Molti contributi si sono occupati di critica letteraria, soprattutto sul versante dell’immigrazione extracomunitaria in Italia, e di linguistica, come nel caso della relazione di Joseph Abraham Levi sulle trasformazioni morfologiche a cui è andato soggetto il dialetto veneto in Brasile a causa delle contaminazioni con la lingua portoghese. Del resto, sono proprio questi i due ambiti in cui è risaltata in maniera più evidente l’argomentazione che ha fatto da leitmotiv del convegno nel suo insieme, cioè la tesi dell’ibridizzazione dell’identità a seguito del contatto culturale tra migranti e società d’adozione. Inoltre, in entrambi i campi, ha suscitato minore problematicità, rispetto alla dimensione storiografica, il superamento di un eventuale scetticismo a trascendere la storicizzazione dei fenomeni migratori per stabilire possibili accostamenti tra vicende ambientate non soltanto in società diverse ma anche in periodi differenti.
Il convegno si è, comunque, contraddistinto per la sua pluridisciplinarietà. Altre relazioni, infatti, si sono collocate nel settore della cinematografia. Per esempio, Norma Buchard ha esaminato l’eco della xenofobia emersa dalla pellicola di Reginald Barker The Italian, prodotta dalla Paramount nel 1915, in cui l’anticattolicesimo e la denuncia dell’immigrazione italiana come veicolo di diffusione del sovversivismo si intrecciano con una visione romanticizzata dell’Italia come una sorta di paradiso perduto. William Leparulo ha, invece, presentato il film Mac come un momento di svolta nella rappresentazione dell’italo-americano medio nel cinema statunitense.
Tale tornante sarebbe stato segnato dall’allontanamento dal filone del crimine organizzato e dall’orientamento verso la celebrazione dell’etica del lavoro e dell’attività professionale quale forma di arte, culminata in Big Night nella raffigurazione dell’occupazione della figura di Primo come ristoratore quale forma di gratificazione personale. Come è stato mostrato da Teresa Fiore, però, l’idea del mestiere come vocazione
ricorre anche nella letteratura e, in particolare, nella narrativa di John Fante, che a suo giudizio avrebbe inteso esaltare gli immigrati italiani quali artefici materiali dell’edilizia pubblica e privata statunitense. In tal modo, al di là della finzione narrativa, non priva però di numerosi elementi autobiografici, Fante avrebbe anche riscattato una delle funzioni pubbliche degli italo-americani sottraendola all’oblio, nonostante il ruolo anonimo degli immigrati e la mancanza di successi individuali in opere di costruzione spesso prive di monumentalità.
Per la loro funzione nel recuperare una delle principali attività svolte dagli italo-americani dal cono d’ombra della memoria collettiva, gli scritti di Fante possono pure assolvere a un compito di testimonianza storica. In effetti, come ha segnalato Mary Jo Bona nella sua prolusione, non poche sono le occasioni di contatto/contaminazione disciplinare tra letteratura e storia. Bona ha posto l’accento su come anche le fonti letterarie possano essere utili per comprendere l’esperienza migratoria, soprattutto quando esprimono quell’intimità delle vicende di vita personale che tende a non trasparire da una documentazione prodotta a fini ufficiali. Inoltre, Bona si è anche soffermata sul problema del riconoscimento dell’italianità della scrittura in romanzieri italo-americani che vengono talvolta considerati autori statunitensi senza una particolare connotazione etnica. Su un terreno correlato con quest’ultimo aspetto si è mossa Evelyn Ferraro, che ha sollevato il problema della possibilità di procedere a una “denazionalizzazione” del canone letterario italiano per globalizzare la letteratura di lingua italiana negli stessi termini per cui di parla di una comunità italiana mondializzata dalla presunta “diaspora” della sua popolazione.
Alcune relazioni di taglio prettamente storico, ancorché presentate spesso in forma ancora di work in progress, hanno gettato luce su aspetti poco conosciuti, quando non addirittura inesplorati, dell’emigrazione italiana in paesi che non vengono comunemente associati con l’esodo italiano all’estero. In tale contesto, Sherley Smith ha ricostruito la genesi dell’insediamento italiano a Tienin dopo che il governo di Roma era riuscito a strappare alla Cina una concessione costiera come riparazione per i danni subiti dalla propria legazione durante la rivolta dei boxers. Robert Buranello ha tracciato un quadro della presenza italiana in Sudafrica con particolare The Cultures of Migration, Dartmouth College riferimento ai prigionieri di guerra catturati dalle forze britanniche durante la seconda guerra mondiale. Sally Hill si è occupata della minuscola comunità italiana della Nuova Zelanda, a partire dall’arrivo dei primi pionieri con la corsa all’oro negli anni Sessanta dell’Ottocento, conferendo rilievo allo sviluppo di manifestazioni di solidarietà verso la minoranza autoctona dei maori.
Di impianto più convenzionale sono, invece, risultate la relazioni di Bénédicte Deschamps e di Emanuel Rota. La prima, ricca di esempi tratti soprattutto dall’esperienza statunitense, ha esaminato il ruolo giocato dalla stampa italiana all’estero nella costruzione di un’identità etnica basata sulla comune origine nazionale degli emigranti.
La seconda si è soffermata sulle maggiori difficoltà di americanizzazione delle immigrate italiane negli Stati Uniti, a causa del loro parziale isolamento nell’ambiente domestico, rispetto all’elemento maschile delle comunità che era maggiormente in contatto con la società americana per motivi di lavoro, e sulle ripercussioni che tale fenomeno ebbe sull’integrazione dei figli. Da segnalare pure l’intervento di Claudio Cicotti sulla costituzione di una banca dati sugli autori in lingua italiana, editi e inediti, di Francia, Belgio, Lussemburgo e Germania al fine di studiare come i portatori di una cultura minoritaria, pur senza trattare necessariamente di emigrazione, si rapportino alla cultura maggioritaria di un paese che non è il proprio.
Come ha riconosciuto Bona, dopo un iter lungo e travagliato gli studi italoamericani sono stati capaci di ottenere una propria legittimazione accademica negli Stati Uniti non soltanto sul versante storiografico, ma anche su quello della critica letteraria. Da questo punto di vista, l’organizzazione di un convegno su tali tematiche al Dartmouth College – una delle più antiche e prestigiose roccaforti della cultura
anglo-sassone e protestante in campo universitario – sembra di per se stessa avere dato il suggello a tale sviluppo della disciplina.