contributi raccolti adottano molto spesso la prospettiva poco usuale del locale e delle pratiche concrete e indicano le piste per fruttuose future comparazioni tanto nazionali che internazionali.
Nelle pagine di Hubert Heyriès l’angolo prospettico è altrettanto ristretto per facilitare lo studio approfondito di un gruppo particolare seguito lungo la prima parte del Novecento i volontari garibaldini venuti a combattere in Francia prima dell’intervento italiano del 1915 5. Essi sono studiati per il loro ruolo nei combattimenti del 1914, per l’utilizzo del loro eroismo da parte della propaganda favorevole all’alleanza tra Roma e Parigi, per la rivendicazione della loro memoria tanto da parte dei fascisti quanto da quella del fuoriuscitismo antifascista, per il loro ritorno nel 1940 reso effimero non soltanto dalle divisioni ideologiche, ma soprattutto dalla prudenza francese e britannica. L’impatto di questo gruppo s’indebolisce definitivamente alla Liberazione e tale perdita di prestigio è esacerbata dalla meschinità italofoba del gollismo (e degli ex-petainisti allineatisi dietro il generale), malgrado il garibaldinismo sul suolo francese sia poi ricordato dalle commemorazioni degli anni 1960-1970 sullo sfondo della costruzione europea. In questo importante volume si mescolano lo studio della storia militare, politica e della mentalità il militare, il politico e le mentalità. Siamo dunque in presenza di un grosso lavoro su un soggetto in apparenza limitato, ma in realtà, oltre all’interesse per l’avventura umana ricostruita, adatto a rischiarare ben altre tematiche.
Per terminare questo troppo rapido sopralluogo non ci resta che ricordare il libro di Olivier Forlin sugli intellettuali francesi e l’Italia nel decennio dopo la Liberazione 6. Esso potrebbe sembrare lontano dal nostro tema, ma evidenzia tra le altre cose il ruolo di mediatori culturali di alcuni italiani di Francia come Maria Brandon-Albini o di francesi legati all’immigrazione come Gilles Martinet, il da poco scomparso genero di Bruno Buozzi. Inoltre mostra l’importanza dei contatti prima della guerra con il fuoriuscitismo in una Francia, che oscilla tra la simpatia e il disprezzo pieno di spirito di rivincita, nato dal bisogna di rivalorizzarsi dopo Vichy e diffuso a destra, ma anche tra molti nazional-comunisti alla Thorez. Non è questo il solo merito di questo lavoro, ma spiega perché sia qui citato. D’altronde la storia dell’immigrazione può guadagnare molto dall’incontro e dal confronto con altri specialismi e campi di ricerca, che essa stessa può inoltre contribuire a irrigare. In ogni caso la storia dell’immigrazione resta ben viva sul versante francese e le pubblicazioni qui troppo rapidamente presentate ne sono, si spera, una prova.
Note
1 Alexis Spire, Étrangers à la carte. L’administration de l’immigration en France (1945-1975), Paris, Grasset, 2005.
2 Ronald Hubscher, L’immigration dans les campagnes françaises (XIXe-XXe siècle), Paris, Odile Jacob, 2005.
3 AA.VV., Carbonai e boscaioli. L’emigrazione bergamasca sulle Alpi occidentali dal diciannovesimo a ventesimo secolo, Bergamo, Centro Studi Valle Imagna, 2005.
4 Petites Italies dans l’Europe du Nord-ouest, Appartenances territoriales et identités collectives à l’ère de la migration italienne de masse (milieu du XIXe siècle – fin du XXe siècle), a cura di Judith Rainhorn, Valenciennes, PUV, 2005.
5 Hubert Heyriès, Les Garibaldiens de 14. Splendeurs et misères des Chemises rouges en France de la Grande Guerre à la Seconde Guerre mondiale, Nice, Serre, 2005.
6 Olivier Forlin, Les intellectuels français et l’Italie 1945-1955. médiation culturelle, engagements et représentations, Paris, L’Harmattan, 2006.