inter.jpg

Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione internazionale di Torino del 1911

 

La città aveva allestito in passato due grandi esposizioni nazionali, nel 1884 e nel 1898: ciascuna di esse aveva segnato un significativo salto di innovazione rispetto al passato. L’esposizione del 1884 seguiva di tre anni l’Esposizione nazionale industriale di Milano del 1881, prima vetrina del progresso e della modernità del nuovo regno, e forse non casualmente era stata progettata fin dalla fine di quello stesso anno2. L’iniziativa era partita da un gruppo di professionisti e imprenditori riuniti nella Società promotrice dell’industria nazionale, avendo come principale riferimento quello delle esposizioni francesi, finalizzate alla illustrazione e alla promozione del “progresso”, e finanziate largamente dalle pubbliche amministrazioni3. Fu allora che il parco del Valentino venne scelto per la prima volta come sede espositiva, con un incremento di tre volte della superficie rispetto alla mostra di Milano del 1881. Fu anche allora che la mostra dell’elettricità conferì definitivamente all’evento il compito di indicare le strade future delle applicazioni industriali della ricerca scientifica, mostrando con la sua apertura serale i prodigi dei nuovi sistemi di illuminazione permessi dall’energia elettrica. Tanto la localizzazione quanto l’obiettivo vennero riconfermati dalla nuova esposizione che nel 1898 fu allestita per celebrare i cinquant’anni dello Statuto albertino. Anche in questo caso, la galleria dell’elettricità rappresentò una delle attrazioni principali, assieme ad altre testimonianze del progresso industriale. Fra le più spettacolari sono da annoverare la gara internazionale di automobili e motocicli che si organizzò sul percorso di Torino-Asti-Alessandria-Torino, e la messa in mostra del telegrafo senza fili, inventato appena l’anno prima da Guglielmo Marconi4. Nel 1906 l’inaugurazione del tunnel del Sempione aveva fornito l’occasione per la prima esposizione internazionale di Milano, dedicata al tema dei trasporti, attinente appunto al nuovo collegamento ferroviario e all’incremento degli scambi di cui costituiva premessa e requisito5.

L’Esposizione Internazionale di Torino del 1911 aveva quindi come riferimenti diretti quella del 1898 e quella del 1906 a Milano, collocandosi in una tradizione ormai sedimentata di mostre dedicate alla modernità e alle sue espressioni nel regno di cui si celebrava il cinquantenario. L’esempio principale era tuttavia l’esposizione di Parigi del 1900, che era risultata ineguagliata nella sua grandiosità, anche per la circostanza che a Milano nel 1906 molti padiglioni erano stati devastati da un incendio alla vigilia dell’inaugurazione. Per la città, come ha affermato Pier Luigi Bassignana, “se l’Esposizione del 1898 aveva segnato l’ingresso di Torino nella modernità, le celebrazioni del 1911 avrebbero dovuto consacrarne l’avvenuta trasformazione in metropoli industriale”6. La commissione esecutiva dell’esposizione, presieduta da Tommaso Villa, iniziò fin dal 1907 a lavorare alla programmazione dell’evento, raccogliendo l’adesione di oltre venti paesi, grazie all’impegno di molti esponenti del mondo culturale cittadino.

2. – La mostra del lavoro italiano all’estero

Come già era avvenuto in occasione dell’Esposizione internazionale di Milano del 1906, venne anche deciso di dedicare un padiglione all’argomento Colonizzazione, emigrazione, colonie. Il tema fu suddiviso in due sezioni, una prima dedicata alla colonizzazione interna ed estera e all’emigrazione e una seconda riguardante il lavoro degli italiani all’estero. La circostanza che la collocazione di questi temi fosse posta nelle classi rispettivamente 163 e 164 del programma, che ne prevedeva 167, fa intuire che l’argomento non fosse considerato fra quelli centrali dell’esposizione. L’appello alla partecipazione suonava tuttavia particolarmente caloroso:

La Commissione esecutiva dell’Esposizione di Torino, conscia dei sentimenti di schietto patriottismo vibranti nel cuore di quella parte del popolo italiano che in terre lontane con un lavoro proficuo onora la madre Patria rivolge un caloroso appello a tutti gli italiani all’estero, perché, col concorso prezioso delle loro opere e dei loro prodotti, vogliano prender parte all’Esposizione7.

