Lo squilibrio e la crisi dell’Italia meridionale, nonostante la sua ampiezza, trovano radici essenzialmente nelle particolari condizioni dell’agricoltura. L’attività agricola prevalente nel Molise era la cerealicoltura, quasi una monocultura5, nonostante le bassissime rese dei terreni, in gran parte inadatti, e la mancanza, quasi completa, di rotazioni agrarie6. Le rese per ettaro, tra le più basse del Meridione, e l’eccessiva pressione demografica sulla terra annullavano i già scarsi utili dei contadini affittuari, ma soprattutto dei braccianti7. Tale condizione caratterizzava in particolare le zone montuose, dove la coltura, soprattutto cerealicola, veniva praticata su terreni estremamente frazionati. Sia i contadini affittuari sia i piccoli proprietari non riuscivano nemmeno a ricavarci il minimo di sussistenza8.
Gli aspetti più significativi della crisi meridionale e molisana, pertanto, si possono individuare “nell’espansione incontrollata della cerealicoltura9 e più in generale nell’espansione delle terre messe a coltura a discapito del pascolo e quindi della pastorizia transumante; nella […] crisi dell’economia pastorale […]; nel degrado dei quadri naturali ed ambientali legato alla distruzione dei boschi […] e […] nel rafforzamento dei settori più restii a favorire un processo di ammodernamento delle strutture produttive” 10. Nell’intera regione molisana intervengono quegli elementi di trasformazione degli assetti colturali e produttivi, di mutamento delle forme di utilizzazione del suolo e di applicazione delle tecniche agrarie, di cambiamento delle condizioni di lavoro e vita e di modifica del regime alimentare di gran parte della popolazione11.
Durante l’intero secolo XIX, la popolazione europea ed italiana conosce una delle più consistenti variazioni demografiche verificatesi fino ad allora. In Italia, il fenomeno di incremento demografico risulta più evidente nelle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali e, verso la fine del secolo, più marcato nelle città rispetto alle campagne, anche se di proporzioni tali da non configurarsi come un reale processo di concentrazione urbana. Benché il quadro socio-demografico nazionale, nel complesso, evidenzi un sostanziale aumento della popolazione rurale, la varietà delle situazioni territoriali “può essere letta solo alla luce di specifici fattori e specifiche condizioni locali”. D’altro canto, “il problema delle campagne e le questioni contadine vengono immediatamente in primo piano al momento dell’unificazione e domineranno a lungo la scena economica e politica del nuovo Stato unitario” 12.
Secondo la storiografia più consolidata, una delle prime conseguenze dell’aumento della popolazione, soprattutto meridionale, congiuntamente alle varie problematiche legate agli assetti sociali e della proprietà fondiaria, alle difficoltà creditizie piuttosto che alla tradizione alla mobilità e alla tendenza all’emulazione, fu proprio il fenomeno dell’emigrazione13. Sicuramente le relazioni fra tutti i vari fattori in causa furono complesse, non sempre di lettura facile ed univoca. Infatti, in aree territoriali molisane omogenee, pur in presenza di un’emigrazione in linea con l’andamento regionale del fenomeno, sono spesso rilevabili elementi di discontinuità che si manifestano, ad esempio, con comportamenti ed esiti dissimili anche fra comuni confinanti, tanto da non poter valutare l’emigrazione solo come un “semplice rapporto tra popolazione e risorse” 14.
Fra le varie cause a cui si addebita l’origine dei flussi emigratori dalle diverse aree geografiche15, “quella che ricorre sovente è costituita dal perdurante squilibrio tra popolazione e risorse disponibili [… in ciò risiedono] i principali fattori di avvio di quella emigrazione d’oltreoceano che ebbe un peso non trascurabile un po’ ovunque ed in modo particolare in Molise” 16. Ciò in aggiunta all’emigrazione interprovinciale, di tipo prevalentemente stagionale, da sempre presente in regione: ad esempio, a fine Settecento è di circa 30 mila lavoratori annui17; è ben messa in evidenza già nella relazione Angeloni, nell’ambito dell’inchiesta agraria Jacini. Per l’intera provincia di Campobasso viene segnalata un’emigrazione, interprovinciale ed estera, di 3.215 persone (di cui 2.289 agricoltori) nel 1882, e di 4.824 (di cui 3.686 agricoltori) nel 188318. Il capoluogo molisano, Campobasso, solo grazie alla politica delle opere pubbliche, riesce a superare il peso dell’incremento demografico, mantenutosi, “tra il 1820 ed il 1850, al livello complessivo del 30%”19. Per una giusta valutazione del fenomeno demografico si tenga presente che la popolazione del Molise passa dai 304.434 abitanti del 1814 ai 355.168 del 1861, fino ai 364.208 del 1871. Negli anni 1865-1871 subisce un incremento del 6% annuo, mentre nel triennio 1872-1874 si verifica una variazione del 3,50% annuo20. Quando il sistema produttivo, integrato solo in parte dalla produzione zootecnica, entra in crisi – a causa del suo equilibrio estremamente delicato – si determina la necessità di un riassestamento fra le dinamiche produttive del mondo agricolo e i suoi gestori; riequilibrio che si traduce nel flusso migratorio21.
