In viaggio lungo le rotte del grano. La “comunità” napoletana ad Alessandria d’Egitto nella prima metà del XIX secolo
1. Introduzione
La pubblicazione di diversi studi che rivalutano l’importanza dell’emigrazione in epoca moderna costituisce sicuramente un passo avanti nella conoscenza dei fenomeni migratori. La mancanza di una prospettiva di lungo periodo è tuttavia ancora oggi una grave lacuna nella storiografia italiana ed europea. Come ha sottolineato J. Klaus Bade, una visione di insieme della mobilità del Vecchio Continente permetterebbe di analizzare fenomeni già conclusi e conoscere “le linee di sviluppo al termine delle quali stanno i problemi del presente”1.
Nel caso più particolare dell’Italia, come è stato recentemente notato, l’emigrazione che ha interessato la penisola tra il 1870 e il 1970 può essere considerata “parte di un fenomeno di lunghissimo periodo” 2. Nonostante questo suggerimento, l’analisi della mobilità italiana presenta ancora oggi problematiche irrisolte, legate in prevalenza a un’eccessiva frammentazione degli studi, alla presenza di stereotipi ricollegabili alla scarsa conoscenza del fenomeno, all’attenzione concentrata sull’emigrazione di fine Ottocento e sulle mete transoceaniche.
Non da ultimo, le ricerche essenzialmente microregionali e concentrate sulle aree di partenze mettono in secondo piano “le vicende dei migranti nel punto di arrivo”, quello che Devoto ha definito l’“itinerario esterno” di chi abbandonava la patria e si dirigeva verso mete lontane3. Eppure l’Italia emigrava anche nell’età moderna ed era essa stessa attraversata da un flusso incessante di artisti, mercanti, girovaghi. Immersa nel Mediterraneo, la Penisola, proprio in virtù della sua collocazione geografica, era un importante punto di snodo per gli scambi commerciali e “umani” nel grande bacino interno, un mare che diventava uno spazio di mobilità sociale dove le rotte commerciali finivano per essere corsie preferenziali degli spostamenti della popolazione.
Le partenze e gli arrivi, concentrati nei porti dell’area mediterranea, permettono di aprire nuove prospettive sulla storia dei flussi migratori preunitari e portano a rivalutare quelle che recentemente sono state definite le “città-porto”, osservatori privilegiati per precisare i meccanismi di mobilità e censimento degli emigranti, luoghi di mancate integrazioni e di convivenza tra diverse realtà, ma anche arene “di forme di acculturazione nel senso più ampio della parola” 4.
I porti apparivano caratterizzati da forme di organizzazione interna, dai quartieri, città nelle città, connotati in base all’appartenenza a una generica “nazione”, come nel caso del rione e della via Italiana a Odessa, di quello francese, arabo, turco ad Alessandria d’Egitto. Erano caratterizzati anche da una professione, come l’area della dogana, che raccoglieva tutti gli addetti al settore marittimo, costellato di ritrovi di fortuna e di meretrici, ma anche da uno status sociale, soprattutto nella suddivisione tra quartieri ricchi e poveri, i primi posti quasi sempre al centro della città, i secondi in posizione periferica, perché accoglievano gli ospedali, le prigioni, gli ospizi.
Dalle ragioni del commercio, motore della vita mediterranea, alle ragioni dell’emigrazione il passo è breve5. La presenza di consolati, la politica dei trattati, le leggi di navigazione e l’avvio di politiche liberiste soprattutto a partire dagli anni Venti dell’Ottocento, aiutano a delineare un quadro in cui il Mediterraneo va letto come un mare in continuo movimento, non semplice e astratta entità naturale, ma un meccanismo sempre mosso da uomini, essenziale nella vita degli Stati che vi si affacciavano.
Tra questi, il regno di Napoli assunse fin dall’età moderna un ruolo strategico, perché si presentava come il prolungamento di una Penisola percepita all’estero come geograficamente “italiana”. Tra il 1815 e il 1860, l’analisi delle attività legate al commercio napoletano porta a rivalutare il ruolo di una emigrazione non certo fatta di grandi numeri, ma comunque di ampio interesse per comprendere i meccanismi e i percorsi di adattamento e di integrazione e più in generale il ruolo svolto dalle diverse realtà italiane preunitarie nel processo di mobilità socioeconomica europea.
Sui bastimenti napoletani che partivano alla volta di Odessa, Marsiglia, Alessandria d’Egitto, Algeri, Ragusa, Malta, Salonicco, Costantinopoli, Smirne, Brãila, Alessandretta, Galatz, Jaffa, Salonicco, Scio, l’isola Cerigo, Corfù e Calamata, non c’erano solo marinai, mercanti e sparuti “apripista”, ma anche agenti di commercio, professori di musica, maestri e attori di teatro, cantanti, medici, librai, negozianti, pizzicagnoli, interpreti, insegnanti di lingua italiana, impiegati, facchini, pittori, stivatori, panettieri, parrucchieri, scritturali, banchieri, religiosi, avvocati, meccanici, falegnami e possidenti, esuli e vagabondi.
Si tratta di una mobilità che è ancora sottovalutata dalla storiografia, analizzata alla luce del rapporto dualistico tra “vecchia emigrazione, di mestiere e settentrionale, e nuova emigrazione di massa di fine Ottocento, con bassa qualificazione e prevalentemente meridionale” 6. La presenza di napoletani sulle coste del Mediterraneo nella prima metà dell’Ottocento appare molto più consistente di quanto si possa pensare e in questo senso Alessandria d’Egitto si rivela un importante case study, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con le Due Sicilie.
