Insomma, a pensarci bene, la percezione dell’“altro”, lontano o vicino, è una questione decisamente complessa. Se aggiungiamo la prospettiva diacronica si converrà con me che ci troviamo di fronte ad una tematica assai sdrucciolevole al confine tra storia, antropologia, sociologia, psicologia e scienze della comunicazione e che pone quindi non pochi problemi di approccio e di fonti. Uno dei primi (e comunque assai pochi) storici a cimentarsi in modo specifico con l’argomento è Jens Petersen. Petersen restringe il campo d’indagine alle percezioni reciproche nei rapporti tra italiani e tedeschi in generale e individua la sua fonte principale nelle immagini che emergono dalla letteratura e dalla pubblicistica dei due paesi[4]. Un’operazione senz’altro corretta, ma sorge comunque il dubbio se si tratti di un quadro esauriente. Lo stesso Petersen ne è in qualche modo consapevole[5]. E’ pur vero che il processo di produzione della rappresentazione parte per lo più dalle élite per arrivare alle masse (si pensi, per dire, a quanto hanno influito sull’immagine che i tedeschi hanno dell’Italia e degli italiani gli appunti di Goethe sul suo “viaggio in Italia”[6]), ma basta dar voce alle prime per avere tutto lo spettro della percezione dell’“altro”? E’ come se guardassimo la punta di un iceberg senza considerare quello che sta o, meglio, quello che avviene sotto la sua linea di galleggiamento. E questo vale soprattutto nei casi di contatto diretto tra gruppi molto diversi per lingua e tradizioni, come quando si mettono in moto consistenti flussi migratori. Fernando Devoto, autore di una importante Storia degli italiani in Argentina, parlando della percezione degli italiani nell’Argentina degli anni Sessanta, giustamente secondo me afferma che “nulla autorizza a passare automaticamente da una serie di stereotipi generati dalla letteratura, dal cinema e dalla televisione ad altri prodotti dall’esperienza quotidiana, ovvero a quelli che le persone si costruiscono a partire dalla vita di tutti i giorni e dalla gente che incontrano e conoscono”[7]. Devoto non fa che riprodurre uno schema ben noto alla psicologia sociale, secondo la quale esistono due livelli percettivi, quello della “percezione intergruppo” e quello della “percezione interpersonale”. Questo secondo livello della percezione, pur fortemente influenzato dal primo (che continua a sussistere), tende a differenziarsi da esso. Non sempre per la verità, come vorrebbe il senso comune, in senso positivo (verso un’immagine più realistica e meno convenzionale dell’“altro”). Dipenderà dalle caratteristiche della situazione di contatto (perché, per esempio, si registri una riduzione del pregiudizio nei confronti di un altro gruppo è necessario, tra l’altro, che i membri dei due gruppi abbiano uno status uguale, che le istituzioni favoriscano il dialogo, che il contatto sia di lunga durata e che avvenga in contesti il più possibile diversi)[8].
E’ fin troppo evidente come ad essere determinante nella percezione immediata dei nuovi arrivati e a condizionare il loro inserimento nel paese ospite sia la percezione intergruppo, ma a mio parere vale la pena cercare di andare oltre e vedere se e come l’incontro con l’“altro” abbia indotto delle modificazioni nella percezione reciproca. Per cogliere queste modificazioni è necessario fare ricorso a fonti diverse da quelle utilizzate da Petersen, come per esempio interviste con e diari e memorie di emigranti, ma soprattutto, laddove siano disponibili, indagini demoscopiche o altre rilevazioni campionarie. Il rischio però, mi pare, con buona parte di questi materiali è quello di non lavorare su campioni rappresentativi e di dover comunque sempre maneggiare materiale di difficile interpretazione. Non è, per dire, affatto semplice rilevare la percezione reciproca (con interviste? Questionari? E come? Sottoponendo alle persone contattate elenchi di presunte caratteristiche etniche con il rischio di indirizzarne o condizionarne la scelta?) e difatti esiste un ampio dibattito su questo punto[9]. Sandro Rinauro, profondo conoscitore di sondaggi, tiene a sottolineare come “un questionario strutturato tenda a semplificare e quasi ad ‘inventare’ la realtà” e come “un’indagine campionaria, per quanto ottima e ampia, sia solo uno degli strumenti” per effettuare indagini sociali ampie e complesse[10]. Sempre relativamente alle indagini demoscopiche, bisognerà nel nostro caso a mio parere fare anche attenzione a distinguere tra indagini effettuate tra persone in situazione “di contatto” e indagini effettuate senza questo criterio. Dare voce, per esempio, ad un tedesco che vive situazioni di contatto significativo con italiani è ben diverso dal dare voce ad un tedesco che non ha (o ha solo rari) contatti con loro e che tenderà molto probabilmente a riprodurre la percezione intergruppo.
In sintesi, ci troviamo di fronte ad un aspetto della presenza italiana all’estero senza dubbio molto importante, ma allo stesso tempo anche molto complesso e difficile da descrivere in modo soddisfacente. E forse non è un caso che gli storici dell’emigrazione manifestino sempre una certa riluttanza ad affrontare l’argomento, liquidandolo abbastanza frettolosamente e assegnandogli il ruolo di nota di colore o poco più. Lo stesso Devoto gli dedica solo 5 delle 477 pagine che compongono la sua opera[11]. Come già rilevato da Yvonne Rieker e Roberto Sala, gli storici che si sono occupati di emigrazione italiana in Germania non si sono comportati molto diversamente[12]. Qualcosa di più hanno fatto la sociologia e la linguistica, forse più attrezzate per (e in fondo anche più interessate a) questo tipo di indagine. Elisabetta Mazza Moneta ha dato alle stampe nel 2000 proprio un approfondito studio sulla percezione reciproca e sui suoi riflessi sulla percezione degli italiani in Germania. La tesi dell’autrice è che la percezione reciproca, purtroppo in buona misura, come vedremo, negativa, abbia giocato un ruolo nello scarso successo dei “Gastarbeiter” italiani in Germania e dei loro figli[13]. Una tesi a prima vista fin troppo logica, che pure, come cercherò di spiegare sulla base di una serie di dati e considerazioni, presenta a mio parere qualche elemento di criticità. In ogni caso il suo lavoro è particolarmente utile perché riassume bene origini e sviluppi della percezione reciproca (e della autopercezione) di italiani e tedeschi. L’autrice tenta inoltre, attraverso una ricerca sul campo che coinvolge anche alcuni italiani in Germania, di cogliere eventuali modificazioni nella percezione reciproca a seguito di un intenso e prolungato contatto con l’“altro”, un punto che qui ci sta molto a cuore e sul quale torneremo.
Detto della difficoltà di rendere la percezione reciproca nel rapporto tra italiani e tedeschi sia in generale sia soprattutto nel caso specifico del contatto diretto a seguito dell’emigrazione italiana in Germania, cercherò di tratteggiare qui in ogni caso almeno la punta dell’iceberg (la percezione intergruppo) tentando di cogliere, laddove possibile, anche qualcosa della sua parte sommersa (la percezione interpersonale a seguito del contatto diretto) e di azzardare qualche nuova interpretazione. Per far ciò mi sembra opportuno allargare un po’ lo sguardo anche al periodo che va dall’unità d’Italia alla seconda guerra mondiale comprendendo quindi un secolo e più di emigrazione italiana di massa in Germania (che inizia infatti, com’è ampiamente noto, già sul finire dell’Ottocento, pur se in forme diverse da quelle di età repubblicana)[14]. E’ a mio parere la natura stessa dell’argomento a suggerire di non appiattire l’analisi sugli ultimi decenni e di evidenziare invece continuità e discontinuità nel lungo periodo.
