I primi tentativi
La storia degli italiani in Brasile ha una genesi molto antica, che troppo spesso è tralasciata nelle storie dell’emigrazione. E’ invece importante per quanto ci permette di capire sulle modalità iniziali degli scambi tra due realtà apparentemente assai lontane.
Nel 1587 Ferdinando de’ Medici, già cardinale di Santa Romana Chiesa, succede al fratello Francesco I, morto senza eredi legittimi. Il nuovo granduca di Toscana abbandona lo stato ecclesiale e diviene in poco tempo uno degli uomini più ricchi d’Europa. Nell’arco di qualche anno intreccia una fitta rete di relazioni diplomatiche e commerciali. Appoggia Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV di Francia, contro gli spagnoli; segnala ad Elisabetta d’Inghilterra la data di partenza dall’Avana della flotta spagnola, attesa al varco dai corsari della regina; finanzia la guerra contro i turchi dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo; invia emissari allo zar Boris Godunov.
L’appena fondata Livorno diventa un grande porto internazionale e Ferdinando medita di farne la base per traffici su scala mondiale. Il granduca pensa infatti che Firenze debba partecipare alle imprese coloniali e interroga marinai e viaggiatori sulle possibilità in questo campo. Quando comprende che l’India e il Giappone sono fuori della sua portata, chiede al proprio ambasciatore a Madrid se il governo spagnolo sia disposto a concedergli un’enclave nel Nuovo Mondo: spera infatti in feudi americani per i figli minori, ma non ottiene niente. In compenso nel 1604 si accorda con il re di Fez (nell’odierno Marocco settentrionale) e ottiene di poter utilizzare liberamente il porto atlantico di Larache: da qui i suoi marinai organizzano il contrabbando con il Brasile, molto mal controllato dalla corona spagnola che nel 1581 si è annessa il Portogallo e le sue colonie.
Nei primi anni del Seicento Ferdinando I di Toscana accarezza il sogno di un piccolo impero africano; poi valuta la possibilità di una colonia brasiliana. Il 30 agosto 1608 l’ingegnere fiorentino Baccio da Filicaia, sul quale torneremo, gli invia una lettera da Lisbona. In essa ricostruisce la conquista del Brasile e spiega le ragioni del declino della colonia lusitana. Neanche un mese più tardi Ferdinando fa armare una caravella e una tartana nel porto di Livorno e le affida al capitano Thornton. Il viaggio è in realtà preparato da tempo – la lettera di Baccio ha soltanto accelerato un programma già stabilito – e il granduca ha persino chiesto a Robert Dudley una pianta dell’Amazzonia, da quest’ultimo esplorata nel 1595. Dudley consiglia a Thornton di cercare l’oro sulle rive del Rio delle Amazzoni e dell’Orinoco. Ferdinando ordina più prosaicamente di caricare balle di merci e di fondare, se possibile, un avamposto commerciale.
Thornton naviga per quasi un anno: approda in Guyana e in Brasile, esplora il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco, rientra facendo tappa alla Caienna e a Trinidad. Il 12 luglio 1609 è di nuovo a Livorno, ma non trova nessuno cui riferire la propria impresa. Il 7 febbraio di quell’anno il granduca è morto e a Firenze non si pensa più alla possibilità di fondare una colonia o un comptoir commerciale oltreoceano.
Sfuma così la possibilità di occupare una terra che è nota agli italiani sin dalla prima occupazione. Tre fratelli di origine genovese – Giuseppe, Francesco e Paolo Adorno – erano infatti membri della spedizione che portò alla fondazione della Capitania di San Vicente negli anni venti del Cinquecento. Filippo Cavalcanti era sfuggito alla giustizia medicea, nascondendosi prima a Lisbona e poi a Pernambuco nel 1558. Lo avevano seguito altri viaggiatori toscani che avevano riferito a Firenze le meraviglie di quelle terre: Francesco Carletti aveva toccato il Brasile nel suo viaggio intorno al mondo iniziato nel 1591; il già citato Baccio da Filicaia vi si era fermato dal 1596 al 1607, impegnato nella costruzione di fortificazioni e nelle esplorazioni. Nel frattempo i genovesi Pietro Scipione Grimaldi e Marco Ventimiglia si erano dedicati al commercio (e al contrabbando) della farina tra il Rio della Plata e il Rio de Janeiro.
La colonia portoghese si allontana dall’orizzonte italiano, quando svanisce il sogno di una base toscana. I visitatori dalla Penisola sono pochi e casuali nel Sei-Settecento. Una presenza costante si registra soltanto durante le guerre ibero-olandesi, quando due migliaia di marinai e soldati napoletani partecipano agli scontri e agli arrembaggi degli anni 1625-1641. Molti periscono tra i flutti e gli altri non lasciano comunque traccia nella storia del Brasile. Il ricordo dei missionari gesuiti e cappuccini di origine italiana scivola egualmente nel nulla, tranne nei casi di chi ha lasciato una relazione o firmato la costruzione di un edificio.
Alla fine del Settecento il numero degli italiani in Brasile è ridottissimo; cresce invece drammaticamente, quando la colonia inizia a staccarsi dalla madrepatria occupata dai francesi durante guerre napoleoniche. In tale occasione la corte portoghese fugge da Lisbona e, seguita dal nunzio vaticano, si rifugia a Rio. Il trasferimento è temporaneo nelle intenzioni, ma diviene con il tempo definitivo. Nel 1822 l’Impero brasiliano si separa dal Portogallo e sette anni dopo la nunziatura apostolica del Brasile si separa da quella di Lisbona per coprire tutto il subcontinente meridionale, le Antille e il Messico. In seguito la giurisdizione religiosa sui paesi di lingua spagnola è divisa da quella dei paesi lingua portoghese e dal 1836 il nunzio in Brasile si occupa soltanto dei cittadini di questo paese. Da adesso in poi Roma è regolarmente informata su quanto avviene in quella terra lontana e segue passo passo l’evoluzione della chiesa e della società locali.