Dalla lettura delle numerose relazioni consolari nell’Archivio di Stato di Napoli emerge una realtà molto variegata che permette di rivalutare la presenza di “regnicoli” ad Alessandria, dove spesso si insediavano stabilmente tramandandosi le attività lavorative7. Si trattava di “colonie” all’estero perfettamente integrate o spesso emarginate, di individui che operavano un processo di identificazione o contrapposizione mai statico, che li portava a connotarsi a seconda delle comunità di arrivo, attraverso la religione, la sudditanza, il legame con la patria, l’estrazione sociale, l’appartenenza all’Europa o all’area identificata come geograficamente “italiana”.
2. L’emigrazione ad Alessandria d’Egitto
Da una statistica sui rapporti igienici di Alessandria nel 1833, pubblicata su “Le Moniteur Égyptien”, il porto egiziano ospitava 4.886 individui europei che erano considerati generalmente negligenti a fornire cifre esatte sulla loro presenza ed erano divisi in 3.000 inglesi, maltesi e ionici, 300 francesi, 120 tra levantini, algerini, romani, svizzeri e tedeschi, posti sotto la protezione francese, 400 greci, 500 toscani, 150 napoletani e 70 sardi8.
La mobilità nel Mediterraneo era del resto una caratteristica strutturale dei paesi rivieraschi e soprattutto a partire dal biennio 1815-16, con l’intensificarsi delle attività commerciali, anche l’emigrazione in Egitto aveva subito una notevole impennata9. Il flusso maggiore di europei, come risulta dalle relazioni consolari, si era avuto nel 1817, quando molti “artefici” o “artisti” avevano raggiunto le sponde nordafricane, per lo più impiegati dal governo come manodopera nelle fabbriche, soprattutto al Cairo10. Nel gennaio 1818 erano giunti ad Alessandria “fabbricatori di varie specie, e particolarmente di setaioli, e questi ultimi la maggior parte fiorentini”, ma anche agricoltori provenienti dalla Turchia, dalla Francia e dalla Grecia, a cui erano state concesse piantagioni rispettivamente di semenze, frutta e cotone11.
Nel 1837 aveva anche ripreso a funzionare la fabbrica di vetri e cristalli di Alessandria, sotto la direzione di due negozianti greci stabiliti nella città e di un capo maestro boemo, con tredici fabbricanti fra tedeschi e italiani e nello stesso periodo era stata aperta in Rossetto una conceria di pelli “all’uso francese”, sotto la direzione di un levantino e con la collaborazione di maestri “fatti espressamente venire da Marsilia e Livorno” 12.
La presenza di emigranti provenienti dal Vecchio Continente e diretti ad Alessandria era quindi elevata, anche se spesso si avventuravano nel porto “un gran numero d’europei di bassa classe”, per la maggior parte maltesi, ionici e toscani, che “attirati dalle fabbriche, e chi in cerca di miglior sorte”, alimentavano il problema del vagabondaggio e della delinquenza13.
Nel caso specifico del regno di Napoli, i rapporti commerciali con Alessandria si erano intensificati già a partire dalla seconda metà del Settecento e il porto egiziano si era posto come punto strategico, una sorta di raccordo tra Occidente e Levante, tra il Mediterraneo e l’entroterra africano, soprattutto in relazione all’esportazione di grano e più in generale di cereali, compreso l’orzo e il granone, di cotone makò e di fave14.
Proprio la ripresa del commercio aveva alimentato le partenze di napoletani diretti sulle coste egiziane, non solo mercanti, marinai e vagabondi, ma anche avvocati, ingegneri e architetti, questi ultimi addetti al prosciugamento delle paludi e alla costruzione di strade ferrate, ma soprattutto emigranti che si arruolavano presso il governo egiziano e attori e cantanti che facevano riferimento al teatro della città. In particolare, la struttura era stata gestita per un lungo periodo dall’impresario napoletano Luigi Siri, per cui cantanti e artisti del regno erano spesso diretti ad Alessandria in occasione di rappresentazione in lingua italiana15.
Dal punto di vista dell’emigrazione “militare”, tra il 1815 e il 1860 numerosi napoletani avevano ricoperto incarichi più o meno rilevanti presso il governo locale. Si trattava di istruttori, ma anche di medici impiegati presso ospedali militari, molti dei quali erano arrivati ad Alessandria già durante l’occupazione napoleonica16. Erano soprattutto i mercanti a raggiungere Alessandria, spinti dal commercio e spesso non solo di passaggio nel porto egiziano, come dimostrano alcuni casi interessanti di piccoli imprenditori con un ruolo predominante nella vita della città.
I commercianti erano solitamente istruiti, come si apprende nei verbali delle cause civili o di altri atti di cancelleria17, ad esempio Domenico Piazzi, commerciante di grano, e Francesco Ardizzoni, che aveva una società con il fratello Tommaso, erano diventati giudici assessori presso il consolato18. Più in generale i commercianti erano considerati una classe elitaria e intervenivano anche nelle questioni più delicate che riguardavano la vita pubblica della città.
Due casi di napoletani stabiliti ad Alessandria sono sicuramente interessanti. Demetrio Draghi e Giovanni Musco, entrambi tipografi, erano arrivati nel porto esercitando diversi mestieri. Draghi aveva iniziato come distributore di manifesti portati dai bastimenti nel 1823 e, nel 1827, aveva una sua tipografia; Musco aveva costruito una piccola impresa dove venivano stampati i più importanti fogli commerciali, dove lavoravano diversi impiegati e si eseguivano lavori tipografici di ogni genere in italiano, francese, inglese, greco, arabo, turco e persiano19. La stessa tipografia non era esclusivamente ad uso della comunità napoletana, come invece per quella inglese a Napoli descritta dalla Dawes, segno di integrazione, ma anche di spirito imprenditoriale20.
