Gli indiani d’America e l’Italia, III, a cura di Fedora Giordano, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, 178 pp.
Questo volume è la terza puntata di una bella iniziativa avviata dalla curatrice esattamente un decennio prima (il primo volume è infatti apparso nel 1997 e il secondo nel 2002). I tre volumi sono ovviamente incentrati sugli indiani delle Americhe e quindi affrontano temi come l’immagine dei nativi nei diari di viaggio e di scoperta, oppure la fortuna della letteratura amerindiana nel mercato editoriale italiano. Tuttavia nel corso del tempo ci si è spesso imbattuti in saggi non tanto sui viaggiatori e sugli scopritori, quanto sugli emigranti. In numerose situazioni di frontiera questi sono infatti entrati in contatto con le popolazioni autoctone.
Il problema di questa interazione è seguito con particolare cura in questa ultima fatica. In particolare la stessa curatrice illustra come la frontiera e gli indiani appaiano nei romanzi di alcune scrittrici italo-statunitensi. Nel celebre Umbertina (1979) di Helen Barolini gli indiani non sono mai persone concrete. Però, tutto il racconto si svolge nei luoghi dove ha dominato la Lega degli Irochesi e i nomi delle tribù che formavano quest’ultima ritornano continuamente. Gli immigrati hanno dunque sostituito i nativi? In un certo senso la risposta deve essere positiva, anche perché gli immigrati come i nativi hanno innato il senso della terra e della natura. Carole Maso è ancora più esplicita in Ghost Dance (1986): la presenza indiana ci offre il filo rosso del racconto e diviene il filo rosso dell’esperienza degli immigranti.
Siamo ovviamente di fronte a un caso peculiare di identificazione a posteriori, nel quale i discendenti degli immigrati si adattano a una tendenza letteraria, già molto diffusa nella letteratura statunitense. Henry Fiedler segnalava questa identificazione surrettizia nel suo famoso The Return of the Vanishing American (1968) e la sua ipotesi trovava il supporto di Élémire Zolla in I letterati e lo sciamano (1969).
Nella realtà storica i rapporti tra immigrati e nativi sono stati molto più conflittuali. Al proposito Chiara Vangelista documenta come in Brasile gli stessi salesiani, partiti per evangelizzare gli autoctoni e presto spostati alla cura dei nuovi arrivati di origine italiana, abbiano finito addirittura per consigliare l’occupazione della foresta, territorio indigeno per eccellenza. A tal scopo i missionari hanno finito per appoggiare iniziative quali l’acquisto di armi, perché “ogni famiglia dovrebbe provvedersi [di] un’arma da fuoco tanto temuta dai selvaggi”. Questa frase di un salesiano non era fine a se stessa, ma precedeva la richiesta di armi a coloro che erano rimasti nella Penisola e che avrebbero dovuto aiutare la conquista della frontiera brasiliana.
Come già detto, quello dei rapporti fra emigrati e indiani delle Americhe è soltanto uno dei temi del ricchissimo progetto decennale coordinato da Fedora Giordano. Tuttavia i tre volumi contengono al proposito diversi contributi che meritano di essere letti e che confermano quanto suggerito da Piero Brunello in Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera (Roma, Donzelli, 1994).