Il 5 settembre del 1905, a Messina, vedeva la luce il “Gazzettino dell’Emigrazione”, una pubblicazione quindicinale in abbonamento diretta da S. De Domenico e stampata presso la tipografia dell’Operaio. Il giornale nasceva in un momento in cui l’opinione pubblica era particolarmente attenta ai problemi connessi ai fenomeni migratori1, avendo la città, da poco più di un anno, vinto la battaglia per ottenere la nomina a porto di imbarco per gli emigranti. Messina era stata esclusa dalla legge del 31 gennaio 1901, la prima legge italiana organica in materia di emigrazione, che aveva istituito il Commissariato Generale dell’Emigrazione (Cge), un ente autonomo posto sotto l’alta sorveglianza del Ministero degli Esteri, attorno al quale ruotava tutta una serie di istituti per la vigilanza e la tutela degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e nei paesi di arrivo. La legge aveva stabilito che gli unici porti italiani autorizzati per l’imbarco di passeggeri emigranti e per essere la sede di un ispettorato di emigrazione fossero quelli di Genova, Napoli e Palermo2.
Messina aveva protestato vivacemente l’esclusione e, facendo forza sull’articolo 9 che prevedeva che anche altre città avrebbero potuto, per decreto reale, essere nominate porto d’imbarco, ne fece ripetutamente richiesta. I rappresentanti locali della politica e dell’economia sostenevano che l’esclusione del porto di Messina non solo aveva recato gravi disagi agli emigranti − costretti a pagare il viaggio per raggiungere il porto d’imbarco e il soggiorno, se non trovavano un’immediata coincidenza − ma aveva duramente colpito gli interessi economici e commerciali della città3. La maggior parte delle merci in uscita dal porto del Peloro era costituita da agrumi e da altri prodotti deperibili, gli esportatori si sarebbero quindi potuti avvantaggiare dei bassi noli, della rapidità e della regolarità dei collegamenti garantiti dai piroscafi di emigrazione che, per la traversata dell’Atlantico, impiegavano quasi metà tempo rispetto i cargo boat. Rimanendo liberi molto spazio e tonnellaggio, i vettori, cioè quelle compagnie di navigazione a cui il Commissariato aveva concesso una speciale licenza per il trasporto degli emigranti, erano molto disponibili a imbarcare le merci a buon mercato, anche a titolo di zavorra4.
C’era inoltre la fondata speranza che, se Messina fosse diventata un porto d’imbarco, le società armatoriali locali avrebbero investito nel trasporto degli emigranti. In un periodo di relativo arretramento dell’economia cittadina, iniziato alla fine degli anni Ottanta del XIX secolo e dovuto al concorrere di varie cause (la guerra doganale con la Francia, l’epidemia della filossera, il mancato adeguamento delle strutture portuali), quello armatoriale si era mantenuto tra i settori più dinamici, come dimostrano i patrimoni accumulati dalle società dei fratelli Peirce, di Giuseppe Battaglia − che nel 1893 fondò la Società di Navigazione nello Stretto di Messina − e di Vincenzo Bonanno, proprietari di grandi navi da carico per le rotte transoceaniche5. Per le compagnie di navigazione, il trasporto di emigranti rappresentò sempre una voce di entrata “relativamente protetta, congiunturalmente stabile e, anzi, quasi anticiclica rispetto agli alti e bassi del trasporto merci attribuibili alle fluttuazioni dell’import-export”6 e garantì un consistente margine di autofinanziamento da investire nel rinnovamento del naviglio.
Grazie al decisivo sostegno della Commissione Reale per i Servizi Marittimi, istituita nel 1903 e presieduta dall’on. Edoardo Pantano, e nonostante un certo scetticismo espresso dal commissario generale Luigi Bodio, le richieste dei messinesi furono soddisfatte e il 24 gennaio del 1904, il re Vittorio Emanuele III firmò il decreto di nomina7. Al nuovo ispettorato fu assegnata la giurisdizione sugli espatri dalle province di Messina, Catania, Siracusa e Reggio Calabria.