Tra le altre figure che caratterizzavano l’emigrazione napoletana ad Alessandria, c’erano gli artigiani, cioè quelli che facevano della propria arte un mestiere. Si trattava di napoletani che chiedevano al console di stabilirsi in Alessandria per aprire negozi di vestiti, di oggetti di moda e di tessuti o piccoli empori e botteghe21. C’erano diversi barbieri, ma anche qualche calzolaio, “aramaiuoli”, bottari, lavoratori di stagno, fabbri, tornitori, fonditori, ombrellai, vetrai e pittori. Queste ultime professioni lambivano spesso il confine della precarietà e numerosi erano i napoletani partiti in cerca di fortuna che poi si ritrovavano a mendicare o a esercitare i più svariati mestieri, in un panorama di mobilità sociale e di adattamento molto variegato22.
La casistica mostra un’interessante propensione alla flessibilità e apre sicuramente un orizzonte sulla figura dell’emigrante come un individuo capace di superare le reti tradizionali anche di mestiere, per adattarsi alle diverse esigenze rinunciando al ritorno in patria. Alcune storie sono singolari e mostrano la flessibilità dell’emigrante non solo ad abbandonare la propria terra, ma ad adattarsi a lavori completamente diversi da quelli di partenza. Il caso più emblematico è quello di Antonino Zagami, partito da Messina come tenore per il teatro di Alessandria, nell’aprile 1855, diventato sarto e trasferitosi successivamente al Cairo23. Anche il caso di Concetto Rametta è indicativo, non solo per la storia di un emigrante partito da Siracusa in cerca di fortuna, ma per dedurre le condizioni di vita di quanti si dedicavano all’arte della musica, senza mischiarsi ai suonatori ambulanti. Rametta compare spesso e per diversi motivi nei documenti consolari. Come si legge in una relazione del settembre 1849, era arrivato da Malta insieme ad altri due napoletani, era stato assunto presso il teatro, dove era stato scritturale e suonatore di violino. Si trattava di una persona istruita, come si deduce dai libri inventariati presso la sua abitazione anche dedito alla vita mondana24.
Anche l’emigrazione femminile era diffusa ad Alessandria soprattutto in relazione al teatro presente nella città, ma partivano anche cameriere, sarte, levatrici e ricamatrici, alcune per ricongiungersi al marito che era già emigrato, altre per cercare fortuna.
Le città esportatrici di uomini erano Napoli, con i vari porti limitrofi, tra cui Castellammare di Stabia, ma anche Massa Lubrense, Sorrento, Procida e Ischia, mentre sulla costa ionico-adriatica i napoletani provenivano soprattutto da Bari, Brindisi e Trani, ma anche Reggio Calabria e l’area del potentino. Terra di Lavoro rimaneva invece a margine, con pochi marinai partiti dal porto di Gaeta e i girovaghi del circondario di Sora. Anche in questo caso, come per il commercio, era soprattutto la Sicilia a emigrare, la Sicilia che rispecchiava la tendenza naturale delle isole a porsi come “esportatrici di uomini”, il modo più comune “per mescolarsi al mondo” 25.
Un’emigrazione che si basava più sui percorsi individuali che sui grandi numeri, per ragioni legate alla carenza di statistiche e di riferimenti ufficiali, ma soprattutto all’eccessiva mobilità degli emigranti e allo scambio di passaporti, spesso falsi, alla clandestinità di alcuni flussi, alla presenza di “protetti” e al cospicuo numero di regi sudditi che possedevano passaporti di altri Stati e solo dopo diversi anni, in alcuni casi, chiedevano la sudditanza napoletana. Un’emigrazione che era anche spesso a catena e divisa per specializzazione, come dimostra l’interessante casistica dei palermitani addetti ai lavori di falegnameria, dei fabbri di Messina, dei corallari di Torre del Greco, dei più noti musicanti di Viggiano, dei ramai del distretto di Sala, degli artisti di Napoli e della Sicilia, ed era formata in maniera irrilevante di braccianti, contrariamente alle caratteristiche delle migrazioni di fine Ottocento.
Motivati da spirito di avventura, da reali condizioni di precarietà, dal commercio, spesso da uno spiccato interesse “imprenditoriale”, ma anche da reti tradizionali di mobilità, i napoletani all’estero decidevano in numerose occasioni di trasferirsi definitivamente. Ne è testimonianza la successiva mobilità verso le aree del Levante e dell’Africa, secondo Corti non causata da fattori economici ma incanalata “lungo traiettorie e percorsi tracciati da relazioni sociali e storiche altrettanto sedimentate” 26, nonché la creazione di strutture e forme di socialità nelle aree di arrivo, come scuole, cimiteri, ospedali, giornali, enti e associazioni, la conservazione di forme tradizionali di usi e approcci alla quotidianità ereditati dal paese di origine, la presenza di emigrati provenienti dalle diverse aree della penisola italiana nel periodo successivo all’Unità.