Per un approccio interdisciplinare: stereotipi, pregiudizi e rapporti tra gruppi secondo la psicologia sociale
Prima di iniziare ad osservare da vicino la percezione reciproca nei rapporti tra italiani e tedeschi, ritengo sia utile, per una migliore comprensione del fenomeno che si vuole descrivere, tornare brevemente alla prima domanda che ci siamo posti, vale a dire che cosa si intenda esattamente per percezione dell’“altro”. Per il sociologo Marshall Singer, la percezione è una operazione mediante la quale “un individuo seleziona, valuta e organizza gli stimoli dell’ambiente esterno.” Pur esistendo una “realtà” oggettiva al di là della percezione, “in termini di comportamento umano, esiste (per la gente) solo una realtà soggettiva – cioè l’universo come l’individuo lo percepisce”[15]. Alla formazione della percezione concorrono stereotipi e pregiudizi. Per lo psicologo Bruno Mazzara lo stereotipo può essere definito in generale come “l’insieme delle caratteristiche che si associano ad una certa categoria di oggetti” (nel nostro caso, gruppi sociali)[16]. Il pregiudizio invece, inteso genericamente, sarebbe banalmente un “giudizio precedente all’esperienza o in assenza di dati empirici”[17]. Nel caso specifico dell’incontro interetnico, esso esprimerebbe la “tendenza a considerare in modo ingiustificatamente sfavorevole le persone che appartengono ad un determinato gruppo sociale”[18]. Ma perché esistono stereotipi e pregiudizi? E perché condizionano così tanto le nostre relazioni? Sempre secondo Mazzara, essi deriverebbero “la loro forza dall’azione congiunta di almeno tre fattori. Il primo sono le caratteristiche e i limiti propri del sistema cognitivo, il quale ha da un lato la necessità di semplificare la realtà e dall’altro l’esigenza di avere comunque delle aspettative nei confronti delle persone e circa lo sviluppo degli eventi. Il secondo è il bisogno di appartenenza, a sua volta miscuglio di motivazioni biologiche, psicosociali e culturali, che ci spinge con forza a riconoscerci in gruppi di nostri simili e a nutrire un’avversione apparentemente spontanea e ‘naturale’ verso coloro che non condividono la nostra cultura e le
nostre appartenenze [vedi Singer, n.d.a.]. Il terzo sono le ragioni di tipo storico e sociale che di volta in volta definiscono la posizione e le funzioni di ciascun gruppo minoritario e lo stato complessivo dei rapporti tra i gruppi in una determinata società, nonché la situazione delle relazioni interetniche e internazionali”[19].
Pregiudizi e stereotipi fanno quindi parte integrante del nostro modo di rapportarci al mondo. Nascono e difficilmente si modificano (si vede solo quello che si conosce già) o addirittura si estinguono, e comunque sempre in processi di lungo e lunghissimo periodo. Spesso le caratteristiche attribuite ad un gruppo “altro” sono quelle che mancano o sembrano mancare al proprio. Ci si pone come “norma” e si osservano, connotandole positivamente o negativamente, le deviazioni degli altri da tale “norma”. Quello che si osserva degli altri non è quindi mai tutta la verità, ma solo quella che più ci colpisce[20].
Vale la pena di citare qui infine una delle più recenti teorie sullo sviluppo degli stereotipi perché fornisce, a mio parere, importanti elementi per interpretare i rapporti italo-tedeschi. Secondo questa teoria gli stereotipi sarebbero “di rado completamente negativi” e combinerebbero tra loro “credenze ostili e favorevoli verso il gruppo target.” Questi stereotipi sarebbero la “conseguenza di relazioni strutturali tra gruppi in rapporto a due dimensioni fondamentali: lo status socioeconomico e il tipo di interdipendenza (cooperativa o competitiva).” Queste relazioni strutturali genererebbero, a loro volta, “due dimensioni di contenuti dello stereotipo – rispettivamente la competenza percepita e la simpatia – che in genere sono correlate negativamente tra loro. In altre parole, l’outgroup (il gruppo diverso da quello di appartenenza) verrebbe in genere percepito come competente o simpatico, ma non competente e simpatico.” Esisterebbero quindi “due forme prevalenti di pregiudizio: paternalistico (nei confronti di gruppi di basso status, che sono visti come simpatici ma incompetenti) e invidioso (nei confronti di gruppi di alto status, che sono visti come competenti ma antipatici).” Si tratta di una teoria che gli autori ritengono applicabile soprattutto alle culture democratiche contemporanee, perché in tempi di democrazia matura non sarebbe “considerata legittima l’espressione di atteggiamenti puramente ostili”[21].
Percezioni a confronto prima della Grande Guerra
Mazza Moneta ricorda come la percezione intergruppo che gli italiani ancora oggi hanno dei tedeschi sia notoriamente ricca di immagini che risalgono a Tacito e a Cesare: i tedeschi sarebbero tutti biondi, grandi, dagli occhi azzurri, forti, coraggiosi, guerrieri, persone semplici rispettose delle tradizioni, grandi bevitori, molto aggressivi e rispettosi dell’autorità. Un quadro che rivela rispetto ma che lascia trapelare anche un forte timore dell’“altro”, un timore confermato da secoli di vicende belliche tra i due popoli (che vedranno, tra l’altro, sempre l’Italia come teatro di guerra). Per tutto il medioevo i tedeschi furono considerati barbari rozzi e avventati, bevitori e mangiatori senza freni e soprattutto persone crudeli e violente. L’altra faccia della medaglia era una notevole ammirazione per la loro disciplina e la loro arte della guerra. L’unica consolazione per gli italiani era quella di contrapporre a tanta straripante dimostrazione di forza, la propria presunta superiore raffinatezza intellettuale. Anche la Riforma protestante giocò contro una migliore percezione reciproca, con i tedeschi bollati come “anticristi”. Solo con la diffusione delle idee illuministe e romantiche (alla base, tra l’altro, del Risorgimento italiano) e l’ammirazione per le opere di Goethe, Schiller e Wagner la percezione della Germania e dei tedeschi iniziò a diventare meno a senso unico rimanendo peraltro essenzialmente negativa[22].
Alle soglie della prima emigrazione di massa italiana in Germania (fine dell’Ottocento), anche i tedeschi avevano sempre percepito l’“altro” italiano come un nemico, ma con la decisiva differenza che si trattava di un nemico inferiore, mai distintosi per particolari doti fisiche e guerresche. Se non gli italiani, i tedeschi impararono peraltro ben presto ad amare l’Italia. L’età dell’oro dell’immagine dell’Italia in Germania è quella del periodo del barocco, quando nelle corti si parlava italiano e si invitavano oltralpe pittori, stuccatori, architetti, musicisti ed attori. L’ammirazione per le arti italiane non si riverberava però come detto sull’immagine degli italiani in sé, che tra Sette e Ottocento erano visti dai viaggiatori tedeschi in Italia come pigri, sporchi e truffatori, l’esatto contrario dei tedeschi che si consideravano precisi, ordinati, lavoratori. Peraltro si concedeva agli italiani di essere molto belli, pieni di temperamento, vivaci (anche se un po’ troppo rumorosi…)[23].