Il “Gazzettino dell’Emigrazione”, presentandosi ai lettori, si proponeva di “volgarizzare” per rendere comprensibile a tutti il grande problema dell’emigrazione e, rivolgendosi a coloro che non guardavano al fenomeno con indifferenza, si augurava di diventare “una palestra aperta ai generosi” che intendevano dare un proprio contributo all’assistenza e alla tutela degli emigranti. Riproducendo le disposizioni inviate dal Cge ai prefetti, agli ispettori, ai consoli e ai comitati di patronato, il giornale offriva agli emigranti chiarimenti sulla legge italiana e sulla situazione dei paesi in cui intendevano recarsi, così da metterli in grado di difendersi dalle “angherie degli ingannatori”. Un’apposita rubrica rispondeva alle domande inviate dai rappresentanti dei vettori e ampio spazio era, infine, riservato alle recensioni e ai commenti sulle principali pubblicazioni scientifiche e sulle discussioni negli organi ufficiali di governo8. Presso la redazione del “Gazzettino” fu allestito un ufficio che diffondeva informazioni in modo gratuito.
I redattori del periodico si trovavano d’accordo con le opinioni di quei meridionalisti (F. S. Nitti, G. Fortunato) che, pur con i suoi aspetti tristi e dolorosi, consideravano l’emigrazione in modo positivo e si opponevano a coloro che avrebbero voluto frenarla o solo limitarla. Gli espatri erano ritenuti una “valvola di sicurezza”, per riequilibrare il rapporto tra aumento demografico e risorse, e un rimedio ai costi sociali del crescente pauperismo. Se a causa dell’emigrazione si veniva a determinare un aumento del costo del lavoro, tale aumento promuoveva però, indirettamente, la formazione di nuove sorgenti di produttività economiche, le quali “combinandosi più o meno efficacemente nella loro manifestazione, colmano il vuoto lasciato dal valore economico degli emigranti”9. Non solo ogni angolo d’Italia risentiva dei benefici materiali delle rimesse, ma soprattutto l’emigrante ritornava moralmente migliorato dal contatto con altre usanze e culture. L’emigrazione avrebbe avuto, infine, effetti positivi sull’intera società, come “veicolo alla propagazione delle ricchezze e della civiltà, ritemprando lo spirito di affratellamento fra i popoli, attivando le benefiche sorgenti del libero scambio internazionale, e preparando un benessere duraturo alle generazioni successive”10. Se era imprudente o addirittura pericoloso opporsi, il governo aveva però il dovere di seguire l’emigrazione con “occhio vigile e paterno” e, una volta al di là dei mari, di “proteggere i nostri connazionali con tutte le sue forze”11.
Non vengono risparmiate critiche nei confronti della legge sull’emigrazione e dell’operato del Commissariato Generale: “Basta dare uno sguardo alla legge del 31 gennaio ‘901, che poi non è tale, perché continuamente modificata dalle interminabili circolari, per dare un giudizio sulla nebulosità con cui essa venne compilata, generando un confusionismo deplorevole”12. Il giornale era vicino alle posizioni di Francesco Saverio Nitti che nel 1906 era entrato far parte del Consiglio dell’Emigrazione, l’organo consultivo che assisteva il ministro degli Esteri nell’adozione di provvedimenti legislativi relativi all’emigrazione. Lo statista lucano, pur riconoscendo valida la struttura della legge del 1901, sosteneva che essa non aveva raggiunto gli scopi che si proponeva e che per questo erano necessarie sostanziali modifiche. In particolare, gli sembrava assurdo che i servizi di emigrazione dovessero pesare non sul bilancio dello stato ma, fatto senza precedenti nella legislazione europea, sugli stessi emigranti, essendo il Fondo dell’Emigrazione – una cassa speciale indipendente dal Tesoro – alimentato soprattutto dalla tassa d’imbarco che i vettori pagavano per ciascun passeggero, caricandola sul costo del biglietto. Nitti era altrettanto critico nei riguardi del Commissariato, la cui efficacia era limitata dalla sua stessa forma, quella di un organo amministrativo con “insieme troppi poteri e troppo pochi, che ha molta volontà e pochi e qualche volta aspri mezzi di esecuzione. Che cosa è il Commissariato? Un organo mostruoso, una specie di testa senza braccia e senza gambe”13.