Il fenomeno migratorio che ha coinvolto l’Italia ed il Molise durante gli ultimi due secoli è stato uno dei più formidabili e duraturi eventi di sconvolgimento e riassetto della società italiana sia per gli aspetti sociali sia per quelli economici e culturali. Sono molti a ritenere che l’emigrazione, temporanea o definitiva, abbia rappresentato “uno dei fenomeni più importanti e complessi della storia economica e sociale del nostro paese. Per circa un secolo dopo l’Unità d’Italia gli espatri verso l’estero hanno costituito la soluzione più esasperata ed immediata ai problemi che la mancanza di una solida struttura economica ha posto a milioni di italiani” 22.
Il Molise, già dopo l’Unità d’Italia, ma soprattutto a partire dagli ultimi decenni del secolo XIX, è stato investito poderosamente dal fenomeno. Nel 1875 l’onorevole Leopoldo Franchetti segnala che “l’emigrazione per l’America è abbastanza attiva in Abruzzo […] essa va crescendo nel Molise” 23. Una sintetica quanto efficace scheda sulle “cause dell’emigrazione e dei caratteri che essa assume nelle varie regioni e province”, relativa alla provincia di Campobasso, è pubblicata nel 1882 nella Statistica della emigrazione italiana del Ministero di agricoltura24.
Dopo poco più di un decennio dalle osservazioni di Franchetti, nel 1888, Francesco Saverio Nitti, avverte che “le province che dànno maggior numero di emigrati per paesi non europei sono: Potenza che nel 1886 n’ebbe 10.642, Salerno 7.824, Campobasso 6.847”. Nel 1892, la provincia di Campobasso è fra “le province d’Italia, che hanno dato, e dànno, tuttavia un più grande contingente all’emigrazione per paesi fuori l’Europa”, insieme a quella di “Potenza, Cosenza, Salerno […], province appartenenti tutte al Mezzogiorno e in cui la densità della popolazione è assai scarsa” 25.
Fra il 1876 ed il 1900 si verificarono 136.000 espatri, pari al 2,5% – flusso migratorio nettamente superiore a quello delle altre province abruzzesi – e fra il 1901 ed il 1915, se ne contano 171.000, pari al 2% dell’intera popolazione26, con una punta massima nel 1913 alla vigilia della Prima guerra mondiale. Fra il 1905 ed il 1925 emigrano circa 160.000 molisani e ne rientrano circa 57.000, si sposta quasi un terzo della popolazione del Molise. In questo periodo il flusso ha avuto caratteristiche diverse: una prima fase, fino al primo dopoguerra, connotata dall’emigrazione di manodopera generica; una seconda fase, già a partire dal 1920, che fa registrare la partenza di operai specializzati. Il costo pagato “evitò la paurosa crisi economica che sarebbe scoppiata qualora la popolazione della regione, senza la valvola dell’emigrazione, avesse raggiunto le 600 mila unità” 27.
Il fenomeno incise sull’assetto sociale molisano, si ridusse la classe dei medi proprietari, grazie alla pressione della massa di fittavoli e braccianti che, disponendo di risparmi cercarono di acquisire appezzamenti di terreno: nasceva la categoria dei coltivatori diretti. Annota Eugenio Cirese, l’emigrazione “toglieva braccia ai campi, riempiva le casse postali di lire che facevano aggio sull’oro e permetteva il compiersi di una rivoluzione fondamentale nella storia del Mezzogiorno: il passaggio della piccola e media proprietà dal galantuomo al contadino che la conquistava con il risparmio sul lavoro di anni, pesante ed avvilente, durato al di là dell’oceano. Ma il fenomeno non turbava ancora i sonni della svagata borghesia di quella fine di secolo” 28. Il processo che stava sgretolando il predominio della classe borghese “agraria e redditiera”, ponendo le basi, almeno desiderate, per migliori condizioni di vita dei contadini fu un’illusione. Il regime fascista bloccò il flusso migratorio sia interno sia verso l’estero29.