Un riscontro di questa percezione intergruppo così ambivalente degli italiani da parte dei tedeschi sul finire del XIX sec. si può osservare in occasione di due eventi successivi verificatisi ad Amburgo tra il 1895 e il 1896. Nel 1895 venne allestita nella città anseatica un’esposizione “Italia ad Amburgo” che nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe dovuto mostrare agli amburghesi “gli usi e costumi del popolo italiano così come le sue splendide ricchezze paesaggistiche ed architettoniche”. Vennero a tal scopo ricostruiti in un grande spazio aperto nel centro cittadino alcuni dei monumenti più significativi della penisola nonché addirittura un quartiere veneziano completo di canali navigabili. Per animare il tutto con “vere scene di vita italiana”, vennero fatti arrivare dall’Italia circa 480 italiani. Questi ultimi avrebbero dovuto mettere in scena “autentici tipi popolari italiani”, e segnatamente (e, aggiungerei, significativamente) “cantanti, bandisti e suonatori di mandolino, illusionisti, maghi e indovine, finti soldati, preti, falsi [sic!] banditi siciliani e Lazaroni [così nell’originale tedesco, n.d.a.], pescatori, pastori, danzatrici di strada, venditori ambulanti di prodotti provenienti dall’area del mediterraneo e in special modo dalla penisola”[24]. L’Italia quindi come paese mitico per la sua storia gloriosa, quasi bucolico per la dolcezza del suo clima e non a caso abitato da genti soprattutto allegre e calorose (i cantanti, i teatranti, i suonatori e le danzatrici), anche se un po’ bigotte (i preti) e credulone (i maghi e le indovine), individualiste e antisistema (i banditi e i lazzaroni) e in ogni caso povere (pescatori, pastori, venditori ambulanti). La dimensione negativa della percezione intergruppo, qui già chiaramente presente, pur in un contesto che sottolinea gli aspetti positivi dell’italianità percepita, venne prepotentemente alla luce l’anno successivo. Nel 1896 diversi datori di lavoro amburghesi minacciarono i portuali in sciopero di far arrivare dall’Italia dei crumiri. Il 25 novembre un giornale vicino ai lavoratori scrisse che “il lavoratore italiano è culturalmente arretrato e costa meno perché non avanza le pretese di un lavoratore tedesco. Si accontenta di un alloggio comune, può fare a meno della pulizia e non sostiene le spese di un lavoratore locale con famiglia, dal momento che spende meno di affitto e nulla per la propria igiene personale … Chi conosce i quartieri italiani delle grandi metropoli come NY, sa quanta miseria, sporcizia e criminalità vi si annidino”[25]. In realtà, questi crumiri, più volte annunciati, non arriveranno mai.
Se queste sono le immagini che circolavano nella letteratura e sui mezzi di informazione, qual era la percezione degli italiani di chi li conosceva da vicino? Il contatto diretto a seguito dell’evento migratorio come si riverberò sulla percezione dei singoli? Qualche indizio in questo senso ce lo dà René Del Fabbro, studioso dell’emigrazione italiana verso la Germania Guglielmina. Del Fabbro riporta i commenti di imprenditori e commissari governativi che vennero in contatto diretto con operai italiani. Come era lecito prevedere, ne risultò una percezione diversa degli italiani. Come abbiamo già detto, il contatto genera un cortocircuito tra le attese e l’esperienza che, a seconda delle condizioni in cui avviene, può migliorare o peggiorare la percezione. In questo caso, essa si fece più articolata e in parte più favorevole agli italiani, percepiti sempre come provenienti da un livello socioculturale più basso, ma anche come primi nella “classifica” degli stranieri presenti nel Reich, inoltre ubbidienti, gran lavoratori, intelligenti, dai comportamenti sobri. Tra l’altro si iniziò a distinguere gli italiani per provenienza regionale, dando giudizi differenziati per esempio su lavoratori friulani ed abruzzesi. Ma è evidente che queste poche voci non sono rappresentative, come riconosce lo stesso Del Fabbro, di quella che poteva essere la percezione dell’italiano immigrato da parte, per dire, dei suoi colleghi o dei suoi vicini di casa tedeschi. Ancora più difficile risulta, per mancanza di fonti, dare un’idea di come gli italiani emigrati vedessero la Germania e i tedeschi. I pochissimi documenti disponibili, comunque, trasmettono un’immagine dei tedeschi caratterizzata da ordine, pulizia, disciplina e correttezza[26].
Tornando al livello intergruppo, la dimensione negativa della percezione generale così fortemente ambivalente degli italiani, ritenuti in fondo culturalmente arretrati e pronti a tutto, sembrò agli occhi dei tedeschi trovare conferma nel comportamento tenuto dagli italiani in occasione della prima guerra mondiale, quando l’Italia, a lungo vicina alla Germania, scelse dapprima la neutralità e poi di schierarsi con la parte avversa. L’immagine già poco felice degli italiani si arricchì, per così dire, in quegli anni di un nuovo stereotipo, quello dell’italiano “traditore”. Anche la percezione intergruppo dei tedeschi da parte degli italiani venne peraltro fortemente influenzata dalla Grande Guerra. Riemerse con forza la paura atavica del tedesco invasore e violento. Ma, ancora una volta, probabilmente, il rapporto tra emigranti e società tedesca era molto più sfumato e, a quanto pare, più positivo. Tant’è che René Del Fabbro registra come, pur in presenza di sentimenti ostili nei confronti degli italiani rimasti, essi potessero continuare a vivere e lavorare in Germania senza particolari difficoltà. E ancor più significativo è il fatto che agli inizi del 1918 il Ministero bavarese della guerra avesse iniziato una campagna di reclutamento di lavoratori nell’Italia occupata e che il reclutamento avvenisse su base volontaria e non forzata come, per esempio, in Belgio[27].
Percezioni a confronto tra le due guerre
Anche con l’avvento del Fascismo e la conquista del potere da parte di Hitler, grande ammiratore di Mussolini e del suo movimento, a livello intergruppo gli italiani continuarono a essere giudicati per lo più negativamente, benché in modo, per così dire, “mascherato”. In tempi di Asse e Patto d’acciaio i due governi vararono una politica culturale di avvicinamento dei due popoli. Ad Amburgo, per esempio, questa politica culturale culminò nell’organizzazione nel 1941 di una “Settimana d’arte italo-tedesca” ripetuta poi nel 1942 e nuovamente nel 1943. Gli italiani, fino a pochi anni addietro percepiti come sporchi, criminali, culturalmente arretrati e traditori, vennero improvvisamente riabilitati in articoli, esposizioni, conferenze, film. Si trattava peraltro di un’immagine “ripulita” calata dall’alto per ragion di Stato. Gli stessi vertici del regime nazista non la condividevano veramente ritenendo gli italiani, tra l’altro, “sospetti dal punto di vista razziale”. Hitler, com’è noto, avrebbe preferito come alleati in una guerra contro il bolscevismo gli inglesi, molto più “ariani” degli italiani[28]. La guerra e le débacle militari italiane misero a dura prova l’opera di cosmesi cui era stata sottoposta la percezione intergruppo. Il finto idillio venne rotto definitivamente dall’armistizio dell’8 settembre del 1943. Per i tedeschi gli italiani tornarono ad essere “ufficialmente” incapaci ed infidi.