Sulla scia di quanto era stato già fatto a Genova in occasione dell’Esposizione colombiana del 1892, all’Esposizione di Torino del 1898 e a quella di Milano del 1906, si progettava dunque ancora una volta di dare spazio e opportunità agli esiti dell’emigrazione italiana8. Anche in questo caso si chiamavano i protagonisti dell’emigrazione a presentare i risultati raggiunti, perseguendo due obiettivi. Il primo era quello di “mostrare che l’Italia non è soltanto una grande potenza politica, ma che in cinquant’anni di operosità e di costanza di propositi, ha saputo assurgere a grande potenza economica”. Il secondo era di offrire l’opportunità di illustrare le potenzialità produttive degli espositori, in “una sintesi armonica di tutto il lavoro che gli italiani hanno fin qui compiuto in paesi esteri”. Per comprendere quale ruolo abbia assunto questo allestimento nella lunga storia della rappresentazione dell’esodo dal nostro paese è utile innanzitutto osservare brevemente le modalità espositive prescelte.

La prima delle due classi in cui era suddiviso l’argomento avrebbe dovuto riguardare gli aspetti istituzionali dell’emigrazione, menzionando statistiche, cause, natura, direzione e azione dei governi, nonché gli istituti privati volti alla tutela dell’emigrazione. Nella seconda, volta a illustrare il lavoro degli italiani all’estero, si intendeva distinguere fra le cosiddette colonie di stato, che erano l’Eritrea e il Benadir, e quelle che venivano definite come colonie libere, costituite dalle innumerevoli destinazioni dell’esodo italiano, in un elenco che iniziava con l’India, l’Australia e l’Estremo Oriente, per seguitare con le Americhe, del nord e del sud, il Levante e l’Europa. Per ciascuna di queste destinazioni si voleva dare conto dei vincoli con la madrepatria, delle varie attività produttive, con particolare riguardo ai prodotti d’esportazione speciali per i diversi paesi, ma anche dell’assistenza, della beneficenza, dell’associazionismo.

Al lavoro degli italiani all’estero, che prese poi il nome di Mostra degli italiani all’estero, già assunto nel 1906 a Milano, venne dedicato un suntuoso edificio, collocato sulla sponda opposta del Po, nel quartiere allora denominato Pilonetto, collegato da un apposito ponte provvisorio al Valentino, sede centrale dell’Esposizione9. Il padiglione era adorno di un arco sovrastato da una cupola centrale, affiancato da due torrioni ad arcate, definiti come “minareti”, ed espressione dello stile dominante, indicato come “trionfo del barocco di buon gusto”. La Guida generale dell’Esposizione lo indicava come una delle mostre principali, in quanto in esso ritrovava “un saggio sincero e geniale della natura e della potenza di tutto il lavoro che gli italiani hanno fin qui compiuto nei paesi stranieri”10.

L’organizzazione degli spazi espositivi si riprometteva di dare conto della vastità temporale, oltre che spaziale, dell’esodo dalla penisola. Una sezione introduttiva doveva infatti essere dedicata al passato migratorio: immagini di mercanti medievali “dominatori di fiere e di fondaci”, foto e modelli delle opere “che i nostri artisti del Rinascimento disseminarono in tutta Europa”, ma anche, a completamento della sezione, una galleria di ritratti di quei grandi “che furono araldi indomiti e tenaci dell’idea del nostro risorgimento politico”11. Di seguito il visitatore avrebbe trovato la mostra dei trasporti marittimi, organizzata dalle stesse compagnie di navigazione, in cui l’illustrazione delle radicali trasformazioni del naviglio sarebbe stata affidata anche a proiezioni cinematografiche della vita di bordo. Altre immagini avrebbero accompagnato alla conoscenza dei molti diversi paesaggi, ma anche dei molti luoghi, miniere, ferrovie, ponti, dighe e strade dove si trovavano ad agire gli emigranti italiani, senza dimenticare gli aspetti anche più desolati dell’esistenza degli emigranti nelle tenement houses delle metropoli statunitensi. Per la prima volta sarebbe stato possibile anche far conoscere al pubblico il complesso di istituzioni preposte al soccorso e alla tutela degli emigranti e fra queste grande spazio sarebbe stato dedicato al Real Commissariato per l’emigrazione, che avrebbe esposto inchieste, statistiche, monografie, cartogrammi, illustrando l’evoluzione dell’emigrazione italiana degli ultimi quarant’anni.

