Sulla necessità che l’Italia, nel suo insieme, dovesse traguardare nel corso dell’Ottocento al conseguimento di un tale obiettivo, affinché le stesse sue parti più avanzate potessero inserirsi con qualche speranza di riuscita in un contesto e in un processo mondiale di sviluppo capitalistico allora in atto, non dovrebbero sussistere dubbi.È semmai sulle modalità e sui caratteri del suo particolare nation building che si addensano, non da ora, quelle ombre e quelle perplessità che il “discorso” patriottico e indipendentista, con ampio ma inevitabile ricorso all’invenzione simbolica e alle retoriche del primo nazionalismo da “irredenti”, non seppe mai veramente dissipare. Prova ne sia che il sogno, fatta l’Italia, di “fare gli italiani”, venne quasi subito contraddetto e reso di ardua realizzazione da una serie notevole d’impedimenti e di ostacoli ora obiettivi ed ora scaturiti da precise scelte politiche compiute dai gruppi dirigenti borghesi (non solo moderati) di tutta la penisola. Non per questo venne meno lo sforzo unitario, affatto compatibile con le loro finalità e in accordo perdurante con molte delle idee da essi nutrite che, pur divergendo alle volte, avevano alimentato, assieme, tante aspettative e tante speranze del controverso periodo risorgimentale e che, in sostanza, durarono almeno sino alle soglie del primo conflitto mondiale, toccando il culmine proprio nel 1911 con festeggiamenti e avvenimenti dei quali ricorre oggi il primo anniversario secolare (il “centenario” di un “cinquantenario” a cui si riferisce il titolo dato qui alla parte monografica della rivista).Scuola e istruzione pubblica da un lato, ma anche, da un altro, vincoli ben più cogenti e onerosi, almeno per le classi popolari del neonato Regno d’Italia, come la coscrizione militare obbligatoria, furono per unanime consentimento le principali agenzie di nazionalizzazione e di acculturazione patriottica a cui ci si rivolse onde unificare e uniformare il paese. Assieme al sicuro espandersi, negli strati borghesi, ma anche in quelli popolari urbani, di letture e di occasioni di lettura somministrate dai giornali, dalle riviste e da una editoria di livello europeo, simili agenzie operarono con discreta efficacia e assecondarono rilevanti processi di avvicinamento di buona parte della popolazione allo Stato anche quando, dal mutualismo, al cooperativismo e più in là alla sindacalizzazione (quasi tutti gestiti, dopo una certa data, da soggetti come minimo in acre polemica con l’establishment liberale di governo), essi avvennero all’insegna di una lotta politica e parlamentare molto accesa, ma non a caso scandita da progressivi allargamenti del suffragio e dalla nascita, a buon punto, di nuove e consistenti forze politiche di opposizione.L’influenza e si potrebbe dire quasi l’egemonia tradizionalmente esercitate sulle classi sociali più basse dalla Chiesa e dai clericali intransigenti, come via via del resto anche il consenso che i socialisti seppero conquistarsi fra contadini e operai soprattutto del Nord, non misero mai veramente in discussione i presupposti di fondo dell’unità nazionale nella versione più cara ai liberalmoderati e ai democratici di diversa sfumatura ideologica. Ad onta delle stesse ricorrenti e spesso feroci polemiche insorte fra monarchici e repubblicani, ad esempio, l’opinione che di essa ci si era formati nel vorticoso epilogo dell’età propriamente “rivoluzionaria” (già peraltro rimaneggiata in modo strumentale dai nazionalisti corradiniani proprio in prossimità del conflitto italo-turco) resse abbastanza bene sino alla conclusione della Grande Guerra, radicalizzandosi semmai nel suo corso prima d’essere rimodellata in via definitiva, a proprio uso e consumo, dal fascismo.Sino a quell’altezza, tuttavia, a favore dell’assestamento di un assetto e di un equilibrio “unitari”, in accordo appunto con le soluzioni di compromesso raggiunte nel 1861 – per quanto subito virate a sostanziale vantaggio del centralismo sabaudo e a prezzo di costi sociali più che elevati – avevano giocato come minimo quei fattori di “italianizzazione” che il ricordato sistema dell’istruzione e l’azione degli apparati pubblici erano stati in grado di garantire e via via anche di consolidare, rielaborando fra l’altro, al di sopra delle imposizioni burocratiche e “di legge”, i termini del discorso o, come oggi si dice, del “canone” cresciuto a ridosso