Gli aspetti e le dinamiche generali della diaspora molisana sono sufficientemente chiari30, tanto da portare molti studiosi e storici contemporanei a ritenere necessario – anche per il Molise – un approccio analitico più articolato e penetrante. Ormai, “all’emigrazione molisana non si può guardare da angolazioni univoche e con ottiche prevalentemente quantitative”. Da questa considerazione discendono almeno due valutazioni. In primo luogo, la grande importanza di “profili di lettura qualitativa […] determinanti per la comprensione del fenomeno”. In secondo luogo, la sicura fecondità e la maggiore efficacia di un “approccio alla dimensione locale” 31.
Da una parte, è vero che alcuni aspetti sono stati certamente chiariti: ad esempio il fatto che l’emigrazione è più antica di quanto possano dichiarare le rilevazioni statistiche nazionali ufficiali che prendono il via dal 1876, così come sono numerose ed ampie analisi economiche delle cause dell’emigrazione. Dall’altra è altrettanto vero che – come suggeriscono alcuni studiosi32 – nell’affrontare gli aspetti principali del fenomeno migratorio si sono create, inevitabilmente, alcune gerarchie: ad esempio, rispetto alle indagini dedicate a condizione sociale, mestiere, quantità, periodo e zone di provenienza e destinazione, si è studiata soprattutto l’emigrazione contadina dei primi anni del Novecento proveniente dal Meridione e dal Veneto verso le Americhe, conseguente alla crisi agraria; inoltre, sono stati considerati maggiormente gli aspetti espulsivi, come eccesso di popolazione, scarse risorse, arretratezza economica, e le forze d’attrazione, come richiesta di manodopera, salari appetibili, mobilità sociale. Oggi risulta senz’altro utile una maggiore attenzione agli aspetti sociali e culturali dell’emigrazione, all’impatto degli emigrati con la società d’arrivo e alla rete di contatti con i paesi d’origine, così come appare attraente, per comprendere i diversi atteggiamenti ed i vari comportamenti delle persone, indagare le motivazioni soggettive e le aspirazioni poste alla base della scelta di partire.
Tuttavia, pur condividendo la necessità di diversificare le angolazioni di osservazione e di analisi, non può essere ignorato che lo scenario nel quale molte piccole comunità molisane hanno vissuto la propria parte di esodo resta ancora oscuro ed indistinto rispetto a quello regionale. Solo facendo luce su tali realtà si possono fissare i riferimenti per condurre proficuamente ogni altro tipo di indagine di interesse sia locale, sia regionale. Più in generale, può risultare utile da un lato arricchire il bagaglio di conoscenze particolari, offrendo ulteriori dati, materiali aggiuntivi, casistiche diverse; dall’altro verificare e – per quanto possibile – mettere a punto modelli analitici e varietà tipologiche specifiche33.
Conferma involontaria ed inconsapevole della necessità di un supplemento di indagine sugli elementi oggettivi, causa ed effetto al contempo, dell’emigrazione nelle piccole comunità molisane è offerta, esempio fra i molti possibili, da alcuni scritti dedicati al fenomeno migratorio nelle piccole comunità molisane. Fra questi, emblematico, il caso di un comune del Molise centrale, Campolieto. Recenti pubblicazioni comprendono il paese fra quelli colpiti da emigrazione, ma ritengono che solo “dopo il 1918 cominciò l’esodo verso le Americhe. In maggioranza gli emigrati facevano ritorno dopo aver accumulato un gruzzolo per sostenere economicamente la famiglia. Nel ventennio fascista l’emigrazione subì un arresto formale in quanto, chi poteva, emigrava clandestinamente. Dopo il 1961 la popolazione si è dimezzata, passando da 2.000 a 1.000 residenti effettivi” 34. In realtà, la comunità campoletana ebbe un più precoce impatto con il problema emigrazione con esiti socio-economici non meno drammatici di quelli di molti altri comuni molisani. Campolieto, durante il XIX secolo, ed in maniera sempre più evidente a partire dagli anni Sessanta, vive il generale trapasso dall’assetto silvo-pastorale a quello più spiccatamente agricolo conoscendo, ad esempio, una forte mobilità intercomunale ed interregionale. Più volte negli atti amministrativi, gli interventi di disboscamento sono giustificati “nell’interesse dell’agricoltura, poiché non pochi individui della classe agricola emigrano annualmente per mancanza di terra da coltivare, mentre con la dissodazione di detti terreni nulla verrebbe a torsi alla pastorizia” 35. Si tratta delle manifestazioni del fenomeno descritto da Cesare Jarach, delegato tecnico nell’Inchiesta sulle condizioni dei contadini, che distingue un’emigrazione dalla montagna, iniziata già nei primi anni Settanta e determinata dalla crisi della pastorizia e dal fallimento delle operazioni di disboscamento, dissodamento e quotizzazione dei demani comunali, e un’emigrazione, successiva, dalla pianura, solo apparentemente addebitabile a fattori demografici, ma in realtà attribuibile a fattori socio-economici36.