Il padiglione risultò composto da quattro gallerie comunicanti, che si diramavano lungo il portico della piazza d’onore. Le prime due gallerie, che si aprivano su di un vestibolo dedicato alla Società Dante Alighieri e dominato dalla statua di Dante, illustravano le principali “colonie libere” all’estero, in Europa e nel Mediterraneo e anche oltreoceano. La loro rappresentazione venne affidata alle concrete attività che di volta in volta caratterizzavano la presenza italiana: foto di ristoranti e di alberghi per gli italiani di Londra e di Parigi, foto e disegni di realizzazioni di infrastrutture in Svizzera e in Austria, dove la manodopera al lavoro era stata prevalentemente italiana o dove lo erano anche le ditte appaltatrici12. Altri spazi di queste prime due gallerie erano dedicati alla collezione dei giornali italiani pubblicati all’estero, alla Società geografica italiana e alla Compagnia di navigazione generale italiana. La terza galleria ospitava, oltre all’esposizione delle missioni salesiane, le immagini di Tripoli e di Tunisi e quelle delle colonie di Eritrea e di Somalia, dove più si accalcava la folla dei visitatori. A conclusione del percorso, stavano i materiali esposti dal Ministero degli esteri riguardanti l’emigrazione: grafici e statistiche, dati quantitativi e curve di evoluzione del fenomeno. La quarta e ultima galleria illustrava infine le scuole italiane all’estero, delle quali le più importanti risultavano essere all’opera in Tunisia, a Tripoli, in Egitto, in Albania e a Salonicco, in Grecia. A suo coronamento questa sezione includeva la mostra storico-artistica, dedicata a tutte quelle opere d’arte che in Europa e nel Mediterraneo erano state realizzate da italiani; la descrizione di tale mostra ci fornisce una informazione rilevante: essa si componeva di fotografie che ritraevano

Documenti e ricordi delle colonie mercantili medievali che diffusero la civiltà e la cultura latina, ed estesero coi traffici abili e larghi l’influenza italiana nel Mediterraneo, dove durano ancora saldi i monumenti delle conquiste veneziane genovesi e pisane; i documenti e i ricordi delle opere di scultura, di pittura, di architettura, che i nostri artisti eseguirono in Francia, Spagna, Portogallo, Ungheria ecc. imponendo la geniale arte italiana…13.

È possibile tentare di valutare la completezza e l’efficacia dei materiali espositivi, seguendo le orme della giuria. Per quanto riguarda la sezione del lavoro svolto all’estero, la risposta degli italiani all’appello a partecipare deve essere stata inferiore alle aspettative, a giudicare dalla circostanza che il quadro fornito venne valutato come limitato e incompleto, “per molte ombre, molte sfumature, che avrebbero potuto essere più intensamente lumeggiate da un maggior numero di espositori”14. L’importante però era che il pubblico aveva potuto comprendere che gli italiani non esportavano solo “picconi e vanghe”, ma anche “la mente che dirige, il genio che crea pensiero elevato ed ardito”. Anche il settore delle scuole italiane all’estero fu in parte deludente: il loro numero, di circa trecento, non si era incrementato rispetto all’esposizione di cinque anni prima. Soprattutto, alcuni aspetti vennero giudicati carenti: mancavano o erano presentate in modo non omogeneo e comparabile le monografie sulle singole scuole, i programmi didattici e anche le prove scritte degli allievi che dimostrassero l’efficacia dell’insegnamento. Dall’America settentrionale e da quella centrale non giungevano notizie; tanto che la Commissione della Mostra aveva dovuto inviare Giovanni Preziosi a New York, dove aveva raccolto i materiali per una mostra delle scuole elementari pubbliche di quella città, che “tanto utili sono per i nostri emigranti”. Quanto agli insediamenti nel Levante, nonostante alcune eccezioni formate dalle direzioni delle scuole di Alessandria d’Egitto e di Tunisi, si doveva lamentare l’eccessivo affollamento delle classi, che arrivavano fino anche a cento alunni. Questo determinava un risultato “scarsissimo” in termini di profitto, tanto che fra tutte le scuole del Levante compariva una sola prova scritta di dettato15. Perfino le società italiane di Mutuo soccorso di Buenos Aires, che avevano inviato una importante monografia, non avevano scorporate da questa le informazioni sulle scuole. Le società italiane all’estero, che per la terza volta dopo il 1898 e il 1906, rispondevano all’appello di inviare documentazione sulla propria storia e la propria attività, avevano prodotto materiali abbastanza copiosi, ma non ancora soddisfacenti, soprattutto perché mostravano come troppo spesso esse non fossero riuscite ad “allontanarsi dal modello primitivo della semplice beneficenza e della mutua assistenza”, coltivando sentimenti angusti di regionalismo e di campanilismo e non riuscendo ad evolvere verso forme, che la giuria riteneva auspicabili, “più moderne associative”, come la cooperazione16. Anche le monografie vennero ritenute insoddisfacenti, tanto che nessuna di esse, neppure la migliore, che ancora una volta, dopo il 1898 e il 1906, era quella riguardante gli italiani in Argentina – un volume di 286 pagine preparato per celebrare il giubileo d’Italia – meritò la medaglia d’oro assegnata dal sovrano17. Solo soddisfacenti venivano ritenute le sezioni della stampa, che si componeva di 90 giornali, cifra tuttavia ben inferiore a quella di 289, censita dalla monografia sulla stampa italiana all’estero pubblicata in occasione dell’Esposizione del 190618. Di particolare rilevanza furono invece giudicate le sezioni dedicate agli istituti di protezione degli emigranti, sia governativi che privati e ancora di più il cosiddetto stand speciale della Società nazionale Dante Alighieri, cui si aggiungevano le realizzazioni dell’Istituto coloniale italiano di Roma e dell’Istituto agricolo coloniale di Milano, che assieme alla Reale Società geografica e alla Missione archeologica formavano un complesso “indice di un sapiente indirizzo di studi verso le grandi questioni riguardanti gli interessi dell’Italia all’estero”19.