3. La “comunità” napoletana ad Alessandria d’Egitto: un “sistema aperto”?
La storia delle comunità all’estero in epoca preunitaria non ha trovato ancora la giusta collocazione e gli studi che riguardano la vita degli emigrati nella prima metà del XIX secolo sono ancora carenti e frammentari. Il già citato volume di Dawes sugli inglesi a Napoli e il saggio di Caglioti sull’associazionismo nella capitale, evidenziano alcuni tratti caratteristici della comunità britannica emigrata nel regno, tra cui una spiccata endogamia e soprattutto l’elaborazione di un sistema chiuso, a tratti piegato su se stesso, con una “socialità totalmente indipendente sia palese sia segreta” 27.
Come emerge da questi studi, si tratta di gruppi ben circoscritti, con le proprie istituzioni e un profondo senso di appartenenza “religiosa”, con una tipologia di identificazione asfittica, in cui gli emigrati si integravano spesso solo in rapporto alle attività lavorative e agli scambi commerciali, penalizzati anche dalla professione di una religione diversa da quella delle aree di arrivo e da una chiusura ai processi di integrazione che celava anche la presa di coscienza di una cultura e di una mentalità diversi da quelli di appartenenza.
Nel caso di Alessandria, così come in altri porti del Mediterraneo, le comunità che appaiono simili a quella inglese a Napoli, sono quella ebrea e quella ellenica, gruppi ben inseriti dal punto di vista commerciale ma spesso estranei alle vicende sociali della città28. Anche quella napoletana era una “colonia straniera”, come ha osservato Dawes, cioè fortemente legata al fattore commerciale29, ma la dinamicità della comunità appare evidente nelle relazioni consolari.
Formata, nel 1833, da 150 individui, risiedeva per la maggior parte nel quartiere europeo, dal momento che la città risultava divisa in cinque quartieri: c’erano anche quello centrale, quello della dogana, il quartiere turco e quello franco30. Il numero dei napoletani potrebbe sembrare a prima vista inconsistente, ma è invece rilevante se rapportato alle altre comunità: i napoletani erano più numerosi degli spagnoli, dei sardi e dei protetti francesi, in numero inferiore solo ai nuclei greco, inglese, francese e toscano, e la metà del nucleo cosiddetto “italiano”, inglobato in quello austriaco31.
Per quanto riguarda l’adattamento e l’integrazione, dalle relazioni consolari emerge una certa predisposizione dei napoletani alla mobilità, un possibile orizzonte “aperto” che si manifesta nel cambiamento dei mestieri, delle aspettative e degli stili di vita. Il matrimonio, considerato un atto importante da esplicarsi con rito religioso, non era praticato esclusivamente tra connazionali come nella comunità inglese a Napoli: erano frequenti anche le unioni miste e persino il concubinato, a volte con donne del posto32.
Anche l’associazionismo ufficiale non era limitato ai connazionali, mentre era forte il sentimento di solidarietà fra sudditi del regno. Ben integrati nella più grande famiglia degli europei, i napoletani avevano dato vita ad una rete di strutture che comunque assicuravano un legame tra gli emigrati, esplicato attraverso una manifesta socialità e anche una meno percettibile rete di solidarietà intracomunitaria.
L’assistenza nei porti era una prerogativa del console, della Chiesa e soprattutto della comunità stessa, che si connotava proprio attraverso una fitta rete di iniziative private a sostegno dei meno abbienti. A partire dal 1850, operava ad Alessandria una Società di soccorso e beneficenza per gli italiani, sorta per assistere i disoccupati italiani in seguito alla sospensione dei lavori pubblici da parte del governo egiziano, e per arginare la massiccia ondata di emigrati esuli dopo i moti del ’4833.
Le iniziative del console e della stessa società di mutuo soccorso si incrociavano con la presenza di un circuito di beneficenza tra gli stessi sudditi. Rientravano tra le iniziative private i prestiti, i contributi per le tumulazioni, l’ospitalità gratuita o ripagata con affitti minimi34. Da alcune relazioni consolari, si evince che nel consolato esisteva un ufficio che raccoglieva ammende per i poveri, in cui comparivano come benefattori anche commercianti napoletani35.
La vita della comunità passava anche attraverso un sistema di relazioni che è soprattutto storia del quotidiano e di non protagonisti36. Per Alessandria d’Egitto è stata fondamentale la presenza di una serie di cause civili, discusse alla presenza del console, che oltre a fornire indirettamente o direttamente notizie sui napoletani, hanno permesso di ricostruire atteggiamenti e mentalità dei singoli, osservati mentre vivevano nella comunità o quando erano costretti ad affrontare problematiche legate alla quotidianità.
Gli esempi restituiscono un quadro significativo e a volte persino pittoresco del vissuto di una comunità nella comunità, soggetta a tentativi di integrazione difficile, a conflitti e tensioni, generati dalle locazioni di case o da ingiurie, dai casi di rapina fino alla lite per un presunto difetto della giumenta venduta per trainare la carrozza37.
La famiglia Buonocore, ad esempio, emerge a tratti nei documenti d’archivio e, proprio per la continua citazione dei suoi membri, diventa un campo di osservazione sicuramente importante sulla vita della comunità ad Alessandria, perché presenta un esempio non solo di nucleo emigrato, ma anche di mancata integrazione e di disagi familiari. Giosuè Buonocore era un arrotino giunto ad Alessandria con la moglie Rosa, quattro figli e tre figlie, con passaporto toscano, rimasto per vari anni sotto la protezione toscana38. Secondo una notizia del 1835 proveniva da Conca, ma più probabilmente era originario di Procida, dal momento che tutti i figli sono schedati dal console come provenienti da quell’isola. Tutta la famiglia aveva sempre avuto una condotta riprovevole.