A partire dagli anni Ottanta, molte piccole comunità molisane sono investite dalle dinamiche di un fenomeno che coinvolse a macchia d’olio il Molise a partire dalle zone montane dell’isernino, interessando soprattutto le zone caratterizzate dalla “piccola proprietà contadina particellare caratterizzata dalla cerealicoltura e da colture promiscue di sussistenza legate ad altre attività artigianali e soprattutto silvo-pastorali” 37. Risulta evidente, per le tante piccole comunità molisane, come non si possa pensare di procedere ad alcuno studio senza avere preliminarmente tracciato dei confini che inquadrino, appunto, il fenomeno migratorio in un contesto meno aleatorio ed indistinto. Tale operazione, può essere condotta solo attraverso l’utilizzo preliminare di strumenti di analisi – per quanto abusati – di tipo socio-economico e, ancor prima, di tipo quantitativo. Restano utili, a tal fine, alcuni indicatori economici e produttivi legati alle più rilevanti colture dei territori di riferimento e le modalità di gestione delle terre, in particolare di quelle pubbliche con il sistema di frazionamento. Proprio l’andamento dell’amministrazione di queste ultime, infatti, segna l’evoluzione dell’emigrazione di molti comuni molisani; evidenzia l’andamento del fenomeno; mostra tutta l’impotenza delle amministrazioni comunali, abbandonate dallo Stato centrale; fa emergere la fragilità del tessuto sociale e la sua impossibilità di resistenza. Intorno alla gestione della terra si sono svolti, del resto, anche i timidi, ma intelligenti, tentativi di governo locale del fenomeno migratorio – coronati spesso da successo – da parte di esponenti della piccola proprietà terriera e della classe artigiana, ma anche da parte di alcuni contadini; non raramente, furono proprio alcuni strati meno abbienti della popolazione ad esercitare una poco evidente, ma tenace, reattività al fenomeno. Tali aspetti pongono in primo piano le variegate “motivazioni ed aspettative” di chi decideva di partire: il desiderio di una vita nuova, possibilmente diversa, oppure la determinazione di mantenere e migliorare la propria posizione economica e sociale. Lo studio approfondito su aspetti specifici del flusso migratorio molisano è, inoltre, preludio ad una più puntuale ricostruzione di un – ancora oscuro – capitolo della storia migratoria molisana, ossia l’impatto con la società ospite, le vicende successive agli arrivi nella terra di destinazione, l’avvio di una nuova vita, le relazioni all’interno delle, e fra, le comunità all’estero; fra queste e la comunità d’origine.
Per quanto concerne la popolazione delle piccole comunità molisane durante i secoli XIX e XX è possibile ricostruirne l’evoluzione quantitativa attraverso l’esame di varie fonti. Fra queste hanno un ruolo cardine, oltre ai registri dello Stato civile, i censimenti, a partire dal primo del 1861 realizzato dal Ministero d’agricoltura, industria e commercio, i Registri delle vaccinazioni e quelli dello Stato di variazione degli utenti di pesi e misure: tali fonti permettono di rilevare frequenti anomalie fra quelli ministeriali e quelli comunali; di osservare le variazioni di popolazione dovute a malattie o epidemie; di riscontrare gli scarti fra presenti e residenti, spie di possibili movimenti migratori. Risultano, inoltre utili, fonti occasionali come, ad esempio, il Questionario per l’Inchiesta sulle condizioni igienico-sanitarie dei comuni del Regno. Anno 1885.