Il “Gazzettino” difendeva, se pur non in modo aprioristico, gli interessi delle compagnie di navigazione e dei loro rappresentanti e, per questo motivo, ripetutamente prese posizione contro le sentenze emesse dalle commissioni arbitrali, i tribunali speciali istituiti in ogni capoluogo di provincia con lo scopo di rendere più semplice e rapido, e quindi meno costoso, il procedimento legale. Gli emigranti vi ricorrevano per diversi motivi, per il mancato o ritardato imbarco, per chiedere la restituzione di somme non dovute pagate oltre il nolo, per lo smarrimento dei bagagli, ma il maggior numero dei ricorsi si riferiva all’art. 24 della legge che stabiliva che il vettore era responsabile dei danni verso l’emigrante non ammesso dal paese di destinazione, quando fosse provato che a lui erano note, prima della partenza, le circostanze che avrebbero determinato la reiezione. In questi casi, l’emigrante doveva essere rimborsato anche della spesa del viaggio di andata e ritorno dal paese di origine al porto di imbarco e delle giornate lavorative perse. I motivi che potevano generare il respingimento, però, non erano sempre nettamente definiti dalla legislazione dei paesi stranieri e ciò provocò parecchia confusione e difformità nelle sentenze delle commissioni.
La giurisprudenza adottata dalle commissioni arbitrali appariva essere tutta a favore degli emigranti e, anche se la legge prescriveva che i reclami dovessero essere accompagnati dai verbali e dai documenti di prova redatti dai consoli, dai commissari viaggianti e dagli ispettori, molto spesso i giudici non richiedevano queste prove, attenendosi esclusivamente a informazioni assunte d’ufficio. Condividendo lo stesso atteggiamento degli estensori della legge, le commissioni pretendevano di raffigurare il vettore come “il delinquente nato che sfrutta ed inganna l’emigrante – e questo come la vittima perenne del ladro vettore”. Il vettore, invece, non doveva essere considerato dallo stato un nemico degli emigranti e l’azione di tutela dei diritti di costoro si doveva armonizzare con la difesa degli interessi delle compagnie di navigazione che esponevano i loro capitali, contribuendo all’incremento e alla grandezza della marina italiana14. Specialmente si criticava l’operato della commissione arbitrale di Messina, una fra le più rigorose nei confronti dei vettori: “E’ proprio il caso di dire che [essa sia] affetta da mania di persecuzione contro le compagnie di emigrazione. La Commissione Arbitrale di Messina presume nel fatto stesso della reiezione la responsabilità del vettore e lo condanna senza pietà al risarcimento dei danni, e senza neppure concedergli il tempo necessario a potere acclarare quale veramente sia stata la causale della reiezione”15.
Il Cge non era per nulla soddisfatto del comportamento dei rappresentanti dei vettori, attraverso i quali la legge aveva voluto sottrarre l’arruolamento degli emigranti alle agenzie indipendenti, per legarlo alla diretta responsabilità delle compagnie di navigazione. Nella seduta del Consiglio del 22 febbraio 1902, la questione fu, per la prima volta, portata in discussione: “Gli agenti di emigrazione, trasformati in rappresentanti, percepiscono se non una senseria, come prima una provvigione tanto maggiore, quanto men buoni sono i piroscafi su cui mandano gli emigranti ad imbarcarsi […] Queste figure losche di carattere giuridico, bisogna che siano da noi combattute, per quanto è possibile”16. Il rappresentante era soprattutto accusato di percepire compensi non dovuti dagli emigranti, specie per il disbrigo delle pratiche per il rilascio dei passaporti, e di incitare pubblicamente a emigrare, attraverso la diffusione non autorizzata di manifesti, opuscoli e false notizie sulle condizioni di lavoro all’estero17.
Il “Gazzettino”, pur riconoscendo la leggerezza con cui i rappresentanti molto spesso osservavano la legge e la necessità di “purgare l’ambiente”, non riteneva vantaggiosa la loro soppressione – come qualcuno aveva proposto18 − difendendo l’importanza, non soltanto economica, di questa figura. L’obiettivo del rappresentante non doveva essere esclusivamente il guadagno, facendo incetta di emigranti come si fa di una mercanzia qualsiasi, ma la sua missione era quella di guidare, aiutare e proteggere l’emigrante “e tutto questo restando nell’orbita della legge, la quale è abbastanza fiscale […] L’emigrante ha bisogno di un compagno fedele che lo istradasse, ciò che potrà ottenere nel rappresentante, il quale si trova sul posto dove risiedono gli emigranti”19. Si proponeva l’introduzione di una cauzione, non inferiore a 5000 lire, che avrebbe permesso una migliore selezione e di evitare l’affidamento delle rappresentanze a persone nullatenenti. Era però indispensabile che i rappresentanti fossero, a loro volta, garantiti dall’azione deleteria e illegale dei faccendieri.