Valutazioni ancora più positive ottennero la mostra storico-artistica e quella delle colonie di diretto dominio, affiancate in modo forse non casuale. La prima era quella iniziata dal Comitato di Milano nel 1906, continuata dalla Commissione torinese, e, a causa del suo interesse, già prenotata dal Comitato dell’Esposizione di Genova del 1914, che non sarebbe mai stata inaugurata. Insomma, le immagini erano le stesse presentate a Milano cinque anni prima e quindi già pubblicate in uno dei volumi della collana che in tale occasione era stata dedicata alla Mostra degli italiani all’estero20. Le rappresentazioni di fortezze, castelli, fondaci e porti costruiti agli albori del millennio dalle repubbliche marinare vennero inoltre giudicate di tale rilevanza da meritare di essere incrementate, facendone eseguire nuove fotografie nelle isole dell’Egeo. L’obiettivo era di riaffermare quella che veniva presentata come una vocazione millenaria di scambi e di colonizzazione21.

Era esattamente quanto si illustrava nella parte dedicata alle colonie dell’Eritrea e della Somalia, che trovava la sua ragion d’essere nella dichiarata continuità che si stabiliva fra “l’opera delle colonie mercantili medievali” e “l’opera colonizzatrice dell’Italia moderna”.

3. – Colonialismo e genio italico

L’impianto della mostra, deducibile dalle descrizioni del giornale ufficiale dell’esposizione e dalla relazione della giuria, era largamente debitore a quello della mostra degli italiani all’estero presentata a Milano nel 1906. La sezione storico artistica, che era addirittura la medesima, costituiva un tassello portante del progetto, in quanto l’illustrazione delle tracce di dominio passato e le testimonianze delle tradizioni artistiche italiane disseminate in Europa erano funzionali all’obiettivo di nobilitare i caratteri dell’emigrazione contemporanea.

Bernardino Frescura, nella sua descrizione del padiglione intitolato Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione Internazionale di Torino 1911 accennava con naturalezza a “miniere, ferrovie, ponti dighe e strade, di cui le linee architettoniche portano di frequente l’impronta del genio artistico italico”, ma anche alle grandi realizzazioni produttive e alle capacità professionali esportate da “medici, chirurghi… matematici, astronomi, archeologi… ingegneri, architetti, pittori e scultori… i quali tutti attestano luminosamente che l’Italia non solo esporta picconi e vanghe… ma anche menti che dirigono, il genio che crea, un senso profondo d’arte, invidiata caratteristica della nostra razza, che plasma monumenti ed edifici, il pensiero elevato ed ardito…”22. La dimostrazione più efficace di questo aspetto non si trovava tuttavia nel padiglione della Mostra degli italiani all’estero ma in quello dell’Argentina. Qui la costruzione neoclassica progettata dall’architetto Rolando Levacher, che, dopo gli studi condotti in Italia, aveva trovato in Argentina la sua piena affermazione professionale, riecheggiava gli stilemi dei molti edifici pubblici realizzati nella repubblica platense da altri architetti italiani, dal teatro Colombo di Buenos Aires, firmato dagli architetti Tamburini e Meano, alla biblioteca nazionale, progettata dall’architetto Carlo Morra23.

