I prodromi della grande immigrazione (1848-1870)
Nonostante le preoccupazioni di Gaetano Bedini la presenza italiana in Brasile non aumenta tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta dell’Ottocento, né i pochi immigrati italiani attirano l’attenzione degli evangelizzatori protestanti. Inoltre, negli stessi decenni, l’attività politica dei nostri esuli diminuisce notevolmente nell’impero luso-americano: il baricentro dell’emigrazione politica si sposta infatti verso Buenos Aires e New York.
E’ quindi un periodo di assoluta calma, nel quale ogni anno arrivano al massimo qualche centinaio di italiani. Nel frattempo, però, i legami fra la Penisola e il Brasile si rinserrano, perché nel 1843 convolano a giuste nozze l’imperatore Pedro II e Teresa Maria Cristina di Borbone. Il matrimonio non influenza i flussi migratori, tuttavia l’imperatore inizia a vedere favorevolmente l’immigrazione italiana nel quadro del rivoluzionamento, da lui imposto, della politica di popolamento del Brasile. Pedro II decide infatti di abolire l’antico sistema coloniale di sfruttamento dei suoi domini e prevede che l’unico titolo di possesso della terra sia l’acquisto (Lei de Terras del 1850). Gli europei, però, non si precipitano in massa, perché coloro che desiderano emigrare non sono in grado di acquistare terra: la legge 3784 del 19 gennaio 1867 decreta allora che siano reclutati da apposite agenzie. A questo punto, come vedremo più avanti, entrano in gioco anche i contatti italiani dell’imperatrice.
L’opera delle agenzie è in genere coordinata ai bisogni dei piantatori di caffè e, ma molto meno, alle esigenze delle società fondate per dissodare e colonizzare le terre vergini. Dalla cooperazione dei due tipi d’impresa nascono numerose “colonie”, cioè insediamenti d’immigrati. Molte spariscono in un breve torno di anni e coinvolgono nel loro fallimento gli italiani che hanno varcato l’oceano. Altre sopravvivono nonostante le condizioni ambientali ed economiche assai difficili. Altre ancora si trasformano o lasciano i eredità i propri uomini a nuovi esperimenti. In ogni caso già tra il 1867 e il 1875 preparano il terreno per la crescita esponenziale dell’immigrazione durante l’ultimo quarto del secolo.
Per quanto riguarda l’Italia il periodo compreso tra la prima guerra d’indipendenza (1848) e la conquista di Roma (1870) non registra alcuna accelerazione o moltiplicazione delle partenze per il Brasile. Questo resta una terra lontana che attira poco gli emigranti: molto meno delle tradizionali mete europee e delle nuove destinazioni statunitensi e argentine. Soltanto nel 1864 gli arrivi italiani in Brasile superano le due migliaia, mentre nel 1869 superano il migliaio; per gli altri anni di quel periodo si parla di poche centinaia o addirittura di poche unità: è quanto, per esempio, accade nel 1852 e nel 1870.
Bisogna, però, aggiungere che in quel lasso di tempo i flussi italiani verso l’estero non sono notevoli. E’ infatti decisamente in aumento la mobilità all’interno della Penisola e si mantiene stabile il movimento alpino tra Piemonte, Liguria e Francia, tra Lombardia e Svizzera e tra il Triveneto e l’Austria, mentre le partenze transoceaniche assommano ancora a poche migliaia e sono soprattutto dirette verso i soli Stati Uniti, l’Argentina e l’Uruguay. L’emigrazione italiana conosce invece un primo decollo tra il 1870 e il 1880, quando si addizionano più fattori: sovrappopolamento relativo e fragile sviluppo economico; aumento del differenziale salariale tra l’Italia e paesi d’immigrazione; rifiuto da parte della società contadina della nuova subordinazione politica ed economica nella Penisola unificata; ristrutturazione produttiva di alcune aree con conseguente espulsione di forza lavoro.
I nuovi fenomeni emigratori investono soprattutto il nord e il centro dell’Italia; per una massiccia crescita delle partenze meridionali si deve attendere l’ultimo decennio del secolo. Nel frattempo il Sud offre soprattutto sacerdoti disposti a partire persino senza l’autorizzazione dei vescovi, cosicché il Vaticano deve intervenire a più riprese per impedire la fuga degli ecclesiastici più poveri verso gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina e il Brasile. Ogni sforzo è, però, vano e i dicasteri della Santa Sede continuano a emanare disposizioni in merito sino quasi alla prima guerra mondiale, segno che nessuna di esse è realmente rispettata.
Le partenze di religiosi sono accompagnate da quelle di esploratori, naturalisti, scrittori e giornalisti: in questo caso non ci troviamo di fronte a fenomeni migratori. Tuttavia questi viaggi forniscono informazioni sullo sviluppo economico e sociale del Brasile e sulla possibilità di trovarvi lavoro. A partire dagli anni settanta la letteratura di viaggio diviene fiorente per quanto riguarda il gigante luso-americano e soprattutto assume toni quasi propagandistici per quanto attiene alle possibilità di emigrare.
Tale versante propagandistico non è soltanto italiano. Lo stretto rapporto tra la pubblicità delle agenzie di emigrazione e i resoconti dei viaggiatori, persino di quelli non personalmente interessati al mercato delle braccia, è documentato anche per altre nazioni europee, per esempio il Belgio e la Gran Bretagna in relazione all’emigrazione verso il Nord America. In Italia comunque la riflessione sulle possibilità delle terre nuove e sui meriti (o sui demeriti) di migrazione e colonizzazione è continua e martellante e pervade tutta la produzione pubblicistica. Di conseguenza ogni piccolo centro delle aree esportatrici di manodopera è raggiunto da volumi e da articoli, che attestano la possibilità di far fortuna altrove: il lavoro degli agenti di emigrazione è così facilitato ed è stimolata l’iniziativa di coloro che vogliono partire per ricominciare la propria vita daccapo o per integrare le risorse familiari con i guadagni di un (breve) periodo all’estero.