delle immagini patriottiche generate a suo tempo, su di un piano emozionale ma soprattutto letterario, dall’iniziativa risorgimentale. Lungo questa linea, cruciale era stato il lento e faticoso, ma pur sempre reale processo di acquisizione di competenze linguistiche comuni di alcune generazioni postunitarie progressivamente sottratte, fra le classi subalterne di ogni regione, all’analfabetismo e messe in grado, persino nelle aree rurali più arretrate, di comunicare vicendevolmente in un modo che già superava (o che comunque contrastava in maniera efficace) i vincoli posti dall’uso prevalente dei dialetti. L’unificazione linguistica, per quanto aurorale, precaria e destinata a rimanere a lungo incompiuta, cominciò allora a prender forma e facilitò, dove s’impose, l’apprendimento di nozioni capaci di evocare (se non di fissare stabilmente) i sensi di appartenenza a una patria più grande di quella conosciuta nei borghi e nei paesi ed anche negli stessi quartieri proletari delle città attraverso la condivisione di simboli e di valori necessariamente attinti a una stessa tradizione risorgimentale per altri versi ammantata, come si sa, di pesante retorica.Dopo l’unità, ad ogni modo, fu anche “lo spostarsi delle persone” dovuto alla coscrizione obbligatoria e alle opportunità di lavoro e d’impiego apertesi lontano da casa, che mise a contatto fra loro, com’è stato osservato da Gian Luigi Beccaria, uomini e donne che parlavano in dialetto e che erano ora costretti a usare l’italiano per capirsi tra loro2. Se volessimo porre mente, compiendo un balzo di oltre cent’anni, a quel che sta accadendo ai giorni nostri, successe insomma qualcosa di simile (non però in tutto e per tutto uguale) a quanto capita, da vent’anni in qua, e da un punto di vista funzionale, tra le file dell’attuale immigrazione straniera composta in Italia da numerose e differenti etnie ovvero da persone di lingue (e, in quest’ultima fattispecie, anche di culture, di tradizioni e di religioni) diverse guardando alle quali è stato osservato da Walter Barberis qualcosa che ci consente di introdurre, a questo punto, l’oggetto della nostra specifica riflessione, posta a commento, in forma di bilancio, di questo dossier di ASEI sul 1911 e sulle reazioni che esso suscitò, come “anno giubilare della Patria”, ma anche come anno di guerra coloniale, fra i contemporanei, ovvero anche, e più precisamente, fra gli italiani residenti per cause di lavoro, e ormai sovente per scelta irreversibile di vita, all’estero vicino e lontano.Lo spunto offerto da Barberis, infatti, concerne il ruolo e il posto occupati allora, e poi di periodo in periodo, nel secolare processo del nostro nation building (cronologicamente coinciso, si noti, con la durata complessiva dell’esperienza migratoria italiana) dalle donne e dagli uomini recatisi a vario titolo, e spesso appunto rimasti definitivamente a vivere, fuori d’Italia, perché anche a loro, in almeno alcune occasioni e comunque per vistosi motivi economici connessi alla scelta di espatriare, toccò in sorte di contribuire, pur da lontano, alla costruzione e alla tenuta, nel tempo, di una “nuova Italia” ormai diversa da quella solo “geograficamente” identificabile, e sprezzantemente così individuata e definita, dal celebre giudizio di Klemens Lothar von Metternich.Sembrerebbe quasi un paradosso, ma, come nota giustamente Barberis – che assieme a Giovanni De Luna sta lavorando a Torino ad una grande mostra per il centocinquantenario intitolata “Fare gli italiani” e che lo ha appena ricordato nell’introduzione aggiornata al 2010 di un suo saggio einaudiano su Il bisogno di patria – sono proprio gli immigrati d’oggigiorno ossia “questi nuovi soggetti, a ricordarci che la storia italiana è stata anche storia di migranti: quei 29 milioni di uomini e di donne, che hanno lasciato città e paesi del Nord e del Sud in poco meno di un secolo, spesso riscoprendo la loro italianità giusto al momento di integrarsi in una comunità d’origine in terra straniera”2.Sulle cifre potremmo anche star qui a discutere o addirittura a eccepire, visto che il copyright della frase ad effetto, quasi trent’anni prima dell’assai noto exploit pubblicistico di Gian Antonio Stella3, spetterebbe, e resta indimenticabilmente legato per chi se ne ricordi, a un quaderno del “Ponte” intitolato, nel 1974 però, Emigrazione. Cento anni 26 milioni4. Volendo parlare di