Senza dubbio, nel padiglione dedicato al lavoro degli italiani all’estero l’esaltazione del “genio italico” aveva fatto dei progressi rispetto a cinque anni prima. Ancora di più ne aveva fatti il vocabolo colonia24. Già nel programma è bene evidente l’utilizzo ibrido del termine “colonia”, usato indifferentemente per gli insediamenti dell’emigrazione italiana, le cosiddette colonie libere, e per i territori conquistati in Africa e in Asia, definiti come colonie di stato25.

Molti indizi indicano che la mostra delle colonie cosiddette di diretto dominio fosse probabilmente la più importante mai dedicata al colonialismo del regno. La mostra dell’Eritrea, che riproponeva i materiali già esposti a Firenze e a Ravenna nel 1903 e nel 1904, e poi ripresi a Milano nel 1906, dove aveva conseguito il Gran Premio della giuria, veniva ritenuta come “la più completa, la più importante, la più interessante”26. Divisa in tre sezioni, dedicate rispettivamente alla Direzione di colonizzazione, al Comitato eritreo per la mostra, e alle attività dei liberi coloni, la mostra illustrava le produzioni agricole, indicava i prodotti e i manufatti possibile oggetto di scambio commerciale e infine le produzioni avviate dai coloni italiani. Inoltre si mostrava dal vivo la potenziale ricchezza dei nuovi territori, animando il villaggio eritreo con le realizzazioni di artigiani al lavoro in abitazioni che riproducevano quelle africane, e affiancandovi anche un villaggio somalo, che a sua volta permetteva di osservare “la vita sociale di quelle selvagge popolazioni”27. Nelle Guide dell’esposizione l’aspetto esotico era dominante, piuttosto che la rinnovata aggressività coloniale: erano “le parfum de pays sauvages, une buffée de vent du désert africain” che attiravano il pubblico al padiglione dell’Eritrea, e le accurate ricostruzioni etnografiche a quello della Somalia28. Tale formula aveva già nelle esposizioni passate decretato il successo degli allestimenti di villaggi abissini, delle esibizioni di danze rituali e di costumi folklorici, mostrati come emblemi dell’esotico non meno che come trofei del colonialismo, nella miglior tradizione delle esposizioni europee29. L’intento esplicito, dimostrato dalla relazione che era stato inviata a proposito della mostra al Ministero degli affari esteri, era tuttavia di dimostrare che per questa colonia non erano più appropriate le immagini “delle sterili e infuocate sabbie… dei riarsi deserti rossigni stendentisi a perdita di vista sotto le fiammate vampe del sole dei tropici… di tentativi di colonizzazione inesorabilmente falliti”30. Adesso si potevano finalmente mostrare i successi della politica coloniale.

Delle due importanti novità che contribuivano a rendere la mostra delle colonie più ricca di quanto non fosse mai stata, la prima era appunto la Somalia italiana, rappresentata da cinque collezioni etnografiche e dal villaggio31. La seconda era costituita dalla Libia, il cui stand era stato affiancato di proposito a quello della Tunisia, in quanto le due regioni rappresentavano “l’una l’aspirazione, rimasta purtroppo sterile, della necessaria espansione italiana sulle coste dell’Africa mediterranea….; l’altra, l’assillante preoccupazione di vedere altre nazioni stendere su quelle terre l’ombra della loro bandiera, quasi minacciose per la stessa integrità della patria”32. Nei confronti di quest’ultima parte della mostra, al Banco di Roma era spettato di illustrare “l’opera di pacifica penetrazione economica svolta in quelle regioni” iniziata nel 1907 con l’apertura della prima filiale a Tripoli. Ma il trionfo sarebbe giunto con l’entusiasmo del pubblico nel corso stesso dell’esposizione, “quando l’audace sbarco a Tripoli di Cagni e dei suoi ‘garibaldini del mare’ segnò per l’Italia l’inizio di una nuova era coloniale, ed il nostro bel tricolore sventolò sullo stand di Tripoli”33. A parte il Banco di Roma, gli espositori per l’ultimissima colonia erano pochi, tuttavia erano “indici di un programma coloniale ripreso con mano sicura”34.