Anche in questo caso resta la difficoltà di dare conto delle tante sfumature della percezione interpersonale prodotte dal contatto diretto a seguito dei consistenti flussi di italiani verso il Reich tra la fine degli anni Trenta e il 1945 (lavoratori civili tra il 1937 e il 1943 e poi soprattutto soldati deportati). Le fonti peraltro si fanno un po’ meno rade e qualitativamente più interessanti. Il quadro dei rapporti interpersonali che emerge in particolare dagli studi di storia orale di Cesare Bermani, pare caratterizzato da ammirazione per la modernità (soprattutto di costumi) tedesca da parte dei lavoratori italiani[29] e da una considerazione molto bassa degli stessi da parte dei tedeschi[30], influenzati peraltro più da fattori contingenti come lo scarso apporto italiano alla guerra (con gli italiani in Germania accusati fin da subito di essere degli “imboscati”) e dalla firma dell’armistizio (che diede nuovo vigore al cliché dell’italiano “traditore”) che non da razzismo puro e semplice[31]. Ma non tutti i tedeschi vedevano gli italiani come il fumo negli occhi. Sempre Bermani, rileva, per dire, ottimi rapporti tra le donne tedesche e i lavoratori italiani[32].
Percezioni a confronto nella seconda metà del Novecento
Veniamo così all’ultima fase dell’emigrazione di massa verso la Germania, che inizia verso la fine degli anni Cinquanta per avere termine alla metà degli anni Settanta. Se per le fasi storiche precedenti la percezione intergruppo si poteva ricostruire per lo più a partire dalle immagini veicolate dalla letteratura e dalla pubblicistica senza poterne peraltro verificare più di tanto la diffusione tra le masse, ora sono disponibili nuove fonti che permettono di cogliere anche il sentire della “gente”. A partire dagli anni Cinquanta, diversi sociologi e, più avanti, anche numerosi istituti demoscopici per conto della Comunità Europea[33], iniziarono ad analizzare, tramite vari sondaggi (peraltro non sempre rappresentativi), con sempre più attenzione le percezioni reciproche tra i popoli europei in generale e anche tra italiani e tedeschi in particolare.
Nel 1953, qualche anno prima dell’avvio della nuova fase di emigrazione di massa in Germania, in un sondaggio sulla percezione di diversi popoli (europei e non) da parte dei tedeschi, gli italiani venivano percepiti in particolare come persone “dal sangue caldo”[34] (risposta data dall’86,3% degli 881 intervistati. Anche altri popoli venivano percepiti soprattutto come tali, ma gli italiani lo erano più di tutti), “musicali” (72,7%), “spensierati” (71,2%), “vivaci” (69,8%), un popolo con tante “belle donne” (68,3%), ma anche “sporchi” (66,2%) e “poco costanti” (66,2%)[35]. Queste, come le altre caratteristiche attribuite agli italiani confermano in sostanza l’ambivalenza della percezione precedente, belli e simpatici, ma un po’ arretrati e poco affidabili. Impressiona il fatto che le caratteristiche “poco costanti”, “inaffidabili”, “pigri” e “noncuranti” vengano attribuite solamente agli italiani. Un quadro che, come mostra bene Mazza Moneta, trova sostanzialmente riscontro anche in sondaggi successivi[36]. L’immagine appena delineata è ben presente anche nella letteratura, anche se soprattutto nelle opere che tematizzano l’emigrazione e non in quelle ambientate in Italia[37]. Un po’ diversa parrebbe l’immagine degli italiani che emerge dalla pubblicistica. A partire dagli anni Cinquanta sui giornali continuano a circolare gli stereotipi dell’italiano un po’ arretrato e dal sangue caldo, ma prevalgono letture più positive che sottolineano invece l’altra faccia dell’italianità: la simpatia, la cordialità, il calore umano e anche la voglia di lavorare[38]. I motivi risiedono probabilmente da una parte nel fatto che la forza lavoro italiana è benvenuta per far girare il motore del boom economico e dall’altra si rinforza, grazie alle vacanze di massa in Italia, il mito dell’Italia e dell’“arte di vivere” degli italiani. Italiani per la verità un po’ idealizzati, tant’è che, come abbiamo visto, le masse paiono ancora molto affezionate ai vecchi stereotipi. Nel 1973 gli italiani risultano, tra i Gastarbeiter, il gruppo straniero più antipatico (15%, di poco davanti ai turchi con il 14%, ma molto meno considerati di jugoslavi, spagnoli e greci con rispettivamente il 3, 3 e 4%)[39]. Come ha giustamente rilevato Sandro Rinauro, bisogna comunque tenere presente che gli italiani rappresentavano all’epoca il gruppo straniero più numeroso e “chi non nutriva simpatie per gli stranieri in generale andava col pensiero innanzitutto agli italiani”[40]. Che si tratti di una riflessione corretta, diventa evidente considerando i risultati dello stesso sondaggio effettuato a distanza di dieci anni. Nel 1983 i più antipatici risultavano essere di gran lunga i turchi (46%), che infatti erano da tempo la maggioranza degli stranieri in Germania. Gli italiani comunque continuano a non godere di grande stima da parte degli intervistati (secondi, tra i più antipatici, con il 9%, prima di jugoslavi, greci e spagnoli al 4%)[41].
Anche per quanto concerne la percezione dei tedeschi da parte degli italiani negli stessi anni, si può osservare una notevole continuità di fondo con le immagini precedenti. Mazza Moneta riporta un sondaggio del 1977 su come gli italiani vedevano i tedeschi da cui risulta che i secondi erano percepiti in particolare come “diligenti”, “affidabili”, “coscienziosi” e “più attivi” degli italiani. Essi avrebbero avuto inoltre “senso dell’ordine e della disciplina” e appreso fin da piccoli ad essere ubbidienti. Avrebbero poi eseguito gli ordini “senza discutere”. Da quest’ultima caratteristica sarebbe dipesa peraltro anche l’incapacità di “pensare democraticamente”, nonché “ottusità” e “mancanza di flessibilità”. Il Nazionalsocialismo era sentito come un fenomeno “tipicamente” tedesco per via della corrispondenza delle sue teorie con la mentalità tedesca. I tedeschi erano anche percepiti come “fieri”, “aggressivi” e sempre “pronti alla guerra”. Scarse infine le loro abilità relazionali, dato che erano visti, tra l’altro, come “riservati”, “freddi”, “senza cuore”. Un quadro sostanzialmente anche questo confermato da indagini successive[42], dalle immagini veicolate dalla letteratura (in particolare quella che tematizza l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale) e finanche dai fumetti. Insomma, come ben sintetizza Mazza Moneta, una percezione ambivalente che attribuisce ai tedeschi caratteristiche ideali se rapportate ad un ambito lavorativo, ma caratteristiche per lo più negative in ambito relazionale. In sostanza, l’opposto degli italiani[43].