Gaetano, il figlio maggiore, aveva ucciso un arabo nel 1838 e feritone un altro: era stato quindi allontanato dall’Egitto e rispedito a Napoli39. Antonio compare in una lista di perturbatori della quiete pubblica nel 1849, quando era censito dal console come sarto. Lo ritroviamo in una causa come debitore verso un commerciante, per aver comprato oggetti di arredo senza averli pagati, conosciuto come pubblico mediatore di prostitute, “specialmente colle proprie sorelle germane”, e si era reso artefice di alcuni reati, tra cui il furto di alcune gioie di valore alla sorella, insieme alla madre40.
Cristofaro Buonocore, in seguito a una serie di reclami e querele a causa di delitti, minacce di morte e ingiurie, era stato arrestato ed era fuggito a Parigi senza dare più sue notizie41. Le figlie di Giosuè avevano seguito la strada della madre, che era stata prostituta e in età matura si era ridotta “a favorire colla sua mediazione la prostituzione di tutte le figlie”, definite appunto tutte “pubbliche meretrici”. La prima, Michelina, era riuscita a sposare un austriaco, Carmela un francese, anche se con la sua condotta scandalosa aveva portato alla disperazione il marito, morto prematuramente. Volendo sposare in seconde nozze un ragazzo perbene, il padre di questi aveva ottenuto che fosse espulsa dal paese. Ottenuto un passaporto siciliano, era partita per l’isola. Luigia (altrove Luisa) Buonocore era stata invece arrestata nel 1851 per aver minacciato di morte il convivente, Raffaele Ventrella, da cui aveva avuto due figli42. La famiglia Buonocore, in occasione dell’arresto di Luigia, si era resa protagonista di un episodio ritenuto dal console singolare. Mentre protestava sotto le carceri, le si erano uniti molti vagabondi che avevano formato una turba di persone e minacciato una sommossa. L’anno precedente troviamo ancora Luigia in una citazione a giudizio contro un tal Cesare Venzi, suddito toscano, per averla ripetutamente offesa e percossa senza motivo43.
L’ultimo aspetto interessante è sicuramente legato alla socialità degli emigrati ad Alessandria. Non abbiamo notizia della presenza di club o circoli, ma il teatro italiano era sicuramente un importante punto di incontro dell’élite “italiana”. Gestito per un lungo periodo dall’impresario napoletano Luigi Siri, vi si rappresentavano opere serie, semiserie, buffe, cantate, anche in dialetto napoletano44.
Nei documenti, si ritrova spesso un Caffè d’Europa, dove solitamente si incontravano gli europei e dove lavorava anche un regio suddito, Vincenzo Gatrana, come gelatiere. Pure il napoletano Girolamo Stanga, di Santa Maria Capua Vetere, aveva una bottega da caffè sita in Strada Nuova, ceduta nel 1852 a un suddito inglese. Nel piccolo esercizio commerciale si giocava a biliardo e dall’inventario della cessione si ricava che era un luogo frequentato. Poteva contenere una quarantina di clienti a sedere, dal momento che vi erano qualche scanno, tre dozzine di sedie e sette tavolini, vi si vendevano dolci, come si deduce dalla presenza di una vetrinetta destinata a tal scopo, ed era una bottega ben curata, con diciassette quadri e quattro lumi, di cui due da muro e i rimanenti a pompa. Nel caffè si giocava anche a carte e a domino, si vendevano sigari, acquavite, sciroppi diversi, rum, brandy e vino racinato45.
Tra le altre attività praticate dai regi sudditi c’era anche quella della caccia46 e i napoletani che vivevano in condizioni agiate condividevano pratiche di vita borghese, come i festeggiamenti in onore di compleanni o onomastici, dove si invitavano suonatori di violini e pianoforti47. La comunità si riuniva per solennizzare i grandi avvenimenti legati alla casa reale, tra cui gli anniversari del re di Napoli, festeggiati con la Messa solenne con Te Deum ed esposizione, un rinfresco dato a tutti i rappresentanti europei e gli spari di mortaretti48.
Certo nella prima metà del secolo non era forte il senso di appartenenza ad una generica e ideale Little Italy intesa in termini “di formazione sociale con una propria forma di organizzazione interna legata ad una dimensione spaziale, geografica, in cui questa dimensione tuttavia non assume solo una funzione descrittiva ma svolge un ruolo autonomo, caratterizzante l’intero gruppo ad essa collegata” 49. Piuttosto l’universo degli emigrati all’estero, napoletani ma anche più genericamente italiani, risentiva della frammentazione regionale e soprattutto del ruolo stesso delle città-porto, tolleranti e propense all’integrazione, per cui non era sempre forte la necessità di instaurare legami in chiave nazionale.
In questo senso, la comunità della prima metà del XIX secolo diviene il luogo privilegiato dei rapporti sociali, della solidarietà e dei legami, un luogo in cui l’appartenenza cambia a seconda delle situazioni, può riguardare l’essere napoletano, italiano, cattolico, europeo e persino connotarsi attraverso il mestiere.
4. I luoghi dell’identità: europei o cattolici?
Le recenti tendenze storiografiche rivalutano l’identità degli emigranti come un percorso di integrazione fatto di rotture e innovazioni dalle aree di partenze a quelle di arrivo, attraverso processi di emancipazione connotati dall’abbandono della propria comunità e delle origini, dal viaggio, dai rischi, dall’arrivo in luoghi dove l’integrazione era spesso ostacolata da culture diverse50.
