Cercherò di esporre i caratteri fondamentali dell’emigrazione italiana in Africa dall’inizio dell’Ottocento fino ai giorni nostri, prendendo in considerazione dapprima l’andamento generale del fenomeno e poi alcuni casi geografici specifici (Tunisia, Egitto e Libia).
Innanzitutto guardiamo alla consistenza del fenomeno e tracciando un primo quadro comparativo con l’emigrazione italiana direttaverso il continente americano e verso il resto d’Europa: nel periodo del «grande esodo», tra il 1876 ed il 1915, quando ad espatriare furono in 14 milioni, il 54,5% si diresse in America, il 44% in Europa, e solo l’1,5%, pari a 210 mila persone, in Africa; tra il 1916 ed il 1942, la percentuale di coloro che emigrano nel continente africano raddoppiò, passando al 3%, corrispondente però solo a 120 mila individui a fronte di un numero di espatri di poco superiore ai 4 milioni, mentre il 51,5% si trasferì nel resto d’Europa ed il 44% nelle Americhe; infine, tra il 1946 ed il 1976, quando dalla penisola se ne andarono quasi 7 milioni e mezzo di italiani, il 68,5% si recò in Europa, il 25% in America, e solo l’1%, pari a 75 mila, in Africa.
Da questi dati emerge che l’emigrazione italiana in Africa costituisce senza dubbio un fenomeno di minor peso rispetto all’emigrazione diretta oltre oceano e verso il resto d’Europa, nonostante questo, però, l’emigrazione italiana in Africa costituisce un elemento importante – e la sua storia una chiave di lettura fondamentale – per comprendere il carattere e l’evoluzione dei rapporti tra Italia ed Africa, rapporti che ovviamente si collocano all’interno di quelli più ampi tra Europa ed il continente africano. È noto come il più diretto e duraturo contatto tra Europa ed Africa sia costituito dalla spartizione del continente africano e dalla sua conseguente colonizzazione, ed è indubbio come gli eventi coloniali abbiano fortemente inciso sulla presenza europea ed italiana in Africa.
Pertanto, nel ripercorre la storia della presenza migratoria italiana in Africa, quello che vi propongo e che costituisce poi il criterio di periodizzazione degli studi che sto compiendo in questo periodo, è un esame fenomeno articolato in tre periodi: quello precedente la colonizzazione, quello coloniale e quello post coloniale. Se si divide la storia dell’emigrazione italiana in Africa secondo questo criterio si riesce a ripercorre criticamente la parabola delle comunità italiane in Africa. Seguendo questa parabola infatti, i primi italiani in Africa si insediano proprio all’inizio dell’Ottocento (si tratta di flussi assai poco consistenti) in paesi dell’Africa settentrionale come Tunisia ed Egitto; la loro consistenza cresce in modo significativo proprio nel momento in cui la Francia (1881 Tunisia) e la Gran Bretagna (1882 Egitto) vi stabiliscono i loro protettorati; guardando i dati dell’Annuario statistico italiano relativi al periodo 1876-1925, emerge che l’andamento dell’emigrazione diretta in Africa settentrionale presenta un picco significativo proprio all’inizio degli anni Ottanta, quando si affermano i protettorati in Tunisia ed in Egitto: nel 1882, le richieste di passaporto per l’Africa settentrionale furono quasi 8 mila, tre volte di più rispetto al 1881, ed il numero delle partenze si mantenne alto fino al 1885, intorno alle 6 mila.
È dopo la seconda guerra mondiale, che segna anche l’inizio del processo di decolonizzazione, infine, che le comunità italiane in Africa entrano in crisi. Se si guarda infatti ai dati relativi al periodo che va dal secondo dopoguerra (1946) alla fine degli anni Settanta, si può osservare il declino delle comunità italiane in Africa: si evidenzia, infatti, non solo un flusso verso l’Africa decisamente meno consistente rispetto alla fase precedente, ma un numero di rimpatri superiore a quello degli espatri a partire dal 1947, con un saldo negativo particolarmente significativo nella prima metà degli anni Sessanta, quando i processi di decolonizzazione di alcuni paesi sono giunti a compimento.