Se questa è la percezione intergruppo con cui dovettero fare i conti gli immigrati italiani in Germania, è lecito chiedersi se e come queste immagini influissero sul loro inserimento nella società tedesca. Se per esempio un contatto intenso e prolungato tra datori di lavoro e colleghi tedeschi da una parte e lavoratori italiani dall’altra non intervenisse a modificare almeno parzialmente questa percezione reciproca consentendo un rapporto in fondo non eccessivamente problematico. Purtroppo non esistono molte di queste indagini condotte tra italiani in Germania e tra tedeschi che abbiano avuto contatti significativi con i primi. Mazza Moneta ritiene, sulla base di un suo sondaggio tra tedeschi e italiani a Darmstadt e italiani in Italia, che tale percezione non sarebbe sostanzialmente mutata di molto e fa discendere da qui la sua già menzionata tesi dell’influenza della stessa sulle difficoltà di inserimento degli italiani in Germania. Come detto in apertura, mi sembra una tesi che presenta qualche elemento di criticità. Un po’ perché se è vero che una percezione negativa, per dire, delle qualità lavorative degli italiani può condizionare un datore di lavoro tedesco, non è detto che le cose vadano poi sempre avanti così. E lo stesso può valere in altri ambiti. La stessa autrice deve tra l’altro ammettere che, sulla base del suo sondaggio, la percezione dei tedeschi da parte degli italiani residenti in Germania sembra in effetti differenziarsi da quella degli italiani residenti in Italia su tre punti: intanto cade completamente lo stereotipo del tedesco grande, biondo e dagli occhi azzurri, ma soprattutto vengono accostati molto meno spesso all’immagine dei tedeschi temi come razzismo, violenza, paura e xenofobia, e spariscono del tutto i riferimenti al nazionalsocialismo, molto frequenti tra gli intervistati in Italia[44]. Non mi sembrano cambiamenti di così poco conto. Anche per quanto riguarda la percezione che i tedeschi avevano degli immigrati italiani, il dato rispecchierebbe quello sugli italiani in genere. Ma pure qui intravedo delle possibili criticità. Se intervistare italiani in Germania vuol dire lavorare su un gruppo inevitabilmente “di contatto”, intervistare, come fa l’autrice, tedeschi che non abbiano necessariamente avuto rapporti significativi con italiani, vuol dire esporsi al rischio di continuare a dar voce alla percezione intergruppo. Infine, come la stessa autrice sottolinea nelle prime pagine del suo lavoro, la sua indagine non è rappresentativa[45].
Insomma, non mi sentirei di escludere che a livello di contatto la percezione reciproca non avesse conosciuto delle modificazioni anche importanti consentendo un inserimento certo non facile, ma nemmeno così drammatico come, tra l’altro, spesso viene dipinto. Un’ipotesi corroborata da due fonti: la prima, le relazioni annuali sull’inserimento dei Gastarbeiter inviate tra anni Sessanta ed anni Settanta dalle Agenzie del lavoro dei Länder all’Agenzia federale del lavoro, in cui l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti degli stranieri (sempre attentamente monitorato) viene descritto in termini per lo più positivi. A condizionare negativamente gli umori della gente erano soprattutto fattori contingenti come la crisi economica del ’67 e non tanto stereotipi e pregiudizi. E’ pur vero che le relazioni registrano anche, con il passare degli anni, una certa preferenza dei datori di lavoro tedeschi per operai di altra nazionalità rispetto agli italiani, ma questa viene ricondotta esclusivamente all’abitudine diffusa tra i Gastarbeiter provenienti dalla penisola di cambiare spesso posto di lavoro alla ricerca di un maggior guadagno[46]; la seconda, i risultati di un vasto sondaggio d’opinione a campione rappresentativo (1.398 maschi emigrati per motivi di lavoro e poi rimpatriati) sull’immagine della Germania tra gli emigranti italiani realizzato tra il 1972 e il 1973 dalla Doxa per conto del ministero italiano degli Esteri e del ministero del Lavoro e degli affari sociali della RFT[47]. Ne emerge, come già rilevato da Sandro Rinauro, autore di un fondamentale commento ai risultati del sondaggio, un’immagine spesso positiva, anche in ambito relazionale, dei tedeschi, che contrasta con la percezione intergruppo che abbiamo visto: essi risultavano infatti “amichevoli e alla mano” per il 67% degli intervistati, “chiusi e riservati” per il 20,9% e solo per il 10,9% “scortesi e sprezzanti”[48]. Inoltre il giudizio era tanto più positivo quanto più elevata era la qualifica dell’immigrato italiano e maggiore la durata della sua permanenza in Germania. Per Rinauro peraltro questo gradimento “non scaturiva tanto dalla natura e dalla qualità dei rapporti reciproci”, scarsi al di fuori del luogo di lavoro, “ma piuttosto da aspetti positivi del carattere e della formazione culturale e professionale dei tedeschi”[49]. La percezione positiva dell’“altro” viene fatta discendere, in sostanza, dal rapporto del migrante italiano (spesso proveniente da piccoli centri agricoli di aree depresse) con un mondo del lavoro e, più in generale, con un sistema sociale, egualitario, efficiente e meritocratico[50]. Certamente il contesto ebbe un peso rilevante nella ri-definizione della percezione, ma non sottovaluterei i rapporti sul luogo di lavoro, pur sempre di grande intensità e durata e quindi a mio parere altrettanto decisivi. Come che sia, il sondaggio ci rivela come le immagini veicolate dai media non sempre rispecchino quelle degli individui, soprattutto quando questi ultimi entrano significativamente in contatto con l’“altro”. Il risultato, almeno in questo caso, è stata una modificazione in senso positivo della loro percezione[51]. Inoltre il sondaggio sembra relativizzare in parte anche un fenomeno, quello della discriminazione degli italiani, molto sottolineato dai lavori dedicati all’emigrazione italiana in Germania. Uno dei momenti paradigmatici di questa discriminazione è l’esclusione degli italiani da alcuni locali pubblici, ma alla domanda su quale fosse “il peggior ricordo” riportato a casa dalla RFT, solo lo 0,4% degli intervistati dichiarò di aver incontrato questo problema (anche potendo dare più di una risposta). Anche altri dati stridono un po’ con l’immagine di un inserimento sempre molto problematico a causa dei pregiudizi della società tedesca. La “scarsa considerazione da parte dei tedeschi” viene, tra i peggiori ricordi, solo all’8° posto con il 4,4% delle risposte (prima, con grande margine, è la risposta “non ho ricordi spiacevoli” con il 33%). Vale infine la pena segnalare come l’1,2% degli italiani si sentisse in dovere di segnalare tra i peggiori ricordi anche il “comportamento scorretto e rozzo” dei connazionali. Questi dati devono, mi pare, mettere in guardia tutti coloro che si occupano di emigrazione italiana in Germania dal non finire per riproporre acriticamente a loro volta dei cliché. Insomma, il sondaggio Doxa, pur non con tutti i limiti che può avere, mi sembra che dia diversi spunti per tornare a riflettere su quella che è stata l’esperienza degli emigranti italiani in Germania. Mancano purtroppo, a quanto mi consta, simili indagini effettuate tra i tedeschi, ma sono abbastanza convinto che anch’esse avrebbero rivelato dimensioni altrettanto inedite dell’incontro tra immigrati italiani e società tedesca.