Ci si può a questo punto interrogare sui significati di questa enfasi crescente su quello che si indicava come “colonialismo di stato”, piuttosto che sulle libere colonie sedimentate dai percorsi dell’emigrazione. Essa risulta infatti ben leggibile negli slittamenti dell’attenzione da queste ultime ai fasti delle conquiste territoriali, teorizzate con tutto l’armamentario della retorica nazionalista, registrati dalla Mostra degli italiani all’estero nel 1906 e nel 1911. La domanda è se quell’enfasi corrispondesse a un progetto complessivo e a una strategia consapevole, che intendesse fondare sui due strumenti dell’emigrazione e delle acquisizioni coloniali un compiuto disegno imperialista35. In occasione della mostra del 1911 certo l’accento fu posto con molta decisione sulla politica coloniale, che proprio in quell’estate sembrava cogliere vittorie a lungo inseguite e negate36. Tale entusiasmo colonialista tuttavia non deve far dimenticare che nella società e nel dibattito politico la visione si mantenne assai più articolata, anche in quelle settimane della mostra torinese. Dall’11 al 20 giugno, nell’ambito delle iniziative etnografiche che si svolgevano a Roma, ebbe luogo il secondo congresso degli italiani all’estero, in cui l’articolata relazione commissionata alla studiosa Amy Bernardy (su cui verte un altro scritto di questo fascicolo) dava conto di luci e ombre dell’esodo dalla penisola. Mentre a Torino prevalse il volto più aggressivo del colonialismo, in altre sedi si producevano analisi rimaste poi insuperate per capacità di cogliere la complessità del fenomeno migratorio, come nei lavori congressuali a Roma, e come avvenne nella prima storia dell’emigrazione italiana pubblicata quell’anno da Francesco Coletti37.

Un altro indizio della grande etereogenità di posizioni si potrebbe trarre dalla circostanza che Luigi Einaudi, pur invitato fin dalla fase preparatoria, declinò ogni offerta di partecipazione all’evento. Già nel 1907 gli era stato chiesto di presiedere la sezione Economia sociale, Istituti di previdenza e assistenza, associazioni cooperative; al suo rifiuto era seguito un secondo invito a far parte della Commissione speciale per la compilazione del programma della sezione “Colonizzazione interna ed estera”, presieduta dall’Onorevole Paolo Borselli38. Ma le sue idee sulla colonizzazione l’economista piemontese le aveva già espresse anni prima in modo inequivocabile, bollando i progetti che affidassero la realizzazione della “grande Italia” alla conquista militare, piuttosto che alla pacifica espansione dei traffici e dei commerci, come “visioni pazze di espansioni coloniali in paesi ingrati e fecondi solo di sangue e di vergogna”39.

L’esposizione milanese del 1906 aveva mostrato con molti segnali che nella costruzione della Grande Italia si affacciava la strategia di privilegiare le colonie piuttosto che i successi economici dell’emigrazione40. Nella Mostra degli italiani all’estero del 1911 questa strada era stata ormai intrapresa risolutivamente, e aveva trionfato negli entusiasmi estivi per la conquista della Libia, ma nella società civile i progetti operanti attorno all’emigrazione e al colonialismo si mantenevano diversificati e connotati da grandi divergenze di opinione. La mostra torinese pagò un tributo molto elevato alla retorica colonialista, ma le sedi in cui si analizzavano caratteristiche, costi e vantaggi dell’emigrazione italiane erano altre.

Note al testo:

 

1 Pier Luigi Bassignana, Torino effimera. Due secoli di grandi eventi, Torino, Edizioni del Capricorno, 2006, pp. 140 e sgg. Desidero qui ringraziare Pier Luigi Bassignana, che con grande cortesia ha reso possibile questa ricerca, mettendomi a disposizione il suo archivio presso i locali dell’AMMA (Aziende Meccaniche Meccatroniche Associate) di Torino.

2 Per l’esposizione di Milano del 1881 cfr. Ilaria Barzaghi, Milano 1881: tanto lusso tanta folla. Rappresentazione della modernità e modernizzazione popolare, Milano, Silvana, 2009; Enrico Decleva, L’Esposizione del 1881 e le origini del mito di Milano, in Dallo stato di Milano alla Lombardia contemporanea, a cura di Silvia Pizzetti, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1980, pp. 181-211; Carlo G. Lacaita, Esposizioni industriali e sviluppo economico a Milano tra Otto e Novecento, in Industria e conoscenza. La Camera di commercio di Milano, le Esposizioni industriali e le “gite di istruzione”degli operai lombardi alle Esposizioni internazionali (Parigi 1900 – Bruxelles 1910), a cura di Emilio Gramegna, Milano, Camera di Commercio, industria, artigianato e agricoltura di Milano, Fondazione Giacomo Brodolini, 1997, pp. 13-31.