una questione così annosa, nonché per tanti versi scabrosa e intrigante, vale la pena allora di sottolineare come ne sia stata invece dimenticata troppo spesso la valenza politica e “nazionale”, se non la si trova poi in agenda di quasi nessun evento fra quelli sin qui programmati e dedicati all’anniversario dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia. Nemmeno i tentativi reiteratamente compiuti, si parva licet ad esempio da chi scrive, per porre riparo a una tale amnesia e a colmare quella che continua ad apparire una lacuna difficilmente giustificabile (ma anche, a guardar bene, nient’affatto inspiegabile) sono stati coronati da successo essendosi sempre infranti o arenati, con l’eccezione recente e parziale di un libro di Mark I. Choate5, dinanzi alla renitenza a farsene carico degli storici contemporaneisti ai quali bisognerà dunque riproporre anche adesso un ragionamento essenziale sul tema “Fare l’Italia fuori d’Italia”, e più limitatamente, nell’attuale fattispecie, su emigrazione ed emigranti fra patriottismo e nazionalismo, tornante decisivo di tutta la questione che ebbe il suo primo organico banco di prova nella congiuntura del 1911 studiata, in tale prospettiva, dagli autori della sezione monografica di questo fascicolo della nostra rivista.Introdotta come meglio non si sarebbe potuto dalle messe a punto di Giovanni Pizzorusso, la sezione si apre significativamente con un contributo di Patrizia Audenino, che documenta quanto complesso fosse stato l’iter delle varie “esposizioni” del 1911 sulla scorta “di quanto era stato già fatto a Genova in occasione dell’Esposizione colombiana del 1892, dell’Esposizione di Torino del 1898 e di quella di Milano del 1906.”Il tema dell’emigrazione, declinato come “lavoro italiano” all’estero e assente ancora nella grandi esposizioni postunitarie di Firenze (1861), di Milano (1881) o di Torino (1884) aveva fatto la sua prima comparsa in forze nella ex capitale subalpina del Regno nel cinquantesimo dello Statuto, con il concorso davvero rilevante offerto quella volta dal Comitato della Camera Italiana di Commercio ed Arti di Buenos Aires, attraverso un libro destinato a far epoca anche per i suoi futuri echi “einaudiani”. Nel volume edito appunto nel 1898 dalla Compañia Sud-Americana de Billetes de Banco era già possibile, però, rifarsi agli antefatti argentini di ben due esposizioni industriali “italiane” affatto precoci perché promosse nel 1881 e nel 1886 a Buenos Aires dalla Società di Mutuo Soccorso “Unione Operai Italiani”: analogamente anche nei padiglioni del 1906 capillare e vistoso era stato, vent’anni dopo, l’apporto proveniente alla mostra di Milano dai connazionali sparsi in ogni parte del mondo.Nel rinnovato progetto di concedere spazio agli esiti del grande esodo popolare che ve li aveva fissati, Patrizia Audenino segnala invece come l’appuntamento a Torino del 1911 – per il minore coinvolgimento da parte di vari settori dell’associazionismo (e delle scuole italiane) all’estero invano minimizzato da Bernardino Frescura – non avesse fatto registrare particolari passi in avanti rispetto a quello milanese di cinque anni prima e come avesse semmai confermato la tendenza a privilegiare le colonie africane piuttosto che i successi economici dell’emigrazione.La prospettiva più seccamente e propriamente “coloniale”, dunque, fu proprio quella che prevalse specie dopo l’avvio del conflitto italo turco che fra le comunità immigratorie, tuttavia, finì alla lunga per riscuotere una vera messe di adesioni di cui cerca di analizzare la natura e la consistenza, attraverso lo spoglio della coeva stampa in lingua italiana del Brasile e dell’Argentina, il saggio di Federica Bertagna. Se ne deduce che, tolta l’ovvia eccezione costituita dai fogli anarchici e (in parte) socialisti, l’appoggio alla causa “coloniale” di grandi giornali come il “Fanfulla” paulista e “La Patria degli Italiani” di Buenos Aires non solo non venne mai meno, bensì fu, oltre che “immediato”, anche durevole e “incondizionato”, denotando la presenza e il progressivo diffondersi di “uno stato di esaltazione patriottica” fra quegli stessi emigranti che ben altri motivi avrebbero potuto addurre a riprova del proprio attaccamento all’Italia. Sebbene le vedute dei redattori borghesi delle maggiori testate etniche, tanto in America Latina quanto negli Stati Uniti e nel vecchio continente, non