Il giudizio sul funzionamento dei servizi per gli emigranti nel porto di Messina era, in genere, molto positivo e il merito era soprattutto reso al dirigente dell’ispettorato, il funzionario di pubblica sicurezza Giulio Tramontana. La “Gazzetta di Messina” scriveva che era grazie alla “sua competenza, alla scrupolosa osservanza dei suoi doveri, e alla paziente organizzazione di tutto un servizio che le operazioni procedono con ordine e speditezza davvero encomiabili”20.Il “Gazzettino dell’Emigrazione” confermava l’impressione favorevole, aggiungendo: “E’noto generalmente che, a Messina, gli emigranti, e per l’indole dei cittadini e per la rigida disciplina dei bene organizzati servizi, riguardanti questo ramo di attività sociale, si trovano in ottime condizioni, agevolati e protetti in tutto senza avere proprio nulla da invidiare agli altri porti d’imbarco!”21.
Non bisognava, però, addormentarsi sui “facili allori raccolti” e, ricordandosi che il decreto di nomina aveva un carattere provvisorio, gli amministratori avrebbero dovuto impegnarsi a completare il porto di imbarco, realizzando quelle opere necessarie a facilitare ai vettori l’approdo a Messina dei loro piroscafi. A un anno e mezzo dall’istituzione dell’ispettorato, infatti, ancora solo poche compagnie di navigazione avevano deciso di inserire lo scalo di Messina nelle rotte dei propri transatlantici e la maggior parte degli emigranti che si radunava in città era trasportata, con il solo pagamento del nolo massimo, su navi di cabotaggio a Napoli o a Palermo, dove veniva trasbordata sulle navi in partenza per l’America22. La colpa del mancato sviluppo del porto peloritano era individuata “nella matassa arruffata che è la Legge sull’emigrazione e nelle arruffatissime disposizioni che la seguono” e in quei funzionari che la legge “ignorano o fingono di ignorare, ma che, certamente, non fanno rispettare. Riescono quindi, altrove, facili quegli intrighi e artifici che allontanano molti emigranti da Messina, col loro discapito e con danno del nostro Porto d’imbarco”23. Le autorità cittadine erano inoltre molto deluse dal progetto di riforma di alcuni servizi marittimi, sussidiati dal governo e gestiti della Navigazione Generale Italiana; il progetto, che la Commissione Reale aveva presentato al parlamento per l’approvazione, prevedeva l’istituzione di una linea Palermo-Napoli-New York, con approdo solo facoltativo a Messina24.
Anche se le partenze dirette si mantennero sempre molto basse − poco più dell’uno percento dell’intera emigrazione italiana transoceanica − gli emigranti che si radunavano a Messina erano assai più numerosi: tra il 1904 e il 1907, l’ispettorato registrò un totale di 116.023 persone visitate prima della partenza, circa il 10 percento degli emigranti raccolti nei porti d’imbarco italiani25.
Dovendo garantire agli emigranti i medesimi servizi, sia che l’imbarco avvenisse su piroscafi diretti oltreoceano che su navi costiere, l’attività dell’ispettorato era indubbiamente molto intensa e, soprattutto nei giorni di partenza, si registrava un vistoso esubero di lavoro. L’ispettore si lamentò ripetutamente presso i superiori dell’insufficienza di agenti alle sue dipendenze, ma la scarsità del personale, per l’ufficio messinese, rimase sempre uno dei maggiori ostacoli al migliore svolgimento del servizio. Bisogna però sottolineare che l’inadeguatezza del personale fu un problema costante che interessò l’intera organizzazione del Cge; nel 1905, l’organigramma del Commissariato prevedeva tre funzionari nei porti di Genova e Napoli e uno in quelli di Messina e Palermo, 15 agenti di pubblica sicurezza in servizio a Napoli, 10 a Genova, 7 a Palermo e 5 a Messina. Il Commissario era ben consapevole che questo personale, per la quantità e la varietà del lavoro svolto dagli ispettorati, era del tutto insufficiente26.