3 Linda Aimone, Nel segno della continuità. Le prime esposizioni nazionali a Torino (1884 e 1898), in Tra scienza e tecnica. Le esposizioni torinesi nel documenti dell’Archivio storico Amma 1829-1898, a cura di Pier Luigi Bassignana, Torino, Umberto Allemandi & C., 1992, pp. 147 e sgg.

4 Ibid., p. 158.

5 Sull’Esposizione internazionale di Milano del 1906 cfr. in particolare, Milano 1906. L’Esposizione internazionale del Sempione. La scienza, la città, la vita, a cura di Pietro Redondi, Paola Zocchi, Milano, Guerini & associati, 2006; Milano e l’Esposizione internazionale del 1906. La rappresentazione della modernità, a cura di Patrizia Audenino, Maria Luisa Betri, Ada Gigli Marchetti, Carlo G. Lacaita, Milano, FrancoAngeli, 2008.

6 Pier Luigi Bassignana, Torino effimera. Due secoli di grandi eventi, cit., p.140

7 Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro, Torino, aprile-ottobre 1911, Programmi e classificazione, Torino, Grafica Editrice Politecnica, 1911, pp. 96-97.

8 “L’Esposizione illustrata di Milano 1906”, giornale ufficiale del Comitato esecutivo, febbraio 1906, dispensa n. 8; cfr. pure Esposizione Internazionale di Milano 1906, Mostra “Gli italiani all’estero”, Collana di studi e documenti scelti dal materiale esposto alla Mostra “Gli italiani all’estero”, vol. II, Diplomi e medaglie assegnati dalla giuria, Milano, Fratelli Bocca, 1907, p. 13, L’idea della Mostra e gli ordinatori.

9 Pier Luigi Bassignana, Torino effimera. Due secoli di grandi eventi, cit., p.154.

10 Guida generale Esposizioni Torino – Roma 1911, La mostra degli italiani all’estero, p.192.

11 Bernardino Frescura, Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione Internazionale di Torino 1911, “L’esposizione di Torino 1911, Giornale ufficiale illustrato della Esposizione internazionale della Industria e del Lavoro”, Torino, Stabilimento tipografico Momo, a. I, n. 10, ottobre 1910, pp. 145-147.

12 Guide Officiel de l’Exposition Internationale, Turin, Imprimerie Dott. Guido Momo, 1911, p. 190-202.

13 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, Torino, Officine grafiche della società editrice internazionale (S.T.E.N.), 1915, p. 845 e sgg.

14 Ibid., p. 851.

15 Ibid., p. 852.

16 Ibid., p. 854.

17 Ibid., p. 855 e Pasquale De Luca, La primavera della patria: il giubileo d’Italia e le esposizioni del 1911, Buenos Aires, Torrentes, 1911.

18 In realtà i giornali censiti in quell’occasione furono 472, di cui 182 pubblicati nelle regioni di lingua italiana separate politicamente dal Regno, e 289 nelle collettività italiane all’estero. Cfr. Mostra “Gli italiani all’estero”, vol. IV, I giornali italiani all’estero, Milano, Bocca, 1909, p. 13.

19 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, p. 857.

20 Mostra “Gli italiani all’estero”, vol. III, Catalogo descrittivo della mostra storico-artistica, Milano, Bocca, 1907.

21 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, cit. p. 846.

22 Bernardino Frescura, Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione internazionale di Torino 1911, “L’Esposizione di Torino 1911”, a. I, n. 10, ottobre 1910, pp. 145-148. Frescura era anche uno dei quattro membri della giuria preposta alle classi espositive Colonizzazione-Colonie-Emigrazione.

23 Cfr. La partecipazione della Repubblica argentina, “L’Esposizione di Torino 1911”, a. II, n. 15, febbraio 1911, pp. 235-238; anche Emilio Zuccarini, Il lavoro degli italiani nella repubblica argentina 1516-1910, Buenos Aires, Officine grafiche della Compagnia de Fosforos, 1909; sull’architetto Francesco Tamburini cfr. Amoreno Martellini, I candidati al milione. Circoli affaristici ed emigrazione d’élite in America Latina alla fine del XIX secolo, Roma, Edizioni Lavoro, 2000, pp. 89 e sgg. Sul teatro Colon di Buenos Aires cfr. ora anche Edgardo Salamano, Il teatro Colon di Buenos Aires, “TAO, Transmitting Architecture Organ”, 04, 2010, Capitali italiane nel mondo 1861-2011, p. 27.

