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Matteo Sanfilippo intervista Ettore Melani

 

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Perché e quando hai deciso di girare il tuo documentario?

Ho deciso di girare il documentario nel 2006 quando quattro fra i miei più cari amici, nel giro di pochi anni, hanno deciso di lasciare Prato ognuno per una diversa capitale Europea: Praga, Berlino, Amsterdam e Santiago de Compostela. La loro è stata un’emigrazione lenta, graduale, ponderata. Simile a quella che dal 1982 al 2002 hanno fatto i miei genitori con il piccolo Ettorino al seguito: la mia famiglia è siciliana, di Palermo per la precisione, e mio padre ha lavorato all’ANIC di Gela dal 1963, in una raffineria di petrolio del gruppo ENI. Poi un giorno, ottobre 1982, è partito per l’Algeria con la famiglia. Dal quel giorno hanno fatto ritorno in Sicilia dopo vent’anni passando per Roma (5 anni) e Prato (15 anni).

Ed è a Prato, che ho iniziato a rendermi conto, scherzandoci sopra con gli amici, che quelli come me sono “figli d’emigranti”! Nel caso dei miei genitori, siciliani che si spostano per lavoro dal sud al centro-nord è stato facile, quasi naturale, identificare questi spostamenti come emigrazioni, perché riconducibili ai “vecchi” canoni dell’ emigrazione.

Troisi in un film diceva che un napoletano non può viaggiare: appena esce da Napoli un napoletano diventa un emigrante! Ma quando 4 giovani, 3 ragazzi e una ragazza tra i 25 e i 30 anni nel 2006, hanno deciso di “cercare altrove miglior fortuna”, lasciando una cittadina ricca e laboriosa come Prato, allora la cosa si è fatta più difficile, c’è voluto “un altro occhio”, lo sguardo di qualcuno che aveva già vissuto un’ esperienza simile, per riconoscere in quei trasferimenti (per amore o per lavoro o tutti e due) delle vere e proprie emigrazioni.

È così che ho iniziato a girare Un giorno in Europa ed è così che ho scoperto quanti “nuovi emigranti” lasciano i propri Paesi d’origine, oggi come 50 anni fa, seguendo però degli iter che non sono più quelli di una volta perché nel frattempo l’Europa, l’euro, i low cost hanno aperto nuove possibilità e dato vita a queste nuove forme di emigrazione.

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Perché sei emigrato dopo aver girato il tuo documentario?

I nuovi emigranti iniziano a raccontare la nuova realtà in cui vivono e a confrontarla con quella da cui provengono, vivono per un periodo a Prato e per un periodo all’estero, fanno i loro conti e lasciano il loro Paese d’origine “per cercare altrove miglior fortuna”. Ed io lì ad ascoltare le loro storie, a tagliarle e cucirle per metterle insieme e poterle raccontare agli altri, per cercare di dare voce a loro e a quelli che, come loro, stanno dando vita ad un fenomeno che è grande e che sta accadendo adesso, oggi, in questi anni.

Da qui il passo è stato breve: il mio lavoro di tecnico teatrale non mi dava più le certezze economiche e le soddisfazioni che mi aveva dato negli ultimi 10 anni, i compromessi si facevano sempre più svantaggiosi per me a favore delle produzioni teatrali che lamentavano la mancanza di fondi e di sbocchi; il sapore del caffè al bar era sempre più amaro corretto da quella lamentela cronica che accomuna gli italiani da Trieste a Palermo e…

E allora mi ricordo che Berlino è una metropoli a misura d’uomo, dove una sopravvivenza dignitosa costa “ il giusto” e te la guadagni lavorando 2 o 3 giorni a settimana, mentre cerchi di riorganizzare le idee, di imparare la lingua, di trovare la maniera di ricominciare, di continuare a fare la tua professione qui come lì, o di ripartire da capo, magari inseguendo uno dei tanti sogni che in Italia avevi chiuso nel cassetto dell’armadio che avevi messo in cantina e di cui avevi perso la chiave.

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Il documentario di Melani e Baldi (la casa di produzione, creata ad hoc, si chiama Melbal) offre una prospettiva nuova di questo fenomeno che è cresciuto negli ultimi anni, forse negli ultimi due decenni. Per presentarlo al meglio, possiamo ricorre alle parole dell’antropologo Paolo Pecchioli, che così lo descrive nel sito di Arcoiris:

Un giorno in Europa: nuove forme di emigrazione, è un documentario appena sfornato dalla MelBal produzioni, produttrice squattrinata che si è presa la bega di toccare un tasto difficile e complicato: ma sarà vero che questi italiani non sono più un popolo di emigranti? Sarà vero che il fenomeno chiamato emigrazione riguarda il passato del nostro Paese e non più il presente? Sarà vero che gli italiani hanno smesso di far valigia alla ricerca di miglior fortuna altrove?

Perché quando parliamo di emigrazione ricevuta, e quindi di marocchini, albanesi, rumeni, moldavi, rom, senegalesi, nigeriani e tutto il resto, siamo più o meno tutti d’accordo. Ma quando decidiamo, da italiani quali siamo, e quindi da europei, di guardarci allo specchio e di sottoporci alle stesse domande, ponendoci allo stesso livello culturale e sociale e nelle stesse situazioni di coloro che chiamiamo emigrati, le cose cambiano.

Osservare le nostre realtà come osserviamo quelle “altre”, implica uno sforzo culturale considerevole: è ciò che in antropologia prende il nome di estraniamento culturale; implica in primo luogo la sospensione di giudizi morali e la volontà di rimuovere sovrastrutture culturali che negli anni, sedimentandosi, hanno portato alla formazione di stereotipi e luoghi comuni nei confronti dell’alterità. Vuol dire in altre parole capovolgere l’obbiettivo, puntarlo su noi stessi: è l’osservatore che diventa osservato.

E magari ci accorgiamo che gli italiani che vivono fuori dall’Italia sono davvero tantissimi, e che oggi come cinquant’anni fa molti italiani continuano a cercare fuori dal proprio Paese possibilità nuove, come cambiare il proprio status, la propria situazione affettiva o economica, mettendo in discussione il proprio senso di identità o la propria idea del mondo. E magari ci accorgiamo che di queste nuove forme di emigrazione e delle dinamiche che le muovono si sa ben poco: mancano cifre, dati, testimonianze. Cerchiamo di capire perché.

Un giorno in Europa si compone di quattro storie, quattro storie di italiani all’estero. Le loro vicende private si intrecciano con i risvolti della nuova realtà europea in città quali Berlino, Praga, Santiago de Compostela, Amsterdam e Prato, che è la realtà da cui provengono. La vita affettiva, il lavoro, le aspirazioni, le difficoltà di quattro persone che solo trenta o quaranta anni fa avremmo chiamato emigranti. E oggi come dovremmo chiamarli?

Dolce, delicato, ironico e commovente. Va visto.