Guardando più all’interno del fenomeno, e in particolare guardiamo all’Africa settentrionale, dove, almeno fino ai primi del Novecento, per lo più si diressero gli italiani che andarono in Africa, (172.692 tra il 1876 ed il 1925). Risulta che è la Tunisia il paese verso cui si riversò la maggior parte degli emigranti, 67.906, pari al 39,3% del totale, cui seguono in ordine Algeria, 54.179, ovvero il 31,4%, Egitto, 48.876, pari al 28,3%, e Marocco, con 1731, corrispondente all’1%. Si tratta, nel complesso, di un’emigrazione proveniente in prevalenza dal sud della penisola, secondo il classico criterio di vicinanza. Tra il 1876 ed il 1925, circa il 65,6% degli emigranti diretti in questi paesi proveniva dal sud (Abruzzi e Molise, Campania, Puglie, Basilicata, Calabrie, Sicilia, Sardegna), il 21,8% dal settentrione (Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Venezia Giulia e Zara, Emilia), mentre il 12,6% dalle regioni centrali (Toscana, Marche, Umbria, Lazio).
Caratteri delle comunità italiane prima del colonialismo.
Per quanto riguarda l’Africa mediterranea, il periodo che precede l’affermazione dei protettorati francese in Algeria, Marocco e Tunisia, ed inglese in Egitto, è caratterizzato da un’emigrazione elitaria, composta prevalentemente da commercianti, intellettuali ed esuli politici fuggiti dalla penisola italiana in seguito al fallimento dei moti rivoluzionari della prima metà del XIX secolo.
Tunisia: la presenza italiana prima del 1881, prima del protettorato francese, si compone di diversi nuclei: Nel XVIII secolo giunsero in Tunisia da Livorno molti ebrei, denominati grana (plurale di gurni, cioè livornese, da Gurna, Livorno in arabo), che costituirono un nucleo unito e ben distinto sotto l’aspetto organizzativo della comunità israelitica locale. Erano banchieri, industriali, commercianti, liberi professionisti e detenevano nella reggenza solide posizioni economiche, caratterizzati da un forte sentimento di appartenenza nazionale, dopo il 1861, proclamazione del regno d’Italia. Molti erano in Tunisia anche i profughi politici giunti a partire dalla Restaurazione, ed in seguito al fallimento dei moti rivoluzionari del 1820-’21, 1830-’31 e 1848. Spesso organizzati in logge massoniche, svolsero in seno alla collettività un’intensa opera di propaganda patriottica e diedero forte impulso alla vita culturale ed economica del paese: avviarono diverse attività imprenditoriale, si impegnarono nel campo dell’istruzione e contribuirono. A questi nuclei va aggiunto quello composto da pescatori, le cui attività della reggenza erano state favorite prima dal regime delle capitolazioni (fin dalla metà del XVIII secolo), e poi dal trattato italo-tunisino del settembre del 1868 che garantiva libertà di navigazione e di commercio. Tutti quelli che arrivavano dalla penisola italiana in Tunisia nel periodo precoloniale erano sottoposti all’autorità dei rappresentanti consolari del Regno d’Italia (prima ancora del Regno di Sardegna, delle Due Sicilie e del Granducato di Toscana), specialmente i profughi politici.
Nel 1871 erano da 5 a 7 mila italiani in Tunisia, nel 1881 ce ne sono 11 mila.
Egitto. Anche in questo caso, nel complesso, prima del periodo coloniale, si trattò di un’emigrazione caratterizzata da una componente fortemente elitaria «di professionisti, di tecnici, di militari e dei migliori rappresentanti delle classi superiori, sovente agiata, spesso erudita» che ebbe notevole importanza nel processo di modernizzazione in atto in Egitto, operando praticamente in tutti i settori della società egiziana. L’incremento delle comunità divenne significativo in occasione dei lavori per la costruzione del canale di Suez, opera avviata nel 1859 e terminata dopo dieci anni. Ciò richiamò in Egitto un gran numero di tecnici ed ingegneri. Inutile ricordare che l’autore del progetto del taglio di Suez, fu, come è noto, Luigi Negrelli, progetto scelto da una commissione che nel giugno del 1856 si riunì a Parigi.