possano essere fatte certo coincidere meccanicamente, ieri come oggi, con le opinioni coltivate, nel suo insieme, dalla gran massa degli emigrati, resta sempre, infatti, che nevralgiche erano almeno l’operosità e le rimesse di costoro che stavano sostenendo lo sviluppo capitalistico della madrepatria o finanziando l’impianto e la modernizzazione del suo apparato produttivo.E di tale non secondaria circostanza erano più che consci contemporanei di grande acume scientifico come Francesco Coletti, il demografo e statistico studiato qui da Andreina De Clementi, nel cui originale affresco sull’emigrazione italiana consegnato alle stampe dei Lincei nel 19116 la “lista dei vantaggi” assicurati dal flusso costante dei rimpatri monetari pareva non dovesse temere confronti: “dal contributo alla creazione di una flotta mercantile – rimarca De Clementi – all’aumento del tenore di vita, alla scomparsa dell’usura, alla facilitata conversione della rendita”.Tra i propri gesti intenzionali e consapevoli che testimoniavano però, come già le frequenti collette fatte in occasione di disastri naturali in patria, uno spirito solidale e persistenti legami con l’Italia (fosse pure l’Italia dei villaggi e dei paesi), molti emigrati vollero includere nel 1911 le sottoscrizioni pro esercito e, sporadiche ma neanche tanto rare, le richieste di arruolamento onde essere impiegati quali combattenti nella guerra di Libia. E un po’ dovunque, soprattutto, diedero mostra di voler credere, al pari di tanti connazionali in attesa di abbandonare comunque l’Italia in cerca di lavoro, alla propaganda nazionalista che dipingeva la futura colonia da fondare in Cirenaica e in Tripolitania come sfogo ideale e praticabile per la nostra sovrabbondanza di braccia e di manodopera non specializzata.Benché tanto innanzi egli poi non si spingesse, anche ciò poteva rappresentare, in fin dei conti, una variante della teoria psicologica dell’emigrazione elaborata da Coletti. Stando alla quale, per usare le parole di Andreina De Clementi che ne riconduce però il debole modello epistemologico “ai registri di una certa sensibilità intuitiva”, percezione del disagio e nozione di soluzioni ad esso alternative sarebbero sempre, in generale, “alla base del bisogno di espatrio”.In realtà l’idea di una “terra nostra”, com’era già stato per tanti contadini attratti a suo tempo in America Latina, prospettandosi nel 1911 quale garanzia di pronta sistemazione in territori di diretto dominio politico (e in condizioni d’inserimento gerarchico vantaggiose sotto il profilo razziale), funzionava per suo conto a meraviglia, dando fiato e sostegno alla dottrina di Corradini sulla lotta di classe fra nazioni ricche e nazioni povere (e, parallelamente, all’immagine pascoliana della “grande proletaria” in movimento) alla cui illustrazione si applica in breve spazio il saggio riepilogativo di Daniele Natili.La presa in apparenza rudimentale, ma sicura che una siffatta fascinazione ebbe in seno alle nostre comunità immigratorie poggiava insomma sull’efficacia nient’affatto neutra da un punto di vista ideologico del discorso ostinatamente reiterato anche da intellettuali e funzionari del Ministero degli affari esteri o del Commissariato generale dell’emigrazione in veste di corifei del pensiero corradiniano, come Luigi Villari, Ausonio Franzoni e Giuseppe De Michelis o, relativamente “in proprio”, come la stessa Amy Allemand Bernardi.Maddalena Tirabassi che già un intero libro aveva dedicato all’opera di questa giovane donna poco più che trentenne, storica e paleografa di formazione e già temprata da vari anni di giornalismo d’inchiesta negli Stati Uniti d’America, dimostra quanto versatili ma contraddittorie fossero già nel 1911, grazie a personaggi del suo genere (non inteso come gender), le tecniche dell’argomentazione nazionalista.Incaricata di sviluppare il tema della “cultura materiale” degli immigrati alla prima Mostra/Congresso nazionale di Etnografia, tenutasi a Roma sempre in occasione del cinquantenario dell’unità, la Bernardi, che avrebbe pubblicato nello stesso anno un libro (America vissuta7) in cui si affrontava grosso modo, con lo stesso titolo, lo stesso argomento, si occupò così dell’“Etnografia delle piccole Italie”, gettando le basi di un ragionamento volto a esorcizzare sin da allora “la delicata, e sempre attuale, questione del rapporto tra le diverse culture locali