Nel caso di Alessandria, il tentativo di seguire gli emigrati nei percorsi di adattamento ha fornito diverse chiavi di lettura e lasciato emergere molteplici sfumature, delineando interpretazioni spesso sfuggenti e aperte a diverse prospettive. I luoghi dell’identità spesso si sono moltiplicati e frammentati, diventando parte dell’emigrante a seconda del suo status, della capacità di adattamento, del mantenimento delle pratiche delle origini, diventando anche spesso aleatori e vaghi, come nel caso in cui prevalevano le ragioni del commercio, capaci di far superare il sentimento di “napoletanità” o di italianità. Aggiungiamo che vanno valutate anche le diverse esperienze, a seconda degli individui emigrati, per cui l’origine non pesava su tutti con le stesse modalità, né si manteneva uguale, ma aveva più o meno accentuati momenti di rottura col passato51.
Nel porto di Alessandria, si è presentata una vasta gamma di emigrati, con identità che si intrecciavano o si accavallavano, legate ai contesti e alle singole vicende degli emigranti, in cui si alternavano e spesso convivevano l’appartenenza all’Europa, all’Italia più geografica che nazionale e al regno. Si trattava di rappresentazioni soprattutto in chiave di “alterità”, di caratteristiche attraverso cui i gruppi si contraddistinguevano dagli altri gruppi, più che di esperienze elaborate in seno alle diverse comunità, fatte soprattutto di legami assistenziali, di relazioni spontanee e di una serie di fattori aggreganti, tra cui la religione.
In questo senso, ci è sembrato interessante individuare diversi fattori di aggregazione, mai completamente disgiunti ma spesso in forte coesione tra loro, che caratterizzano l’emigrazione ad Alessandria. Oltre alla connotazione in chiave di appartenenza al mondo europeo, fortemente sentita, a Napoli o all’Italia, anche la cattolicità con le sue strutture e le sue pratiche diviene un rilevante elemento di coesione, così come i luoghi dell’appartenenza sociale, se così possiamo definirli, quella serie di riti e modi di vivere che connotano ora i borghesi ora le classi popolari, alla ricerca di uno spazio identitario fatto di luoghi di socialità e prassi quotidiane.
La comunità napoletana ad Alessandria si sentiva soprattutto europea, perché innestata in una realtà completamente diversa per usi e costumi. Va letta in quest’ottica l’istituzione di un ospedale europeo, fortemente voluta dai consoli dei diversi Stati per arginare le frequenti epidemie di peste che avevano flagellato l’Egitto nel primo ventennio del XIX secolo, ma anche per ospitare chi era affetto da colera, vaiolo o da malattie meno pericolose e più frequenti52. Si trattava anche di una struttura dove trovavano occupazione per la maggior parte medici e infermieri provenienti dall’Europa, tra cui anche alcuni napoletani53. Un’altra iniziativa che aveva coinvolto gli Stati europei era stata l’istituzione di Comitati di vaccinazione d’Europa, per sconfiggere il vaiolo, come si legge in una relazione del 185954.
Il senso di appartenenza all’Europa era condiviso anche nei momenti di tensione tra le diverse comunità, quando si generava astio verso la colonia “europea” come veniva definita dai consoli. Era accaduto nell’agosto 1853, in occasione dello scoppio della guerra di Crimea55, ma più in generale l’intolleranza si legava alla presenza del fattore identitario religioso, per cui era forte la percezione che la presenza di europei favorisse la diffusione del cattolicesimo, del costume e delle abitudini europee56.
In particolare, il ruolo della Chiesa cattolica era molto importante all’interno delle città portuali. Gli emigranti trovavano, infatti, punti di riferimento essenziali nella presenza dei consolati, nella rete di connazionali già insediati più o meno stabilmente nelle aree di arrivo, ma anche nella chiese e negli istituti di beneficenza, a volte unici referenti in caso di necessità. E se la presenza di ordini religiosi era in grado di assicurare sistemi assistenziali regolati, è stato spesso sottovalutato il ruolo della Chiesa nella creazione di un’identità “dal basso”.
La quotidianità degli emigrati era anche caratterizzata da una religiosità mista a superstizioni, dai confini spesso confusi, fatta di riti e culti. In occasione delle epidemie, emerge la necessità di esorcizzare la paura dei contagi utilizzando lo strumento della preghiera. L’invocazione della Divina Provvidenza per la liberazione dalla peste fatta dal console Fantozzi rientra sicuramente tra le pratiche più frequenti della malattia vista come castigo divino. Nel marzo 1835 erano state fatte preghiere pubbliche nelle moschee per implorare misericordia d’essere liberati dal “male contagioso”, come veniva chiamata la peste, e in uno di quei luoghi di culto erano stati fatti sacrifici scannando bufali e distribuendone le carni e il pane in elemosina ai poveri57.
Come emerge da alcune relazioni, la comunità cattolica festeggiava ogni anno San Giovanni, il 23 e il 24 giugno, con “consueti fuochi, e giochi eseguiti nel quartiere franco” 58 e tutti i grandi avvenimenti sociali venivano solennizzati, quasi sempre con la pratica del ringraziamento attraverso il Te Deum. Era accaduto il 5 agosto 1853 per onorare Napoleone III59, ma anche per festeggiare gli anniversari della concessione dello Statuto albertino nella “colonia sarda” 60.
