Il primo quarto del Novecento
La crisi economica non arresta l’immigrazione italiana, che continua durante tutto il primo quarto del Novecento, con una pausa ovviamente durante la prima guerra mondiale. I vecchi flussi dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia, cui col tempo si sono aggiunti anche molti emigranti piemontesi, decrescono significativamente negli anni che precedono il conflitto e sono sostituiti da nuove correnti provenienti dal Sud d’Italia. Queste ultime assumono spesso l’aspetto di una diaspora incontrollabile. Lo scopre lo stesso governo italiano, che, allarmatosi per il numero di rimpatri durante la crisi di fine secolo, tenta di regolare le partenze verso il Brasile e nel 1902 proibisce quelle di gruppo e sovvenzionate, che non siano prima approvate dal Commissariato Generale per l’Emigrazione (istituito presso il Ministero degli Affari Esteri).
Nei primi quindici anni del secolo i nuovi arrivati proseguono a recarsi nello stato di San Paolo e anche più a sud, così come era accaduto tra il 1885 e il 1897. Inoltre il loro numero è spesso annualmente pari alla metà di tutti gli arrivi d’immigrati. In un certo senso questo flusso è conseguenza diretta di quello che aveva preceduto la crisi di fine secolo. I nuovi arrivati sono infatti attirati dal successo dei loro diretti predecessori, forse non eccezionale, ma comunque contraddistinto dalla proprietà della terra e dall’italianizzazione del circondario. Vi sono tuttavia alcuni significativi cambiamenti: la concentrazione italiana si rafforza ulteriormente soprattutto nello stato e nella città di San Paolo, dove la presenza italiana è pari al 50% della popolazione. Il numero degli italiani nel Rio Grande do Sul è assai meno significativo, mentre è ancora minore quello negli stati di Paraná e di Santa Catarina. Una discreta presenza italiana, circa 25.000 alla fine dell’Ottocento, si riscontra infine a Rio de Janeiro. Gli immigrati in quest’ultima città sono soprattutto meridionali, d’altra parte, come già accennato, da inizio secolo alla grande guerra i flussi sono eminentemente d’origine calabrese e campana. Sono invece ancora settentrionali e in particolare veneti coloro che s’insediano a San Paolo, Minas Gerais ed Espirito Santo.
Prima della guerra gli italiani hanno ormai costituito comunità stabili, per quanto in parte disperse tra le diverse aree agricole e frontiere di colonizzazione agricole e in parte solidamente inurbatesi nei principali centri brasiliani. In questi ultimi, come abbiamo visto per San Paolo e Rio de Janeiro, il retaggio italiano è notevole: di fatto la classe operaia di San Paolo è a maggioranza italiana. Di qui l’attenzione repressiva dello stato e del padronato brasiliani. Gli operai di origine italiana non sono comunque inermi, né inerti davanti alla violenza del capitalismo luso-americano. Si organizzano in movimenti politici e lottano a fianco dei loro omologhi di altra origine, suddividendosi tra le varie organizzazione socialiste, anarchiche e anarco-sindacaliste. Formano inoltre una miriade di società di muto soccorso. Infine la stessa dimensione delle comunità italiane favorisce la fondazione e lo sviluppo di un’aggressiva stampa italiana, in molti casi improntata quanto meno a un vivido senso della democrazia e dei diritti degli immigrati.
La guerra, in cui il Brasile si schiera a fianco degli Alleati, dura poco, ma restituisce un minimo di fiato all’economia del paese, grazie anche a un effimero boom della gomma. Tuttavia il successivo crollo del cambio e il ribasso delle quotazioni del caffè riportano il paese a una situazione drammatica, ma ancora una volta i movimenti migratori non sembrano tenere conto di quanto accade. La comunità italiana, dopo essere stata salassata per i rimpatri durante il periodo bellico, rimpolpa infatti i suoi effettivi. Sono i tardi effetti del mito brasiliano, che riprendono ad agire nel Veneto, ma investono anche aree, quale quella barese per esempio, dove le partenze erano state in precedenza quasi nulle. In compenso cala progressivamente la partecipazione a questi flussi delle regioni meridionali, che prima del conflitto avevano inviato il maggior numero di lavoratori al di là dell’oceano.
Nel 1920 partono quasi 10.000 italiani, nonostante che le autorità della Penisola segnalino le pessime condizioni di lavoro nelle fazendas e le tristissimi condizioni igieniche delle campagne brasiliane, sottolineando un tasso della mortalità infantile di quasi il 50%. Questa ripresa delle partenze verso il Brasile continua sino a tutto il 1927, anche in ragione della vittoria fascista. Come era già accaduto nell’ultimo decennio del secolo precedente, molti contadini e molti operai abbandonano la patria, quando ritengono che la situazione politica e di conseguenza quella economica siano irrimediabilmente compromesse.
Nel 1934, però, il Brasile imita gli Stati Uniti e restringe rigidamente l’arrivo degli immigrati. La crisi del 1929 e un ulteriore crollo del prezzo del caffè disincentivano quindi completamente l’emigrazione verso le sponde brasiliani. Anzi gli italiani già stabilitisi nel paese iniziano a rientrare in Italia.
L’emigrazione di ritorno diviene allora un problema di prima grandezza per la sopravvivenza delle comunità italo-brasiliane, minacciate anche dalla notevole diminuzione degli arrivi in alcune aree, una volta invece molto ricercate, e dagli spostamenti all’interno del Brasile degli antichi immigrati. Dopo la guerra è, per esempio, da molto tempo cessata l’emigrazione verso il Rio Grande do Sul, una delle mete principali tra il 1875 e il 1892. Tuttavia, grazie alla ferrea endogamia e alla forte fertilità, il gruppo si è moltiplicato, tanto che in quello stesso stato la popolazione di origine italiana è passata da 160.000 unità nel 1901 a 405.000 nel 1934. Ma non tutti sono restati a presidiare le campagne strenuamente agognate nel periodo precedente, anzi, come in molti altri stati, gli italiani di prima e di seconda generazione si sono spostati verso le città.
Dopo la guerra il gruppo italiano ha soprattutto avvertito l’attrazione di San Paolo. Da un lato, infatti, la città è in crescita; dall’altro, ospita imprese italiane anche di grande respiro, che si servono prevalentemente di compatrioti. A San Paolo nel 1920 esistono 1.446 imprese “italiane”, che danno lavoro a quasi 8.500 operai. Inoltre in alcuni settori gli italiani più ricchi e intraprendenti passano dal commercio alla manifattura, incrementando le occasioni di lavoro nelle quali sono richiesti soprattutto italiani. Queste storie di successo di imprenditori e di operai non devono comunque far dimenticare che nei quartieri periferici vivono immigrati disperati e pronti a tutto, come attestano i tanti articoli, sia pure improntati a uno scandalismo facile, sui bairros retti dalla “mafia” (che invece in Brasile non è mai approdata). In verità, in quei quartieri la stessa polizia ha paura di entrare e l’unica legge è quella del più forte.