e l’unità del Paese”. Nel delineare un quadro realistico (e pessimistico) delle condizioni concrete di esistenza (o di sopravvivenza) incontrate in Nord America dagli immigrati e dalle tradizioni che essi avevano portato con sé dall’Italia, Amy Bernardi si conferma, nell’analisi di Maddalena Tirabassi, interprete abbastanza acuta del folklore regionale in emigrazione e delle sue varie manifestazioni, ma anche sostenitrice di idee su etnia e razza che si sarebbero meglio affermate e generalizzate sotto il fascismo quando, sull’aprirsi degli anni trenta, il suo impegno avrebbe per breve tratto accompagnato anche il cammino, sempre difficoltoso, di una effimera rinascita regionalista.Più che sul regionalismo, sul campanilismo come “deterrente” antinazionale e come ostacolo obiettivo alla riuscita delle celebrazioni giubilari, in modo tale per giunta da minare internamente la pur variegata compagine delle comunità italiane negli Stati Uniti, richiama con forza l’attenzione Stefano Luconi per la congiuntura precisa del 1911, quando, a suo avviso, erano ancora poco incisivi i limiti opposti alla frammentazione, ai contrasti e alle divisioni di taglio localista ovunque imperanti dalle iniziative di consoli e ambasciatori o dagli stessi notabili etnici di cui fu a lungo prototipo ineguagliato l’immobiliarista e proprietario del “Progresso Italo-Americano” Carlo Barsotti. Al pari di pochi altri “prominenti” e di qualche isolato seppur importante sodalizio come l’Ordine dei Figli d’Italia, spiega in modo persuasivo Luconi, Barsotti e il suo giornale, in assoluto il più importante e diffuso fra quelli italiani negli Stati Uniti, agitavano del resto la bandiera dell’italianità solo per rafforzare le loro particolari e private posizioni dando impulso tutt’al più all’innalzamento di statue e d’innocui monumenti o a celebrazioni non meno generiche e quasi sempre poco frequentate dagli immigrati “regnicoli”. Addirittura il primo congresso degli italiani negli Stati Uniti indetto, esemplifica Luconi, per la fine di marzo del 1911 dall’Istituto Coloniale Italiano (ICI) in vista del II Congresso degli italiani all’estero, vide mobilitati a Filadelfia, nel ricordo giubilare dell’unità, più gli esponenti diplomatici e governativi del Regno che non i rappresentanti dell’associazionismo italo-americano.Il parere di Luconi, che riecheggia da lungi quello acido e senza appello notoriamente replicato più volte da Prezzolini, tiene di certo conto dell’atteggiamento “di estraneità, se non addirittura di ostilità” verso l’Italia “ufficiale” che a suo avviso continuò a contrassegnare sino all’avvento del fascismo la maggior parte delle collettività italo-nordamericane marcando una spiccata differenza, verrebbe voglia di dire, rispetto a quanto accadeva in paesi di più antico (e diverso) insediamento immigratorio dell’America Latina. Anche qui, peraltro, non erano mancati i segni o i sintomi di un certo disagio se – lo noto en passant – tra le assise promosse dall’ICI in concomitanza con i festeggiamenti del cinquantenario, a riscontro di quello statunitense sopra ricordato fu un “precongresso” brasiliano svoltosi a San Paolo sotto l’egida del “Fanfulla” a rendere palese in quante difficoltà versasse la stessa grande comunità italo-paulista, che pure si era autonomamente adoperata in passato (nel 1897 e nel 1904) per tradurre in qualcosa di concreto le proprie istanze verbali di patriottismo e i progetti generosi o ambiziosi di una più stretta e organica collaborazione con la madrepatria da parte degli emigrati.8Le strategie della neonata Associazione Nazionalista Italiana (ANI), in intimo accordo non solo con l’ICI, divenuto quasi il suo “braccio secolare” nel mondo dell’emigrazione, bensì pure con un intero comparto delle classi dirigenti liberalconservatrici senz’altro non sottorappresentate nelle redazioni dei grandi giornali moderati, in alcune riviste d’avanguardia e contemporaneamente all’interno di molte società geografiche vecchie e nuove, assegnavano agli emigranti un compito ambiguo e scopertamente strumentale sia facendo balenare ai loro occhi il riscatto di una condizione lavorativa da perpetuare all’estero ma sotto giurisdizione regnicola; e sia investendoli di responsabilità speciali sul terreno del mantenimento ovunque e comunque di una identità nazionale definita irrinunciabile, con un linguaggio politico teso a mobilitare