All’interno della comunità ottocentesca, la Chiesa costituiva un essenziale sottosistema grazie al ruolo di agente di mediazione e fattore di aggregazione. Nelle relazioni consolari emerge, spesso indirettamente, la codificazione di un’importante forma di appartenenza, che si concretizzava attraverso l’identità cattolica dei napoletani e più in generale degli italiani all’estero. Questa tendenza affiora soprattutto nelle aree in cui i cattolici erano costretti a interagire con altre religioni, come nell’impero russo e in quello ottomano.
Ad Alessandria c’era un cimitero cattolico ben distinto da quelli musulmani, posti fuori le cinta della città, ed era un importante punto di riferimento per la comunità. La maggioranza degli emigrati napoletani chiedeva di essere seppellito con rito cattolico61, e la pratica della sepoltura era un atto sacro, come dimostra il caso di Salvatore Assante, morto nel 1834, cui era stata negata l’inumazione nel cimitero cattolico, perché conviveva con una meretrice protestante. I frati del convento di Terra Santa erano stati costretti non solo dai consoli francesi e dal ceto commerciale ad acconsentire alla sepoltura, ma si erano anche scusati per l’accaduto, “visto che tutto il pubblico se ne risentì fortemente”, anche i copti, gli armeni e i patriarchi greci62.
Come emerge dai testamenti, gli emigrati napoletani lasciavano spesso parte dei loro beni alle istituzioni cattoliche. Si trattava di una pratica usuale, per cui il parroco, all’atto di porre l’estrema unzione o chiamato a testimoniare nella stesura del testamento, chiedeva se fosse intenzione del moribondo fare offerte alla chiese e agli ospedali del proprio paese o di Alessandria63.
Commettere atti contro la religione comportava spesso l’esclusione dalla comunità, come nel caso estremo delle abiure o in episodi minori. Il napoletano Domenico Pisani, cocchiere, era entrato ubriaco in Chiesa e aveva ingiuriato e offeso il parroco durante la messa di mezzanotte, mettendo disordine sull’altare64. La notizia aveva suscitato un certo scalpore, come anche il suicidio, nel 1852, di Giacomo Bonelli, nativo di Capuzzi, in provincia di Messina, servente presso una benestante spagnola. Si tratta di un caso di ateismo dichiarato, poco frequente nella comunità napoletana. In una lettera Bonelli con solo spiegava le motivazioni del suicidio, riconducibili ad una vita noiosa, ma anche le sue ultime volontà: desiderava essere buttato in mare e non seppellito, perché nella sua vita non aveva mai assistito a funzioni religiose, “anzi dal momento in cui ho avuto principio di ragione sempre ho odiato il Papaccio di Roma, sino all’ultimo pretaccio, considerandoli sempre come nemici del prossimo e della religione” 65.
Erano soprattutto le conversioni all’islamismo a essere considerate deplorevoli. I casi che compaiono sono sintomatici innanzi tutto di una mentalità e di atteggiamenti condivisi dalla comunità. È indicativo che un suddito che decideva di convertirsi fosse contattato non solo dal console, figura di primo piano per la comunità ma soprattutto funzionario, ma anche da altri regi sudditi, conoscenti o parenti che fossero66.
Oltre al convento cattolico dei Padri di Terra Santa, cui il console napoletano aveva donato una cospicua somma per la riedificazione67, abbiamo notizie di un Collegio delle Suore della Carità, dove venivano istruiti alcuni figli di napoletani emigrati68, mentre nella chiesa di Santa Caterina si accoglievano gli esposti69.
Quest’ultima istituzione era oggetto di disputa tra le potenze europee presenti nel Levante, ed in particolare sulle coste africane. Già nel 1821, in occasione del compleanno del re Ferdinando, il console napoletano Fantozzi aveva chiesto una funzione solenne con la celebrazione di una messa, il Te Deum e l’esposizione del Santissimo sacramento nella chiesa. Entrato nell’edificio, non aveva trovato né l’incenso né il libro dei Santi Vangeli, perché il console di Francia si era dichiarato “padrone assoluto dell’ospizio” e quindi si era risentito per la mancata richiesta del suo permesso.
La chiesa di Santa Caterina aveva una storia tutt’altro che francese, perché era appartenuta prima ai negozianti ex veneti, poi venduta ai padri gesuiti e a quelli di Terra Santa e si era sempre sostenuta con le elemosine di tutti i cattolici. Il complesso meccanismo di protezione di quelli che erano definiti i territori di missione cattolica, portavano la Francia ad essere effettivamente protettrice delle chiese nel Levante, ma era inappropriato l’uso esclusivo da parte francese.
Il vescovo di Fez, monsignor Perpetuo Guasco, aveva scritto al cardinal Franzoni, prefetto di Propaganda Fide in merito alla questione. Era intenzione della Santa Sede rendere la parrocchia indipendente, affinché si mantenesse con il sostentamento di tutte le potenze cattoliche, Austria, Spagna, Regno delle Due Sicilie, sardo e toscano, anche perché l’Austria aveva contribuito per più della metà all’edificazione della chiesa70.
La cattolicità, quindi, si poneva come un importante riferimento culturale, ma soprattutto un fattore aggregante in patria e fuori, quando i pochi elementi di continuità con l’origine diventavano per gli emigrati i valori e le tradizioni. In questo senso, “tra le righe” dei documenti ufficiali emerge un mondo fortemente permeato dalla presenza della Chiesa, non quella ufficiale, essenzialmente legata alla presenza missionaria, ma quella percepita e spesso alterata, quella degli individui che rimanevano legati più a forme tradizional-popolari che a norme ufficiali.