Utilizzando le fonti indicate38, si può esemplificare la costruzione di scenari validi per molte comunità molisane. In linea con quanto stava succedendo in Italia, moltissime piccole comunità della regione registrano un progressivo calo di popolazione che dai primi anni Novanta, progressivamente, diventa sempre più sensibile39. Ad esempio, in un circondario del Molise centrale, fra il 1882 ed il 1889, in comuni limitrofi si osservano dati molto diversi40.
|
|||
Comuni |
1882-1889*
|
1906-1909**
|
1910-1913**
|
|
|||
Campolieto |
6,5 %
|
13 %
|
9,6 %
|
Matrice |
17,1 %
|
17,5 %
|
17 %
|
San Giovanni in G. |
12,1 %
|
21,5 %
|
16,7 %
|
Ripabottoni |
17,5 %
|
15,7 %
|
14,6 %
|
Morrone del S. |
3,8 %
|
13,1 %
|
10,1 %
|
Monacilioni |
13,1 %
|
13 %
|
12,4 %
|
Toro |
8,4 %
|
16,4 %
|
15 %
|
Castellino sul B. |
6,9 %
|
14,4 %
|
14,2 %
|
|
|||
* Percentuale rispetto alla popolazione del 1881 ** Percentuale rispetto alla popolazione del 1901 |
La provincia di Campobasso, con una popolazione al 1881 di 128.596 abitanti, nel periodo 1876-1885 ha un numero di 4.132 espatri con una media annuale dello 0,32%. Nel 1881, il numero di molisani che risultavano all’estero stabilmente, dal censimento effettuato presso i paesi di destinazione, è di 0,04 ogni cento abitanti a fronte dello 0,01 del 187141.
Il costante ridursi dei residenti è l’effetto più eclatante del flusso migratorio che, manifestatosi già dai primi anni Ottanta, a metà anni Novanta esplode in modo clamoroso sia come conseguenza della situazione regionale, non diversa da quella dell’intero Meridione, sia a causa di squilibri di interesse locale che, proprio in questi anni, trovano il punto di maggiore instabilità. Al fenomeno migratorio non sfugge, nonostante le differenze geo-economiche, alcuna area territoriale della regione. Infatti, “nella provincia di Campobasso […] l’emigrazione […] cominciò prima nei montuosi circondari di Isernia e di Campobasso” 42. I flussi migratori nei diversi comuni, nonostante l’omogeneità dei territori e le affinità degli equilibri economici e produttivi, appaiono fortemente differenziati. Una possibile spiegazione è individuata nella persuasiva tesi di Gino Massullo. Lo studioso sostiene che i comuni “più fortemente e più precocemente coinvolti nell’emigrazione transoceanica” furono quelli che, meno vicini alle vie di comunicazione, non avevano conosciuto tradizionalmente le migrazioni stagionali (per pastorizia, mestieri e lavoro agricoli) che da una parte rappresentavano una abitudine “culturale” allo spostamento, anche come forma di investimento, dall’altra costituivano sia attività lavorative di integrazione del reddito, sia un canale di dolce ammortizzamento di squilibri socio-economici43.