gli emigranti effettivi e potenziali (come per altri versi i giovani e gli studenti) attraverso forme inedite di rivendicazione e di affermazione orgogliosa dell’italianità popolare. Gli emigranti proletari non più intesi come pura e rozza forza lavoro, bensì quale espressione di un ultrasecolare “genio italico” avrebbero dovuto prenderne atto essi per primi e fornire un ulteriore tassello alla costruzione della base di massa di un partito nascente e alle sue mire espansive di stampo colonialista che non da tutti, nemmeno in seno alle classi dirigenti liberali, come osserva persuasivamente Patrizia Audenino, venivano allora condivise.Si potrebbe obiettare che lo sforzo di rendere gli emigranti partecipi e anzi sostenitori in prima persona di una “missione” implicita secondo i nazionalisti nel loro ruolo economico e persino nella loro condizione di sfruttati non costituiva un’assoluta novità e in certo modo, considerando a parte l’operato di Crispi, ci sarebbero almeno da ricordare le diverse iniziative assunte dai conservatori nazionali, dal clero liberale e dalla stessa società “Dante Alighieri” che, vecchia ormai di vent’anni alla volta del 1911, Patrizia Salvetti ci mostra ancora in azione, e però anche in competizione non celata con l’ICI, fra mostre e congressi chiamati a conferire grande solennità alla ricorrenza del cinquantenario.Un cinquantenario, dunque, che fu relativamente “sentito” dagli emigranti ma che venne anche oscurato e modificato nella percezione che se ne ebbe all’estero a causa degli sviluppi tripolini. Sta di fatto, come che sia, che il momento meramente celebrativo, meno osservato qui specie se lo si ponga a confronto con altri avvenimenti e con altri “anniversari della patria” datisi in precedenza (dalle morti del Re e di Garibaldi al venticinquennale della Presa di Porta Pia), cedette ben presto il passo, nell’estate del 1911, all’accaloramento emotivo per l’“impresa” coloniale di Libia e per le sue presunte prospettive di prossima emancipazione dal bisogno di emigrare “altrove”.Quantunque sia difficile stabilire con precisione lo scarto che sicuramente dovette esistere fra organi giornalistici, politici, istituzionali, culturali ecc. dediti allo studio o alla “cura” dell’emigrazione ed emigranti in carne ed ossa – non bastando al riguardo un confronto, quantitativamente squilibrato in partenza, tra la produzione dei primi e le testimonianze per lo più private dei secondi – c’è da ritenere che all’appuntamento giubilare e a una delle prime verifiche del loro tasso reale di patriottismo gli italiani all’estero giunsero, facendole spesso proprie, sull’onda di concezioni che già avevano per lo più accettato il ricambio delle retoriche risorgimentali correnti con visioni dell’Italia e del suo ruolo ben diversamente fondate.Nel loro transnazionalismo, incontestabile quale dato di fatto, si misuravano però i frutti (anche per l’unità d’Italia) e gli effetti in genere di una dura pratica di vita nonché di mille esperienze segnate dalla mobilità, dai trapianti e dai faticosi processi d’inserimento in nuove realtà statuali, mentre nel nazionalismo (come d’altronde nell’internazionalismo anarchico e socialista) s’imponevano, quasi necessariamente, le ragioni di una tensione ideologica che, per una storia più completa della nostra emigrazione, attendono ancora di essere indagate a fondo o comunque di essere studiate a dovere. La sezione monografica di ASEI mi sembra rappresenti un primo passo in questa auspicabile direzione.Note al testo:1Gian Luigi Beccaria, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano, Garzanti, 2006.2Walter Barberis, Il bisogno di patria, Torino, Einaudi, 20102.3Gian Antonio Stella, L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Milano, Rizzoli, 2002.4Emigrazione. Cento anni 26 milioni, Firenze, La Nuova Italia, 1974 (Quaderni del Ponte).5Mark I. Choate, Emigrant Nation. The Making of Italy Abroad, Cambridge Mass., Harvard University Press, 2008.6Francesco Coletti, Dell’emigrazione italiana in Cinquanta anni di vita italiana, a cura della R. Accademia dei Lincei, Milano, Hoepli, 1911.7Amy A. Bernardy, America Vissuta, Torino, Bocca, 19118Società Italiana di M.S. “Galileo Galilei” in Raccomandazioni e voti al Secondo Congresso degli Italiani all’estero sul tema “Organizzazione e rappresentanza delle libere colonie” 1911, São Paulo, Estab. Magalhães, 1911.