5. Riflessioni conclusive
È possibile instaurare un rapporto tra flussi commerciali e flussi migratori all’interno del Mediterraneo nella prima metà del XIX secolo? Il caso del regno delle Due Sicilie e di Alessandria d’Egitto è risultato emblematico. La creazione di nuclei più o meno stabili di napoletani nella città-porto egiziana ha confermato l’ipotesi di un’emigrazione precedente i flussi di fine secolo, che si differenziava per caratteristiche, spinte sociali ed economiche, ma che è comunque significativa nel quadro di una mobilità di lungo periodo della penisola italiana.
Come è emerso dalla ricerca, si trattava di movimenti di popolazione frammentari e disomogenei, non regolati da politiche governative, mossi tuttavia non solo dal dissenso politico o dal tentativo di migliorare le condizioni di vita precarie, ma anche dalle ragioni del commercio, dallo spirito d’avventura e dalla presenza di circuiti migratori consolidati che facilitavano le partenze dalle aree del regno.
Così, di fronte a movimenti non certo di massa come quelli di fine secolo e escludendo indagini spesso anonime, gli uomini finiscono per essere i protagonisti della vita delle città-porto, con i loro percorsi di rottura e integrazione.
Nonostante il difficile censimento dei napoletani ad Alessandria, è apparsa interessante l’osservazione della “comunità” formatasi nel porto egiziano, un gruppo di emigrati legato da relazioni più o meno evidenti, tra cui una rete di solidarietà privata o promossa dai consolati e dalla Chiesa, dalla condivisione di una serie di valori, tradizioni, forme di ritualismo, idee, usi e costumi ereditate dalle aree di provenienza, ma anche dalle reazioni di fronte a spaccature con le origini.
Tutta questa serie di fattori ha contribuito alla delineazione di un insieme di “identità” che convivevano e spesso si alternavano nella storia dei singoli, senza mai frammentarsi. Il sentirsi europei, cattolici e napoletani o il connotarsi in base al proprio status, sono stati i dati più significativi emersi all’interno della comunità napoletana ad Alessandria.
La presenza della Chiesa cattolica in particolare si è posta come un fattore identitario determinante, una Chiesa legata non solo a forme più o meno manifeste di evangelizzazione, ma inserita nel tessuto sociale della città attraverso i canali assistenziali e dell’istruzione.
Il contributo del cattolicesimo nella creazione di un’identità “dal basso”, che si manifestava attraverso la condivisione di riti e tradizioni capaci di fungere da collante per le comunità emigrate, non sembra aver trovato ancora la giusta considerazione in ambito storiografico, per una sorta di pregiudizio verso gli studi “religiosi”, spesso ancora confinati, in Italia, in ambiti ristretti e settari e per una predilezione per la storia della Chiesa ufficiale piuttosto che per una storia dell’influenza del cattolicesimo sulla cultura e sulla quotidianità degli individui.
Alla luce di queste osservazioni, le strade che si aprono di fronte allo studio dei flussi migratori italiani in età moderna sono numerose. Andrebbero infatti indagati il ruolo delle città-porto, i meccanismi e i percorsi di adattamento dell’emigrante nelle aree di arrivo, le ragioni che spingevano all’emigrazione, l’influenza del cattolicesimo, e più in generale la mobilità in un’area, quella mediterranea, che era stata il naturale sbocco economico e sociale della penisola italiana fino alla prima metà dell’Ottocento.
Note
10 Archivio di Stato, Napoli [d’ora in avanti ASN], Ministero degli Affari Esteri [d’ora in poi MAE], Alessandria d’Egitto, f. 2356.
20 Cfr. Barbara Dawes, I mercanti inglesi a Napoli dal 1815 al 1860, “Società e Storia”, 50, (1990), pp. 847-877, e La comunità inglese a Napoli nell’Ottocento e le sue istituzioni, Napoli, ESI, 1989.
39 Ibid., f. 2364.
50 Maurizio Gribaudi, Percorsi individuali ed evoluzione storica: quattro percorsi operai attraverso la Francia dell’Ottocento, in Migrazioni, a cura di Angiolina Arru, Josef Ehmer, Franco Ramella, “Quaderni Storici”, 106, 1 (2001), pp. 115-152, e Roberta Garruccio, Il comportamento economico delle minoranze, “Archivi e imprese”, 6 (1997), pp. 231-234.
51 M. Gribaudi, Percorsi individuali, cit., p. 116.
52 Esisteva già un ospedale greco. Cfr. ASN, MAE, Alessandria d’Egitto, ff. 2356, 2359 e 2361.
53 Ibid., f. 2368.
54 Ibid., f. 2369.
55 Ibid., f. 2368.
56 Ibid., ff. 2357, 2367 e 2368.
57 Ibid., f. 2363.
58 Ibid.
59 Ibid., f. 2368.
60 Ibid., f. 2369.
61 Ibid., f. 2363. In occasione della peste del 1835 anche i cimiteri musulmani si erano riempiti, al punto da seppellire oltre le due cinte e “precisamente sotto la colonna di Pompeo, eccettuando quelle famiglie che [h]anno dei cimiteri particolari, e rinchiusi di muri”.
62 ASN, MAE, Alessandria d’Egitto, f. 2364.
63 Ibid., f. 2368.
64 Ibid., f. 2369.
65 Ibid., f. 2368.
66 Si confronti il caso del napoletano Giovan Battista Aprile (ASN, MAE, Alessandria d’Egitto, f. 2356) e del siciliano Cosimo Angario (ibid., f. 2361).
67 Ibid., ff. 2363 e 2368.
68 Ibid.
69 Ibid., f. 7040.
70 Ibid., f. 2368.