24 Per quanto riguarda le cosiddette “colonie libere” cfr. Gigliola Dinucci, Il modello della colonia libera nell’ideologia espansionistica italiana. Dagli anni ’80 alla crisi di fine secolo, “Storia contemporanea”, 10, 3 (1979), pp. 427-479, Daniel Grange, Emigration et colonies: un grand débat de l’Italie libérale, “Revue d’Histoire moderne et contemporaine”, 30 (1983), pp. 337-365; Emilio Gentile, L’emigrazione italiana in Argentina nella politica del nazionalismo e del fascismo, “Storia contemporanea”, 17, 3 (1986), pp. 355-396.

25 Le implicazioni di tale sovrapposizione di significati sono state indicate di recente da Maddalena Tirabassi, che ne ha colto anche la successiva deriva nazionalista. Cfr. Maddalena Tirabassi, I luoghi della memoria delle migrazioni, in Storia d’Italia Annali, 24, Migrazioni, a cura di Paola Corti, Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 713-714.

26 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, cit., p.846¸ cfr., pure Mostra “Gli italiani all’estero”, vol. II, Diplomi e medaglie assegnati dalla giuria, Milano, Fratelli Bocca, 1907, p. 134.

27 Ibid., p.847; cfr. pure Il villaggio eritreo all’Esposizione di Torino, “ L’Esposizione di Torino. 1911” , n. 19, 15 aprile 1911, p. 293, e Villaggio eritreo, ibid., n. 24 giugno 1911, pp. 393-394; Villaggio somalico all’Esposizione, ibid., n. 21, 10 maggio 1911, p. 340.

28 Guide Officiel de l’Exposition Internationale, cit. p. 197.

29 Sul ruolo dei villaggi africani, cfr. ad esempio Cristina Accornero, Meraviglia, divertimento e scienza. L’immagine dell’Africa attraverso le esposizioni torinesi, in L’Africa in Piemonte tra ‘800 e ‘900, a cura di Cecilia Pennacini, Torino, Regione Piemonte, 1999, pp. 74-86.

30 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, cit, p. 846.

31 “L’Esposizione di Torino 1911” cit., n. 21, 10 maggio 1911, Villaggio somalico.

32 Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, cit., p. 848.

33 Ibid., pp. 848-849.

34 Ibid.

35 Per la riproposizione di tale interpretazione cfr. Mark I. Choate, Emigrant Nation. The making of Italy abroad, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 2008.

36 Cfr. Luigi Giglia e Fabio Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Roma-Bari, Laterza 1993; Angelo Del Boca, Gli italiani in Libia, Milano, Mondadori 1997; Id., L’Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori e sconfitte, Milano, Mondadori, 2002; Id. Italiani brava gente?, Firenze, Neri Pozza, 2005; Id., A un passo dalla forca. Atrocità e infamie dell’occupazione italiana della Libia nelle memorie del patriota Mohamed Fekini, Milano, Baldini e Castoldi, 2007; Nicola Labanca, In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993; Id., Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002; Daniele Natili, Una parabola migratoria. Fisionomie e percorsi delle collettività italiane in Africa, Viterbo, Sette Città, 2009 (“Archivio storico dell’emigrazione italiana”, Quaderni 5).

37 Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana, in Cinquant’anni di storia italiana, Milano, Hoepli, 1911.

38 Fondazione Luigi Einaudi, Torino, Archivio Luigi Einaudi, Busta 2, Esposizione internazionale dell’industria e del lavoro, Torino 1911.

39 Luigi Einaudi, Un principe mercante, Torino, Bocca, 1900, p. 160. Cfr. al riguardo anche Giuseppe Prato, Per l’emigrazione italiana nell’America Latina, “La riforma sociale”, 7 (1900), pp. 104-116 ora anche in Zeffiro Ciuffoletti e Maurizio Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Firenze, Vallecchi, 1978, pp. 307-19. Prato fu anche l’unico studioso dell’emigrazione italiana a far parte della giuria della sezione Lavoro degli italiani all’estero. Cfr. Esposizione Internazionale dell’Industria e del Lavoro, Torino 1911, Relazione della giuria, cit., p. 269.

40 Cfr. Patrizia Audenino, La Mostra degli italiani all’estero: prove di nazionalismo, in Milano e l’Esposizione internazionale del 1906. La rappresentazione della modernità, cit., pp. 111-124.