Secondo i dati dei censimenti svolti dalle autorità egiziane, nel 1878, su una popolazione di 68.653 stranieri, c’erano in Egitto 14.524 italiani, pari al 21,2%; nel 1882, anno di affermazione del protettorato inglese, erano saliti a 18.665, su una popolazione non indigena di 90.886, ovvero il 20,5%.
Emigrazione nel periodo coloniale. Emigrazione economica. La domanda di lavoro proveniente dall’Italia meridionale incontra l’offerta di lavoro dell’Africa settentrionale. Nel 1881 inizia il flusso di manodopera italiana: pescatori, minatori, contadini. Un fenomeno in continua crescita, con il protettorato francese, che si assistette ad un fortissimo aumento della presenza di proletari che trovarono impiego soprattutto nell’agricoltura, nell’edilizia, e nell’industria manifatturiera. Il protettorato costituisce uno dei maggiori fattori di spinta per l’emigrazione economica italiana, incentivata dai grandi lavori pubblici per le opere infrastrutturali, progettate dall’amministrazione coloniale francese: costruzione di porti, strade, ferrovie, edifici pubblici, ecc. A Tunisi, dopo il 1881 sorgono quartieri popolari interamente abitati da italiani: nella periferia nord di Tunisi, sorge La piccola Sicilia. Dalle 11 mila del 1881 si passò alle 30 mila presenze del 1891.
La politica di colonizzazione in Libia.Il governatore della Libia, Italo Balbo nel 1938 presentò a Mussolini un piano di colonizzazione demografica interna della Libia, che lo approvò. Questo prevedeva che entro il 1939, quindi nel giro di due anni, sarebbero emigrati in Libia trentamila coloni, per la maggior parte contadini destinati a coltivare e valorizzare economicamente la Libia. Nel 1938, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, partirono dall’Italia i primi ventimila coloni. Il loro viaggio fu organizzato attraverso una serie di tappe: selezione delle famiglia tra quelle che avevano fatto richiesta (spinte dalla propaganda coloniale fascista furono decine di migliaia le famiglie che fecero richiesta per trasferirsi in Libia, anche perché poi la propaganda nazionalista prima e fascista poi aveva sempre dipinto i territori libici come fertili, coltivabili ed estremamente redditizi dal punti di vista economico), treni dalle località di origine verso i tre porti di Genova (regioni settentrionali), Napoli (regioni centrali e meridionali) e Siracusa (Sicilia), dopo l’imbarco le navi si diressero verso la Libia in convoglio. Secondo la propaganda fascista, aspetto che qui si vuole sottolineare non si trattava di emigrazione, o di un ulteriore episodio della lunga vicenda dell’emigrazione italiana, bensì di italiani che andavano a popolare terra italiana dal momento in cui la Libia, poco prima che i ventimila partissero, il 25 ottobre del 1938 era stata proclamata territorio nazionale. La politica del fascismo del resto era antimigratoria e uno degli obiettivi della politica coloniale fascista, era proprio quello di dirigere l’emigrazione italiana diretta all’estero verso le colonie italiane.
(Corriere della sera, p. 44). La migrazione dei ventimila venne così presentata dai giornali italiani come l’esatto contrario di tutto ciò che era stata l’emigrazione sofferta fino ad allora da quanti partivano alla ricerca di condizioni di vita ce l’Italia non poteva offrire: non più un evento triste quindi, ma un’avventura eccitante (Corriere della Sera, p. 47). Realtà diversa.
Attualmente, al 2007, gli italiani residenti in Africa, secondo i dati dell’Aire, sono 48.233, pari ad appena l’1,4% dei connazionali residenti all’estero, precedendo solo gli italiani residenti in Asia che nel 2007 rappresentavano lo 0,7% (26.670) del totale, e preceduti anche dagli italiani residenti in Oceania, pari al 3,3% del totale (119.483). Nulla di paragonabile ai 2.043.998 italiani presenti in Europa, il 57,3%, e ai 1.330.148 in America, corrispondenti al 37,3%. La comunità più numerosa è quella sudafricana – 27.968 italiani, ossia il 57,98% – seguono quella egiziana, 3.216 (6,66%), quella Tunisina, 2.486 (5,15%), marocchina 1.607 (3,33%), quella presente in Kenya, 1.634 (3,38%) e in Etiopia, 1.272 (2,63%) italiani.