Nello stesso lasso di tempo molti italiani abbandonano le loro patrie. Questa spinta è comunque molto contenuta: la grande emigrazione italiana inizia infatti dopo l’Unità, mentre altri paesi europei arricchiscono di braccia le Americhe già nella prima metà dell’Ottocento. Tuttavia nei primi decenni del secolo partono verso il Brasile viaggiatori d’eccezione, che ne diffondono la fama per tutta Italia. Il medico fiorentino Giuseppe Raddi accompagna oltremare l’arciduchessa Leopoldina, che va in sposa a Pedro, primo imperatore del Brasile. Raddi ritorna nel 1818 a Firenze e dona al Museo di fisica e storia naturale ben quattromila esemplari di piante e tremila di insetti e animali. Il resoconto del suo viaggio ci fa sapere che nel Brasile di quegli anni ci sono già alcuni toscani, come Riccardo Zani, militare di origine livornese. Inoltre racconti come il suo pubblicizzano nella Penisola le occasioni che si possono trovare oltreoceano.
Avventurieri di un qualche lignaggio tentano quindi la fortuna in Brasile, magari cercando impiego quali cacciatori d’indigeni, come capita agli inizi del Settecento. A sua volta il (piccolo) successo da essi raggiunto o comunque l’eco delle loro gesta attira verso il Sud America i tradizionali flussi temporanei di artisti, artigiani e lavoratori girovaghi. Lo sviluppo tecnologico facilita infatti le partenze stagionali, riducendo la durata del viaggio transatlantico. Inoltre questi primi flussi migratori sono irrobustiti dal fallimento dei moti risorgimentali. Alla sconfitta e soprattutto alla repressione dei moti del 1820-1821 in Piemonte e a Napoli decine, forse centinaia, di congiurati o comunque di persone coinvolte s’imbarcano per cercare la libertà o per sfuggire la galera. Così il Rio Grande do Sul, al confine dell’area platense, ospita alcuni genovesi in fuga, cui tengono dietro napoletani e toscani. L’origine sociale di questi esuli è varia, tuttavia in loco si dedicano quasi sempre ai trasporti (soprattutto marittimi e fluviali), alla ristorazione e al commercio di alimentari.
Agli emigrati volontari si uniscono i deportati. Il Regno delle Due Sicilie sfrutta le sue relazioni con il Brasile per inviarvi dal 1820 centinaia di prigionieri. Alcuni riescono a integrarsi nella società coloniale e decidono di rimanere oltreatlantico una volta riacquistata la libertà. Minor fortuna ha invece la sessantina di ex-carcerati pontifici, per lo più giovani romagnoli, inviati oltremare nel 1837. Il loro viaggio è un calvario e l’inserimento molto difficile, ma anche in questo caso alcuni si stabiliscono definitivamente a Bahia, a Rio de Janeiro o nel Rio Grande do Sul.
Si forma così un nucleo di emigrazione politica il quale non rinnega le idee, che ne hanno provocato la partenza, anzi continua a diffonderle: gli ideali della Giovane Italia sono per esempio riecheggiati da tutta la comunità italiana con rabbia e disdoro dei consoli napoletani e dei plenipotenziari austriaci presso la corte imperiale. Nel 1835 entra addirittura in funzione una Congrega della Giovane Italia a Rio, assai attiva sino al 1838, cui aderisce Giuseppe Garibaldi, che diviene presto una delle figure centrali delle agitazioni sudamericane. Il centro di Rio si collega infatti strettamente a quelli di Buenos Aires e Montevideo e i mazziniani in esilio prendono parte ai moti sudamericani: li rintracciamo tra i rivoltosi del Rio Grande (1834-1845) e tra quelli che hanno preso parte alla più breve sollevazione caterinense (1839) contro l’imperatore brasiliano, nonché nelle guerre in Uruguay tra il 1839 e il 1851. Gli stessi deportati pontifici aderiscono, appena sbarcati, alla rivolta indipendentista e repubblicana di Bahia (novembre 1837).
Anche al di là di questi avvenimenti politici, l’emigrazione attira l’attenzione delle autorità romane. I nunzi vaticani e i loro funzionari si interessano alle sorti degli emigrati. L’Archivio Segreto Vaticano e l’Archivio di Stato di Roma, che ha ereditato parte dei documenti amministrativi dello Stato della Chiesa, possiedono di conseguenza una notevole collezione di documenti sulla già menzionata vicenda dei deportati in Brasile del 1837: avventura complicata dalla presenza di emigrati volontari arruolati come i galeotti da un emissario italiano del governo brasiliano, lo spoletino (quindi cittadino pontificio) Vincenzo Savi. Inoltre tra le carte vaticane e tra quelle della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, già de Propaganda Fide, si trovano numerose riflessioni sulla sorte dei primi europei di origine non iberica immigrati in Brasile. In particolare nel 1845 sbarca a Rio Gaetano Bedini, futuro cardinale e segretario di Propaganda Fide, che si interessa a quanto accade agli immigrati tedeschi e italiani e promuove una nuova sensibilità religiosa per la questione migratoria. Soprattutto solleva il problema dell’impreparazione del clero americano e della possibilità che i protestanti possano strappare alla Chiesa di Roma le anime dei migranti. Per ora si tratta di paure di poco conto, ma il successivo tempestoso sviluppo dell’emigrazione italiana verso il Nuovo Mondo darà ragione all’avveduto diplomatico vaticano.