Leo Lucassen, The Immigrants Threat. The Integration of Old and New Migrants in Western Europe since 1850, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2005, 296 pp.
Il libro di Leo Lucassen prende le mosse dal dibattito contemporaneo in Europa sulle presunte maggiori difficoltà di integrazione – quando non si parla di completa inammissibilità – degli immigrati odierni rispetto a quelli del passato. L’autore sostiene che tale interpretazione è fuorviante in quanto basata su una visione troppo rosea di quella che fu l’esperienza degli immigrati del passato, e che le tipologie di “minaccia” – religiosa, nazionalistica, e socio-economica – attribuite agli immigrati contemporanei presentano molte somiglianze con le caratteristiche che venivano associate agli immigrati della seconda metà del diciannovesimo e della prima del ventesimo secolo.
Il volume è organizzato in tre parti. La prima, dedicata agli “Old Migrants,” ripercorre le vicende dell’emigrazione irlandese in Gran Bretagna (1840-1922), dei polacchi in Germania (1870-1940) e degli italiani in Francia (1870-1940). La seconda, dedicata ai “New Migrants,” guarda invece alle esperienze dei caraibici in Gran Bretagna (1948-2002), dei turchi in Germania (1960-2002) e degli algerini in Francia (1945-2002). Il libro si conclude con un esame comparato delle somiglianze e differenze fra le esperienze degli “Old” e “New” immigrati. In essa l’autore sostiene che l’integrazione degli immigrati contemporanei sembra procedere più rapidamente di quella del passato, pur se esistono significative differenze fra i tre gruppi analizzati (e all’interno dello stesso gruppo) per quel che riguarda i tempi e la riuscita del processo.
L’immigrazione dei tre gruppi di “Old Migrants” fu caratterizzata da aspri contrasti nelle società di accoglienza. Nel caso degli immigrati irlandesi e polacchi, la religione cattolica, l’intenso nazionalismo, e un razzismo più o meno latente costituirono le principali ragioni alla base della loro difficile integrazione, fattori che Lucassen considera paragonabili ad atteggiamenti contemporanei nei confronti di immigrati turchi e nordafricani. Gli italiani che emigrarono in Francia nello stesso periodo incontrarono principalmente l’opposizione dei lavoratori autoctoni, che li accusarono di accettare paghe inferiori e di sabotare gli scioperi, e per tali ragioni vennero definiti i “Cinesi d’Europa.” L’integrazione degli italiani in Francia, tuttavia, fu più rapida di quella di irlandesi e polacchi, come testimoniato dagli alti tassi di naturalizzazione e dalla frequenza di matrimoni misti. Secondo Lucassen, questo fu dovuto all’atteggiamento tutto sommato favorevole del governo francese e al fatto che essi non costituivano una minaccia di tipo ideologico, come era invece il caso per il cattolicesimo irlandese o il nazionalismo polacco.
Nel caso dei “New Migrants” giunti in Europa nel secondo dopoguerra, Lucassen ritiene che ci siano stati notevoli progressi nel loro processo di integrazione, anche se il passo è stato diverso per ognuno dei gruppi studiati, e che all’interno di ogni gruppo ci siano differenze legate principalmente a questioni di estrazione sociale e genere. La categoria “color” non sembra aver rappresentato un ostacolo insormontabile per gli immigrati caraibici in Gran Bretagna, e le donne in particolare hanno dimostrato notevoli capacità di ascesa sociale. Lo studio della seconda generazione di immigrati turchi in Germania rivela segni di integrazione, soprattutto nella sfera socio-economica, mentre prevale un atteggiamento endogamico per quel che riguarda i comportamenti matrimoniali. Gli algerini in Francia rappresentano il gruppo che ha apparentemente incontrato più ostacoli nell’integrarsi. La maggior parte vive segregata nelle aree più dimesse dei grandi centri urbani, e i loro figli sono sottoposti a considerevole discriminazione, abbandonano presto le scuole, e hanno tassi di disoccupazione molto più alti della media nazionale. Lucassen ritiene però che questi problemi non siano tanto dovuti a fattori religiosi (Islam) o culturali (l’organizzazione familiare basata sulla tribù), quanto agli strascichi dei rapporti coloniali fra Francia e Algeria, e individua ambiti in cui anche per questo gruppo è possibile parlare di lenta ma graduale integrazione.
Lucassen ha scritto un libro di complessa eleganza. La struttura simmetrica che lo contraddistingue – e che si è largamente seguito nel discuterne il contenuto in questa recensione – non deve trarre in inganno. L’approccio comparato richiede un certo livello di generalizzazione dei fatti analizzati, ma l’autore è sempre attento a indicare al lettore i punti di continuità e divergenza che emergono dal trattamento di ognuno dei sei gruppi di immigrati. Questo lo rende un libro interessante non solo per il contenuto, ma anche per la discussione di cosa precisamente si intenda col termine “integrazione” e dei rapporti fra storici e studiosi di scienze sociali nel campo degli studi migratori, e specialmente dal punto di vista metodologico. Il paragone fra gli immigrati del passato e del presente è un tema che ha avuto parecchia fortuna negli Stati Uniti negli ultimi anni, basti pensare ai lavori di Nancy Foner, Richard D. Alba e Joel Perlman, e Lucassen offre anche un’attenta – sebbene sommaria – descrizione del dibattito al di là dell’oceano, insieme ad un’analisi delle differenze che contraddistinguono tale discussione nel contesto europeo e in quello nordamericano.