Per quanto concerne la visione dell’emigrazione come forma di “investimento” e non solo come semplice “fuga dalla fame”, può essere addotta – solo come esempio – l’emblematica esperienza legata all’ambito socio-culturale che coinvolse gran parte della classe artigiana. Il riferimento è alla particolare relazione fra fenomeno migratorio e mondo bandistico musicale molisano e nazionale. I gruppi musicali in gran parte sono composti da artigiani per i quali la pratica bandistica, ma anche quella mandolinistica44, è complementare all’attività lavorativa principale ed è praticata principalmente in occasione di ricorrenze festive o in periodi dell’anno meno impegnativi. Tale pratica da una parte è mezzo di distinzione sociale e culturale rispetto alle fasce popolari, dall’altra rappresenta un importante canale di integrazione del reddito familiare45. Adottando un punto di vista sufficientemente distante dai momenti storici contingenti, sembra quasi che la logica migratoria risponda ad una strategia complessiva ed integrata che prescinde dalle artificiose divisioni legate ai confini nazionali di spostamento interno/esterno, e sia connessa invece alla necessità-capacità di trovare risposte alla “crisi dell’economia” ed alle soluzioni “messe in atto per scongiurarla o arginarla” 46. È osservabile come l’emigrazione, pur coinvolgendo prevalentemente la classe contadina, abbia effetti diretti anche su quella degli artigiani. Pur non essendo possibile in questa sede esaminare le relazioni fra i due fenomeni si può ipotizzare, considerata la forte valenza socio-economica dell’attività musicale itinerante, che l’attività bandistica, per chi possedeva la tecnica di uno strumento musicale adatto, rappresentava l’ultima forma per procurarsi un introito economico, o anche semplicemente alimentare, per la sopravvivenza, prima di decidere per l’emigrazione. Tale pratica è tanto importante da incidere almeno sui seguenti aspetti. Da una parte, costituendo l’ultimo baluardo economico prima di decidere la partenza, aiuta a resistere al forte flusso migratorio che investe il Molise nell’ultimo ventennio dell’800 e contribuisce ad evitare, o almeno a rinviare, l’espatrio. Dall’altra, una volta arrivati nella nuova terra, rappresenta una attività di sostentamento e, spesso, come testimoniano le istituzioni dei molti gruppi musicali negli USA, in Venezuela ed in Argentina, uno strumento di affermazione; non di rado diventa anche un importante canale di integrazione nella società ospite47.
Federico Orlando, in uno storico ma ancora valido saggio dedicato all’emigrazione molisana48, sottolinea come la Prima guerra mondiale abbia provocato una flessione, ma non l’arresto, nel flusso migratorio che “scompare invece quasi del tutto dal 1931 al 1945 per le note leggi restrittive e per la Seconda guerra. Nel giro di un ventennio (1905-1925) si ebbero nel Molise 159.464 espatri contro 56.865 rimpatri. Si può dire quindi che in venti anni la popolazione molisana si sia trasferita oltre Atlantico”. Dopo una disamina di cause ed effetti deduce che “nel secondo dopoguerra […] le categorie dei coltivatori diretti si [ridussero] in uno stato di proletarizzazione pressoché identico a quello dei braccianti e dei fittavoli del 1870” e conclude che “nel giro di un settantennio un intero ciclo di assestamento sociale s’era compiuto, con un vertiginoso ritorno, però, al punto di partenza” 49.
In realtà durante il periodo fascista l’emigrazione non scomparve, ma assunse altre forme. Certo i provvedimenti restrittivi adottati dagli USA, la crisi del 1929, le leggi “rurali” del regime condizionarono fortemente i movimenti di popolazione, tanto che nei primissimi anni trenta si può riscontrare un aumento di popolazione. La popolazione molisana guarda con interesse all’impresa bellica etiopica: “strati sociali diffusi si candidarono sin dall’inizio a prendervi parte […] volontari […] per le operazioni belliche o lavoratori che si trasferirono […] a guerra conclusa […] per tutti si tratto […] di non lasciarsi sfuggire quella che, al di là della retorica ufficiale, appariva soprattutto come un’occasione di lavoro […] nella stragrande maggioranza si trattava di una migrazione temporanea” 50. Fra il 1936 ed il 1938, 600.000 italiani chiesero di partire verso l’Africa Orientale come operai da impiegare soprattutto in lavori di opere pubbliche: di questi 4.000 erano molisani; solo 555 richieste furono accolte. Delle 2.996 richieste molisane di arruolamento, furono accolte solo 1.309. A questi espatri vanno aggiunti i quantitativamente minori spostamenti verso i cantieri della capitale, ma anche verso la Germania e l’Albania51.
Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale il flusso dell’emigrazione riprese con la naturalezza di una consuetudine e – come a fine Ottocento – ripartì dall’Alto Molise per poi estendersi all’intera regione. Fra le mete scelte Australia52, Brasile53, Canada54, Argentina, Venezuela, Uruguay55, ma il flusso migratorio, a carattere prevalentemente temporaneo, già da metà anni Cinquanta, predilige i paesi europei: Inghilterra, Francia, Belgio56, Germania57.
Il coinvolgimento – anche quantitativo – del Molise nel fenomeno è continuato fino alle soglie del Duemila: “Dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso, da quando cioè si può disporre di dati di rilevamento attendibili58, fino alle soglie dell’ultima decade del nostro secolo, solo gli espatri ufficiali dal Molise sono stati oltre 600 mila, su una popolazione, è bene ricordarlo, di 363 mila nel 1881 e di 324 mila nel 1997” 59.
Note