La percezione reciproca tra la fine del XX e gli inizi del XXI secolo
Dopo l’esaurirsi, negli anni Settanta, del flusso migratorio di massa italiano verso la Germania, soprattutto tra anni Ottanta e Novanta, la percezione reciproca nei rapporti tra italiani e tedeschi si evolve rapidamente. Sul versante tedesco, sembrerebbe, in senso per lo più positivo. E’ innegabile che l’immagine degli italiani in generale e degli italiani residenti in Germania in particolare abbia tratto vantaggio da una serie di fattori: la già menzionata ammirazione dei tedeschi per l’Italia tradottasi a partire dal secondo dopoguerra in decenni di viaggi nella penisola e nel tentativo di ricreare in patria un po’ di presunta “dolce vita” (modificando in parte comportamenti e, soprattutto, abitudini alimentari); la fine, come si diceva, dell’immigrazione e con ciò dei timori di “invasione” del paese da parte degli italiani; il trasferimento di questi timori su altri gruppi di immigrati percepiti come culturalmente ancora più distanti (africani, asiatici); lo sviluppo italiano e il suo crescente prestigio internazionale; l’avvicinamento politico-istituzionale nell’ambito dell’Unione Europea (gli italiani quindi come appartenenti all’ingroup europeo vs. gli extraeuropei); la lenta omologazione commerciale degli usi e costumi in Occidente. Non stupisce che in base a un sondaggio del 1992 gli italiani continuino ad essere visti come “pieni di temperamento” e “poco accurati”, ma per la prima volta anche “diligenti”, “puliti” e “moderni”[52]. Secondo un sondaggio sulla fiducia reciproca tra i 15 popoli europei condotto per Eurobarometro nel 1996, i tedeschi mettono gli italiani al nono posto[53]. Non tra i primi, ma nemmeno tra gli ultimi come era stato in passato[54]. Per Rieker e Sala, gli anni più recenti sarebbero caratterizzati da una tendenza ad “idealizzare l’immigrazione italiana in Germania”, laboriosa e apportatrice di gradite novità (caffè espresso, gelaterie, pasta ecc.). L’immigrato italiano sarebbe diventato “una figura non solo accettata ma connotata positivamente in modo esplicito e non casualmente anche in film e in una popolare serie televisiva. L’italiano è lo straniero buono, integrato.” I due autori rilevano come questo pregiudizio positivo figlio del mito della “dolce vita” abbia in realtà probabilmente solo messo in ombra pregiudizi negativi tuttora esistenti[55]. Forse non è un caso che nel 2008 alla televisione tedesca siano strati mostrati spot di una catena di negozi di elettrodomestici che, per pubblicizzare tv color in occasione degli europei di calcio, ha pescato a piene mani tra i peggiori stereotipi anti-italiani (grezzi, maschilisti, donnaioli e abituati a truffare il prossimo)[56]. Molto probabilmente il messaggio è stato volutamente esasperato per fare notizia, ma evidentemente i pubblicitari sapevano di richiamare immagini ancora largamente diffuse.
Questo ed altri episodi[57] sembrano segnalare un peggioramento negli ultimissimi anni della percezione degli italiani da parte dei tedeschi. E’ la tesi esposta nel 2008 da Gian Enrico Rusconi in un libro dal titolo “Estraniazione strisciante tra Italia e Germania?”[58]. Secondo Rusconi la causa di questa “estraniazione” sarebbe soprattutto, dopo anni di generale intesa italo-tedesca, “una Germania riunificata sempre più sicura di sé” e la refrattarietà dei tedeschi per “il fenomeno Berlusconi” che avrebbe riattivato “vecchi giudizi e pregiudizi sugli italiani come tali, o sulla maggioranza di essi che – tramite il berlusconismo – si sarebbero rivelati (o confermati) dilettanteschi, superficiali, tendenzialmente proni all’illegalità e succubi della televisione”[59]. Questa dell’“estraniazione” non è, per la verità, una tesi condivisa da tutti. Nello stesso libro summenzionato, lo storico Hans Woller afferma come i rapporti politici tra i due paesi, lungi dall’aver conosciuto un’età dell’oro ora finita, siano stati improntati sempre solo ad una “distesa normalità” e come sia “tutto da dimostrare che Berlusconi abbia effettivamente annullato e invertito la tendenza, ormai in atto da tempo, all’affievolimento di antiche ‘immagini’ dell’Italia” e che nonostante alcune “prove” in questo senso, vi siano anche “un gran numero di contro-esempi, che risultano tanto più convincenti, quando clichés e luoghi comuni sono riconoscibili solo come reminiscenza ironico-scherzosa.” Tanto più che dopo la caduta del Muro i rapporti culturali si sarebbero decisamente intensificati, come mostrato, del resto, in altri contributi presenti nel libro. Woller mette anzi in guardia dal lanciare allarmi, perché potrebbero soffiare su un fuoco in via di spegnimento[60].
Come la percezione intergruppo degli italiani da parte dei tedeschi, anche quella dei tedeschi da parte degli italiani, pur rimanendo sostanzialmente fedele a vecchi stereotipi, tende a migliorare leggermente nel corso degli ultimi anni. La stampa italiana, pur continuando a fare, per dire, largo uso di termini e metafore militari quando in ballo c’è la Germania e a riferire volentieri di episodi di violenza ed antisemitismo accaduti oltralpe, veicolerebbe un’immagine più positiva dei tedeschi[61]. Dalla metà degli anni Novanta si registra anche qualche tentativo di revisione dei tradizionali cliché collegati alla Germania ed ai tedeschi[62]. Recentemente si è molto parlato, anche questa volta sull’onda di un evento calcistico (del resto, è soprattutto in occasione di questi momenti di intenso, anche se indiretto, “contatto” che viene a galla tutto il repertorio delle immagini dell’“altro”[63]), in senso positivo dei successi della formazione tedesca, da tutti attribuito alla trasformazione in senso multiculturale della Germania contemporanea[64].
Difficile dire chi tra Rusconi e Woller abbia ragione. Lo storico tedesco è forse eccessivamente ottimista, eppure le sue affermazioni ben si accompagnano al crescente interesse per la Germania dei giovani italiani che ogni anno, nonostante il famigerato “Kapo” rivolto da Berlusconi all’eurodeputato Schulz, scelgono quel paese per trascorrere un periodo di studio all’estero o vi si trasferiscono per motivi di lavoro. Mancano purtroppo, a quanto mi consta, studi in grado di approfondire la percezione reciproca degli italiani e dei tedeschi oggi in Germania e capire se si differenzia da quella veicolata ed amplificata dai media dei due paesi e come si riverbera sui rapporti tra i due gruppi.
Conclusioni
Per concludere, vorrei ritornare sulla difficoltà detta in apertura di rendere lo spettro delle percezioni reciproche, intergruppo e soprattutto interpersonali nei rapporti tra emigranti italiani e società tedesca. La percezione è una faccenda che sembra a prima vista cartesianamente chiara e distinta, ma poi sfuma, a ben vedere, in mille posizioni diverse nell’incontro con l’“altro” riflettendosi in modi altrettanto differenziati sulla vita quotidiana delle persone.
Nell’ovvia impossibilità di rendere tutte queste sfumature, vanno tenute ferme almeno alcune cose: la percezione è un’operazione mediante la quale l’essere umano “seleziona, valuta e organizza gli stimoli dell’ambiente esterno” fino a costruirsi una realtà soggettiva non necessariamente corrispondente a quella oggettiva; la percezione dell’“altro” sembra conoscere due livelli (in relazione tra loro), un livello “intergruppo” legato alle immagini veicolate dai mezzi di comunicazione e un livello “interpersonale” più legato all’esperienza diretta; alla formazione della percezione concorrono stereotipi e pregiudizi, strutture di pensiero dipendenti, tra l’altro, dalle caratteristiche e dai limiti propri del sistema cognitivo, il quale ha da un lato la necessità di semplificare la realtà e dall’altro l’esigenza di avere comunque delle aspettative nei confronti delle persone e circa lo sviluppo degli eventi; secondo una recente teoria di psicologia sociale, gli stereotipi sarebbero spesso ambivalenti, vale a dire combinerebbero tra loro credenze ostili e favorevoli verso il gruppo target con cui esista una relazione di dipendenza. Nei rapporti italo-tedeschi dell’ultimo secolo sembra in effetti riconoscibile, anche per cause storiche, una tendenziale caratterizzazione dei tedeschi come (in senso lato) competenti ed antipatici e degli italiani come incompetenti e simpatici. Questa caratterizzazione sembra conoscere negli ultimi anni, nonostante recenti battute d’arresto, un “ammorbidimento” dei suoi aspetti negativi (meno antipatici gli uni, meno incompetenti gli altri) grazie ad una serie di fattori, tra i quali soprattutto l’aumentato prestigio italiano, l’appartenenza alla casa comune europea (ingroup allargato) e l’omologazione sempre più spinta di usi e costumi.
