Aristide Zolberg, A Nation by Design: Immigration Policy in the Fashioning of America (New York: Russell Sage Foundation, 2006).
L’ultimo libro di Aristide Zolberg rappresenta un contributo straordinario per tutti gli studiosi delle politiche immigratorie degli Stati Uniti. L’autore presenta un’analisi dettagliata ed approfondita delle politiche di gestione dell’immigrazione che gli Stati Uniti hanno adottato dalla fondazione della repubblica all’età contemporanea per seguire l’impatto che esse hanno avuto sulla creazione di un’immagine nazionale del paese. Il libro, primo nel suo genere, ripercorre e rivisita tutte e quattro le fasi in cui gli studiosi hanno tradizionalmente diviso il fenomeno migratorio verso gli Stati Uniti: la prima fase di cosiddetto laissez faire arriva fino al 1875, quando l’immigrazione non era regolata da nessuna legge; la seconda fase va dal 1875 al 1921, quando furono introdotte le prime sanzioni restrittive di tipo qualitativo sull’immigrazione; la terza fase copre il periodo dal 1921 al 1965 con leggi che stabilirono tetti numerici per limitare e controllare il flusso immigratorio; ed infine la quarta fase, dal 1965 ad oggi, in cui le leggi immigratorie favoriscono l’unificazione familiare e cercano di attrarre immigrati altamente specializzati o con qualifiche per lavori di cui c’è grande richiesta, ma contemporaneamente cercano di limitare il numero complessivo di immigrati che ogni anno entrano nel paese.
Per capire come gli americani hanno consapevolmente influenzato la creazione di una idea ben precisa di identità americana, Zolberg non si limita ad analizzare le leggi e gli statuti che specificamente hanno regolato l’immigrazione, ma studia anche quelle politiche e quelle pratiche che nel tempo hanno avuto un impatto sui flussi immigratori, pur non essendo leggi immigratorie. Il contributo più originale del libro è nella ricontestualizzazione della prima fase immigratoria. Zolberg sostiene che vi fossero tentativi di controllare chi e perchè arrivasse nel Nord America non solo prima del 1875, ma addirittura ben prima della guerra di indipendenza americana. Oltre alle violente proteste contro le tariffe che la corona britannica voleva imporre, i coloni americani, infatti, criticarono l’incapacità del governo britannico di controllare efficacemente i flussi migratori di entrata e di uscita dalle colonie. Non solo, Zolberg rivela che gli stessi padri fondatori della nazione, soprattutto Franklin, Jefferson, Madison, e Hamilton discussero e scrissero ripetutamente sull’impatto che un continuo l’arrivo continuo di immigrati avrebbe avuto sulla giovane nazione e sulla formazione di una identità nazionale. Dopo la guerra di indipendenza, nonostante fossero i singoli stati ad occuparsi della gestione dell’immigrazione entro i propri confini, il governo federale approvò due leggi che, benché non riguardassero l’immigrazione, aiutarono a definire chiaramente che tipo di immigrati la nuova repubblica preferisse, oltre ad influenzare il dibattito sulla naturalizzazione e sull’acquisizione della cittadinanza americana. Nello stesso anno, nel 1819, il governo americano ratificò una legge che stanziava fondi per la American Colonization Society affinché si occupasse del trasporto degli schiavi che avessero ottenuto la libertà in Africa come colonizzatori, rendendo questi africani il primo gruppo in America ad essere formalmente rimpatriato con la forza; e una legge che faceva in modo che solo europei liberi e appartenenti al ceto medio potessero permettersi le tariffe per il viaggio transatlantico.
Le sezioni successive cercano di spiegare come, dopo la guerra civile e fino al 1965, quando il regime delle quote basato sul paese di provenienza venne finalmente abolito, tutte le leggi immigratorie che il governo americano approvò fossero in realtà tentativi di assicurarsi che solo un tipo particolare di immigrato arrivasse negli Stati Uniti: gli immigrati bianchi dall’Europa nordoccidentale. In questo contesto, diventa chiaro l’approvazione dei Chinese Exclusion Acts del 1882 che escludeva la maggior parte dei cinesi dal suolo americano e negava l’opportunità di acquisire la cittadinanza americana a coloro che già risiedevano negli Stati Uniti; del Gentlemen’s Agreement che limitava fortemente l’immigrazione dei giapponesi e negava loro il diritto alla naturalizzazione; della serie di leggi che a partire dal 1882 cominciarono a limitare l’arrivo di immigrati dall’Europa del Sud e dell’Est, dirette soprattutto ad immigrati italiani, slavi, ebrei polacchi e russi; e infine del Johnson-Reed Act nel 1924 tramite il quale gli immigrati dall’Asia vennero completamente esclusi e agli immigrati dal Sud e dall’Est Europa vennero assegnate quote annuali che prevedano che solo il due percento del numero totale di appartenenti ad un determinato gruppo etnico potesse essere ammesso negli Stati Uniti. Allo stesso modo, il governo americano creò un sistema di controllo remoto attraverso l’introduzione di visti e passaporti che bloccava aspiranti emigranti all’origine. La legge provocò l’effetto desiderato: se 805.000 immigrati furono ammessi nel 1921, il numero scese a 309.000 nel 1922 e a 280.000 nel 1929, la maggior parte dei quale proveniva da paesi europei nordoccidentali.
La grande depressione degli anni trenta e lo scoppio della seconda guerra mondiale contribuirono ulteriormente al successo del nuovo sistema immigratorio che il governo americano aveva stabilito. Zolberg osserva, però, che con la fine della guerra, l’uscita dall’isolazionismo degli anni trenta, le nuove condizioni geo-politiche che emersero con l’inizio della guerra fredda, e la nuova immagine del paese come leader del mondo libero costrinsero ben presto gli americani e il loro governo a riconsiderare il proprio atteggiamento verso l’immigrazione. Sebbene il sistema delle quote abbia resistito fino al 1965, a partire dal 1948, con la prima legge per i rifugiati, il governo americano apportò numerosi cambiamenti alle proprie leggi immigratorie che rifletterono il nuovo ruolo degli Stati Uniti a livello mondiale. L’autore sostiene che l’abolizione delle quote non significò che l’immigrazione fosse davvero aperta a chiunque volesse immigrare negli Stati Uniti. Dal 1965 ad oggi, le politiche immigratorie americane cercano di bilanciare un’attenta selezione di operai altamente specializzati, la spinta verso le riunificazioni familiari e l’entrata di rifugiati. Questo non significa che il dibattito su chi può entrare, chi può acquisire la residenza o diventare cittadino americano sia terminato. Tale dibattito fa parte, infatti, dell’identità americana e viene risuscitato ogniqualvolta quell’identità è minacciata, come accadde con gli attacchi dell’undici settembre, evento che, come mostra Zolberg, prevedibilmente scatenò una nuova ondata xenofoba che spinse rappresentanti politici a chiedere l’introduzione di nuove leggi immigratorie più restrittive e punitive.