La nuova emigrazione degli anni cinquanta e sessanta
Nel secondo dopoguerra l’emigrazione italiana verso il Brasile registra nuovamente un consistente saldo positivo. Nel 1946 l’emigrazione è appena pari a 603 unità (contro 97 rimpatri), ma già l’anno successivo varca le 4.000 (contro 1.142 rimpatri) e nel 1951 le 9.000 (contro poco più di 2.000 rimpatri). Nel frattempo è risolto il contenzioso tra Italia e Brasile sui beni sequestrati a cittadini italiani durante la guerra e nell’accordo ratificato a Rio de Janeiro l’8 settembre 1949 è prevista la costituzione di una compagnia di colonizzazione e immigrazione mista, finanziata dall’Italia utilizzando anche i capitali appena sbloccati in Brasile. Nel 1952-1954 partono dalla Penisola rispettivamente 17.026, 14.328 e 12.949 emigranti, mentre sommando i dati dei tre anni i rimpatri non superano complessivamente le 10.000 unità. Il movimento delle partenze inizia a scendere dal 1955 (8.523 emigranti contro 2.592 rientri), ma si mantiene sopra le 1.000 unità sino al 1962, quando, però, i rientri sono 1.477. Nel corso dei restanti anni sessanta il saldo migratorio è sempre negativo e le partenze dall’Italia sono inferiori al migliaio. Questa cifra è nuovamente superata soltanto alla metà degli anni settanta, quando il saldo migratorio torna brevemente attivo.
Nel secondo dopoguerra il Brasile è il terzo polo d’attrazione latino-americano, preceduto da Argentina e Venezuela, per gli emigrati italiani. Tuttavia la comunità italo-brasiliana non riesce a rimpinguare realmente i propri effettivi. Dal censimento del 1950 risultano 44.678 italiani naturalizzati e 197.659 immigrati con il passaporto italiano. I tre quarti di questa presenza sono concentrati nello stato di San Paolo, il restante quarto si divide tra distretto federale, Rio Grande do Sul, Minas Gerais e Paraná. Dieci anni dopo la percentuale è più o meno la stessa, anche se l’età della popolazione di origine italiana è lievemente diminuita, pur restando comunque preponderanti gli ultra-cinquantenni.
Di fatto la nuova ondata immigratoria non ottiene grandi risultati, anche perché fallisce il tentativo di riavviare la colonizzazione agricola. La disorganizzazione dello stato brasiliana e la durezza delle condizioni di vita nelle fazendas o sulla frontiera impediscono infatti di portare a buon fine qualsiasi sforzo. Gli unici flussi immigratori che quindi funzionano sono quelli legati ai settori industriali e commerciali e al ricongiungimento dei nuclei familiari. L’esperienza migratoria è comunque assai meno lucrativa che nel passato e le fughe verso l’Italia sono numerose.
In questo fallimento, che non esclude ovviamente casi di riuscita individuale, giocano anche le divisioni all’interno della comunità. Ai contrasti ormai incancreniti tra antifascisti e fascisti (questi sono tra l’altro rafforzati dai molti che hanno abbandonato l’Italia non appena finita la guerra per evitare ritorsioni e hanno cercato una nuova patria nell’America Latina) si aggiungono quelli fra i nuovi e i vecchi emigrati. I primi non credono nei valori dei secondi e soprattutto sono emigrati per fare fortuna rapidamente, non hanno quindi intenzione di cedere a ricatti occupazionali e vogliono strappare subito le migliori condizioni possibili di lavoro. Inoltre non aderiscono alle associazioni dei vecchi, considerate avanzi di un’epoca ormai scomparsa, soprattutto quelle a carattere più campanilistico. In cambio le vecchie associazioni assistenziali non si preoccupano di chi è appena arrivato e in molti casi si rifiutano persino di soccorrerlo. Gli unici momenti di coesione tra vecchi e nuovi, ma non senza contrasti, sono legati ad iniziative umanitarie a favore dell’Italia, come la raccolta di fondi per le vittime dell’alluvione nel Polesine.
D’altra parte l’inserimento nel Brasile dei nuovi arrivati è osteggiato non soltanto dalle difficoltà economiche, ché in fondo il paese, anche nei suoi momenti peggiori, è comunque considerato di grandi potenzialità e quindi gli immigrati non si spaventano per le ricorrenti crisi, ma anche e soprattutto da quello politico. Nel 1950 Vargas è rieletto presidente e lancia una serie di piani di sviluppo, che, però, non decollano. Quattro anni dopo si suicida, aprendo un nuovo periodo di grande confusione. Nell’agosto del 1961, per esempio, Janio Quadros, eletto neanche un anno prima, si dimette, dichiarando che le forze della reazione gli impediscono di intervenire in qualsiasi decisione importante. Nel 1964 infine le forze armate depongono il presidente João Goulart (già vice di Quadros), accusandolo di simpatizzare con i comunisti, e aprono una vera e propria fase dittatoriale.
I rivolgimenti politici brasiliani e il tipo di brutale sviluppo, imposto al paese dalle multinazionali a capitale americano ed europeo o da un ceto capitalistico di scarsissima sensibilità sociale, hanno certamente influenzato la natura dell’immigrazione italiana. Negli anni sessanta non arrivano più contadini alla ricerca di terra, ma artigiani e operai specializzati che vogliono far fortuna nel giro di pochi anni e rientrare al proprio paese. Nel decennio successivo l’immigrazione è ancora più qualificata e a breve termine, poiché è direttamente collegata ai contratti firmati dalle imprese italiane, che operano in Brasile.
La comunità italiana vera e propria va quindi verso all’estinzione: già nel censimento del 1980 gli italiani in Brasile risultano soltanto 108.790, di contro, però, a una popolazione di origine italiana (lontana o vicina) che potrebbe raggiungere i 7-8 milioni. Nel caso di questi ultimi i valori e le tradizioni italiane non sono state dimenticate, ma sono fortemente influenzate dalle esperienze americane e hanno dato vita a una cultura etnica ormai lontana dall’antica madrepatria, anche se non l’ha scordata.