Se siamo abbastanza informati sull’evoluzione del livello intergruppo della percezione reciproca (un argomento peraltro poco frequentato dalla storiografia dell’emigrazione), mancano quasi del tutto studi che analizzino le modificazioni della stessa a seguito di situazioni di contatto significativo con l’“altro” nel corso dell’emigrazione italiana verso la RFT. Le poche fonti disponibili sembrano però suggerire l’affacciarsi fin da subito di immagini reciproche molto meno nette e negative di quelle intergruppo. In attesa di una conferma di questa ipotesi, si potrebbe forse affermare che l’incontro qui in questione con l’“altro”, spesso dipinto a tinte fosche, non fu poi, nonostante le premesse, sempre così infelice.
[1] Gastarbeiter, letteralmente “lavoratori-ospiti” era il termine con il quale venivano comunemente indicati i lavoratori stranieri fatti arrivare nella RFT negli anni del boom economico. Si trattava di un termine dall’accezione ambigua, in parte positiva e in parte negativa (l’ospite è infatti una presenza gradita, ma anche solo temporanea).
[2] In un mio studio sull’emigrazione italiana ad Amburgo ci sono peraltro diverse pagine dedicate all’argomento. Si veda: Elia Morandi, Italiener in Hamburg. Migration, Arbeit und Alltagsleben vom Kaiserreich bis zur Gegenwart, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2004.
[3] Marc Bloch, Apologia della storia, Torino, Einaudi, 1998, p. 39.
[4] Jens Petersen, Italia-Germania: percezioni, stereotipi, pregiudizi, immagini d’inimicizia, in: Jens Petersen (a cura di), L’emigrazione tra Italia e Germania, Manduria, Piero Lacaita Editore, 1993, pp. 199-219.
[5] Ibid., pp. 209, 210.
[6] Johann Wolfgang von Goethe, Italienische Reise, München, Beck, 2007.
[7] Fernando Devoto, Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007, p. 469.
[8] Ida Castiglioni, La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Roma, Carocci, 2005, pp. 53-55.
[9] Elisabetta Mazza Moneta, Deutsche und Italiener. Der Einfluss von Stereotypen auf interkulturelle Kommunikation, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2000, pp. 47-62.
[10] Sandro Rinauro, L’immagine della RFT tra gli emigranti italiani negli anni Settanta, in Un geografo per il mondo: studi in onore di Giacomo Corna Pellegrini, a cura di Elisa Bianchi, Milano, Cisalpino, 2006, pp. 287-323, qui p. 304.
[11] F. Devoto, Storia degli italiani in Argentina, cit., pp. 465-471.
[12] Yvonne Rieker e Roberto Sala, Italiani in Germania: tra avvicinamento e disagio, in “Studi emigrazione”, XLII (2005), n. 160, pp. 806-821. In attesa di monografie specifiche, si veda comunque, a parte il già citato lavoro di Petersen: René Del Fabbro, Transalpini. Italienische Arbeitswanderung nach Süddeutschland im Kaiserreich 1870-1918, Osnabrück, Rasch, 1996, pp. 233-255; Adolf Wennemann, Arbeit im Norden. Italiener im Rheinland und Westfalen des späten 19. und frühen 20. Jahrhundert, Osnabrück, Rasch, 1997, pp. 168-171; Yvonne Rieker, „Ein Stück Heimat findet man ja immer“. Die italienische Einwanderung in die Bundesrepublik, Essen, Klartext, 2003, pp. 53-62.
[13] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 18-20. Sullo stato dell’integrazione, solo in parte riuscita (ma i dati sono contraddittori: da una parte viene rilevata una difficoltà scolastica e professionale e dall’altra numerosissimi matrimoni misti e intensi contatti con i tedeschi), degli italiani in Germania vedi i vari contributi in Italiener in Deutschland. Teilhabe oder Ausgrenzung?, a cura di Roberto Alborino e Konrad Pölzl, Freiburg im Breisgau, Lambertus-Verlag, 1998.
[14] Sull’immigrazione italiana in Germania prima del 1918 si vedano soprattutto i già citati: R. Del Fabbro e A. Wennemann. Sugli italiani in Germania prima del secondo dopoguerra invece in particolare: Brunello Mantelli, „Camerati del lavoro“. I lavoratori italiani emigrati nel terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, Firenze, La Nuova Italia, 1992; Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
[15] Marshall R. Singer, Cultura: un approccio percettivo, in: Milton J. Bennet (a cura di), Principi di comunicazione interculturale, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 110-121, qui pp. 110-117.
[16] Bruno M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi, Bologna, Mulino, 1997, p. 19.
[17] Ibid., p. 10.
[18] Ibid., p. 10.
[19] Ibid., p. 123.
[20] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., p. 32-37.
[21] Angelica Mucchi Faina, Comunicazione interculturale. Il punto di vista psicologico-sociale, Roma, Laterza, 2006, p. 45. L’autrice fa riferimento alle teorie di Peter Glick e Susan Fiske esposte in: P. Glick e S. Fiske, Sexism and Other “Isms”: Interdipendence, Status, and the Ambivalent Content of Stereotypes, in Sexism and Stereotypes in modern society, a cura di William B. Swann Jr., Judith H. Langlois, Lucia A. Gilbert, Washington D.C., American Psychological Association, 1999, pp. 193-221.
[22] Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 94-108.
[23] Ibid., pp. 133-144.
[24] E. Morandi, Italiener in Hamburg, cit., p. 117.
[25] Der Streik der Hafenarbeiter, „Hamburger Echo“, 25 novembre 1896.
[26] R. Del Fabbro, Transalpini, cit., pp. 233-249.
[27] Ibid., pp. 277-282.
[28] Andrea Hoffend, Zwischen Kultur-Achse und Kulturkampf, Frankfurt am Main, Peter Lang, 1998, pp. 25, 317.
[29] C. Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler, cit. p. 126.
[30] Cesare Bermani, Odyssee in Deutschland. Die alltägliche Erfahrung der italienischen „Fremdarbeiter“ im Dritten Reich, in Proletarier der „Achse“. Sozialgeschichte der italienischen Fremdarbeit in NS-Deutschland 1937 bis 1943, a cura di Cesare Bermani, Sergio Bologna e Brunello Mantelli, Berlin, Akademie, 1997, pp. 128-138.
[31] Ulrich Herbert, Fremdarbeiter. Politik und Praxis des „Ausländer-Einsatzes“ in der Kriegswirtschaft des Dritten Reiches, Bonn, Dietz, 1999, pp. 116-119.
[32] C. Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler, cit., pp. 122-137.
[33] I sondaggi venivano effettuati abbastanza regolarmente (1970, 1976, 1980, 1982, 1986, 1990, 1993, 1996), ma non rilevavano – comprensibilmente – tutta l’imbarazzante teoria degli stereotipi, bensì solo il grado di “fiducia” tra i vari popoli europei e tra questi ed alcuni popoli extraeuropei. Si veda: “Eurobarometro. L’opinione pubblica nella Comunità Europea”, a cura della Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, gli anni in questione. Ringrazio Sandro Rinauro dell’Università Statale di Milano per avermi segnalato questa fonte.
[34] “Heißblütig”. Dizionario alla mano, la traduzione sarebbe, per la verità, “focoso, impetuoso”. La traduzione letterale qui proposta rende forse meglio l’idea.
[35] Sondaggio di Singh Sodhi e Rudolf Bergius cit. in: E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 123, 124.
[36] Mazza Moneta sintetizza i risultati delle indagini di Rudolf Bergius (1970), di Dean Peabody (1969/70), dell’Institut für Demoskopie Allensbach (1982) e della Gesellschaft für Marktforschung (1984). A queste aggiungerei anche quelle dell’INFAS (Institut Für Angewandte Sozialwissenschaft) del 1963 e del già citato Eurobarometro. Secondo il sondaggio dell’INFAS gli italiani continuavano ad essere poco puliti e fannulloni, ma sarebbero stati anche, piuttosto inaspettatamente, poco simpatici e molto invadenti. Va detto peraltro che il questionario li metteva a confronto con svedesi, inglesi, francesi e israeliani, popoli che all’epoca non emigravano certo in massa in Germania da un paese povero e anzi, come gli svedesi, erano considerati nella RFT socialmente molto avanzati. Cfr. Institut für angewandte Sozialwissenschaft, INFAS Report Sonderheft: Unsere Nachbarn, Bad Godesberg, 1964, pp. 10-12. Per quanto riguarda i sondaggi Eurobarometro, nel 1976, nel 1980 e nel 1986 i membri di allora della CEE non avevano una gran considerazione degli italiani, sempre ultimi nell’indice di “fiducia”. Per i tedeschi in particolare, nel 1986 gli italiani venivano (tra i paesi della CEE da cui provenivano i Gastarbeiter in Germania) dopo spagnoli e greci, ma prima dei portoghesi. Cfr. “Eurobarometro. L’opinione pubblica nella Comunità Europea”, a cura della Commissione delle Comunità Europee, n. 25, Bruxelles, giugno 1986.
[37] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 123-133.
[38] Y. Rieker, „Ein Stück Heimat findet man ja immer“, cit., pp. 57-62.
[39] EMNID, “Informationen”, 1973, cit. in: Y. Rieker e R. Sala, Italiani in Germania, cit., p. 815. EMNID (Erforschung der öffentlichen Meinung, Marktforschung, Nachrichten, Informationen, Dienstleistungen) è un istituto fondato nel 1945 con l’obiettivo di effettuare ricerche di mercato, ma non solo.
[40] S. Rinauro, L’immagine della RFT, cit., p. 302.
[41] EMNID, “Informationen”, 1983, cit. in: Y. Rieker e R. Sala, Italiani in Germania, cit., p. 816.
[42] Mazza Moneta sintetizza qui i risultati delle indagini di Dean Peabody (1969/70), di Martina Gilles (fine degli anni Ottanta. Fanno qui anche capolino novità come l’attribuzione alla Germania di un ruolo di paese amico protettore degli italiani – ma l’indagine era stata fatta nelle scuole, il che potrebbe spiegare l’immagine un po’ “cavalleresca” del rapporto), di Elisabeth Geffers e Michael Strübel (1991) e della Gesellschaft für Rationelle Psychologie (1993).
[43] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 77-94.
[44] Ibid., pp. 219, 223, 229.
[45] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., p. 22.
[46] Si vedano le relazioni annuali in: Bundesarchiv, Bundesanstalt für Arbeit, B 119 / 3014, 3015, 3017, 3018.
[47] Bollettino della Doxa. I lavoratori italiani nella Repubblica Federale Tedesca, a cura dell’Istituto per le ricerche statistiche e l’analisi dell’opinione pubblica, Anno XXVIII, N. 6/7/8, 25 marzo 1974.
[48] Ibid., p. 40.
[49] S. Rinauro, L’immagine della RFT, cit., p. 302.
[50] Ibid., p. 297.
[51] Naturalmente dando per scontato che la loro percezione corrispondesse a quella veicolata da letteratura e pubblicistica. Il sondaggio purtroppo nulla dice sul sentimento dei migranti al loro arrivo concentrandosi su quello a conclusione dell’esperienza migratoria.
[52] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., p. 128.
[53] Cfr. “Eurobarometro. L’opinione pubblica nella Comunità Europea”, a cura della Commissione delle Comunità Europee, n. 46, Bruxelles, 1996, Tab. B. 46, B. 47.
[54] Vedi nota 36.
[55] Y. Rieker e R. Sala, Italiani in Germania, cit., pp. 817, 818.
[56] Segnalo solo alcuni dei numerosi articoli apparsi sui quotidiani italiani: Fabio Cutri, Toni l’italiano, in Germania lo spot delle polemiche, “Corriere della sera”, 26 maggio 2008; Alessandro Bocci, Toni sistema il falso Toni: “Ci temono”, “Corriere della sera”, 27 maggio 2008. Evidentemente preoccupato per eventuali boicottaggi, l’amministratore delegato della filiale italiana dell’azienda ha acquistato “a titolo personale” un’intera pagina de “La Repubblica” del 29 maggio 2008 per affermare, sotto un elenco tricolore di invenzioni (deprime vedere al terzo posto, dopo violino, occhiali e telescopio, il “fucile a ripetizione”) e capolavori dell’arte e della letteratura italiani, che gli italiani sono “un popolo di persone e non di stereotipi”.
[57] Su tutti, quello dell’articolo apparso sulla versione on-line del settimanale “Der Spiegel” nel giugno del 2006 in cui l’uomo italiano, pur ironicamente, veniva descritto in termini molto negativi.
[58] Estraniazione strisciante tra Italia e Germania?, a cura di Gian Enrico Rusconi, Thomas Schlemmer, Hans Woller, Bologna, Mulino, 2008. Ringrazio per la segnalazione del libro, uscito durante la stesura di questo articolo, l’amica e storica dell’emigrazione italiana in Argentina Federica Bertagna.
[59] Gian Enrico Rusconi, Le radici politiche dell’estraniazione strisciante tra Italia e Germania, in Estraniazione strisciante, cit., pp. 11-18, qui p. 16.
[60] Hans Woller, Sul mito dell’estraniazione strisciante, in Estraniazione strisciante, cit., pp. 25, 26.
[61] E. Mazza Moneta, Deutsche und Italiener, cit., pp. 87-90.
[62] Roberto Giardina, Guida per amare i tedeschi. Come superare i pregiudizi e smontare i luoghi comuni, Milano, Rusconi, 1994. Qualche ricaduta si registra per la verità in un libro di dieci anni dopo, dove si evidenzia la diversità della società tedesca contemporanea, liberale ed ecologista, rispetto a quella di qualche decennio fa, ma si afferma ancora per esempio senza tante storie che “il tedesco medio continua ad amare le regole e l’ordine in misura superiore ai suoi omologhi in altri paesi”. Vanna Vannuccini, Francesca Pedrazzi, Piccolo viaggio nell’anima tedesca, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 36.
[63] Valga per tutti l’articolo di Aldo Cazzullo prima della finale Olanda-Spagna : Pirati e galeoni, papisti e luterani. Una rivalità lunga cinque secoli, in: “Corriere della sera”, 11 luglio 2010.
[64] Anche qui, a titolo di esempio: Andrea Sorrentino, Siamo giovani, la nostra forza, “La Repubblica”, 2 luglio 2010; Sergio Romano, Rinascita di un grande paese. Virtù morali dei tedeschi, “Corriere della sera”, 13 luglio 2010; Gian Antonio Stella, Quei ragazzi tedeschi (ma da tutto il mondo), in: “Corriere della sera”, 29 giugno 2010.