Un argomento che, infine, trovava ampio spazio e attenzione nelle pagine del “Gazzettino” era il rapporto tra emigrazione e sviluppo della marina mercantile italiana. Il Cge riscontrava risultati molto soddisfacenti riguardo la qualità della flotta in servizio di emigrazione che, grazie all’attività di controllo svolta dai funzionari del Commissariato, stava migliorando costantemente. Rispetto al 1902, all’inizio del 1908 erano aumentati di un terzo i piroscafi con meno di cinque anni di vita, più che raddoppiati quelli con una velocità superiore a 14 nodi e pressoché scomparsi quelli più vecchi di 25 anni27. Sebbene il rinnovamento avesse interessato soprattutto la flotta italiana, oltre la metà dei piroscafi che trasportavano gli emigranti italiani aveva bandiera estera e, sulla rotta verso l’America del Nord, il 70% del tonnellaggio lordo complessivo era impiegato dalle marine straniere28.
Commentano una recente monografia dell’avvocato Francesco Paolo Longhitano − ispettore di emigrazione nel porto di Palermo che, nel 1908, sarebbe stato trasferito alla guida dell’ufficio di Messina – il “Gazzettino”sosteneva che lo stato, pur mantenendo il libero esercizio degli scambi marittimi, aveva il dovere di intervenire a favore della marina mercantile italiana, in quanto essa non poteva, con le sue sole forze, gareggiare con le marine delle altre nazioni. Longhitano criticava la legge sull’emigrazione che, se non aveva voluto proteggere la marina nazionale allo scopo di promuovere la più larga concorrenza tra le compagnie, finiva, in certe disposizioni, addirittura per avvantaggiare quella straniera, come nella facoltà concessa agli emigranti di imbarcarsi in altri porti europei e alle compagnie, anche non munite di patente e senza alcun obbligo di legge, di trasportare in Italia gli emigranti di ritorno. Convinto dell’importanza di una forte marina mercantile per il progresso economico della nazione, l’autore auspicava una modifica della legge per riservare esclusivamente alle compagnie di bandiera il trasporto degli emigranti sia nei viaggi di andata che di ritorno. In tal modo, oltre a garantire una migliore assistenza agli emigranti, si sarebbe anche risolto il problema economico, “assicurando alla Marina – e quindi alla ricchezza nazionale – i noli degli emigranti, noli che valgono assai più dei miseri premi di costruzione e di navigazione”29.Anche il commissario Reynaudi sperava che una prossima riforma della legge avrebbe esplicitamente consentito al Cge di proteggere gli armatori italiani, come una “legittima difesa di un grande interesse nazionale”30.
Una data estremamente importante nella storia della marina mercantile italiana e, soprattutto, nello sviluppo industriale del Mezzogiorno è il 31 ottobre 1906 quando, per iniziativa dei fratelli Guglielmo e Giorgio Peirce, venne fondata la Società Siculo-Americana di Navigazione, con sede a Messina e capitale sottoscritto di 2.250.000 lire. La nuova compagnia ottenne la patente di vettore per i due transatlantici San Giorgio e San Giovanni, di recente costruiti nei cantieri inglesi. Il “Gazzettino” esprimeva grande entusiasmo per questo avvenimento: “Non abbiamo bisogno di rilevare l’importanza, come porto di armamento, che acquisterà la nostra piazza, nonché i grandi benefici che ne scaturiranno. E’ stata sempre l’unica nostra idea che Messina dal mare potrà ritrarre il suo avvenire, è là che l’evoluzione dei tempi ne hanno segnato il posto per sviluppare la sua attività e procurarsi le sue ricchezze”31. Tra il 1907 e il 1908, le navi della Siculo-Americana effettuarono 27 viaggi negli Stati Uniti, trasportando 13.200 emigranti e ottenendo un consenso unanime per le condizioni di comodità, igiene e sicurezza offerte ai passeggeri. A seguito del terremoto del 28 dicembre 1908, Guglielmo Peirce, unico superstite, fu costretto a trasferire a Napoli la sede delle sue aziende, ma mantenne iscritte nel compartimento marittimo di Messina tutte le imbarcazioni di sua proprietà.
Il 1908 è un dato periodizzante essenziale nella storia della città di Messina32. Radendo al suolo non soltanto Reggio Calabria e Messina, ma anche tutti i paesi costieri del basso Ionio e del Tirreno, i siti aspromontani e gli insediamenti nei Peloritani, il sisma colpì un’area che dal punto di vista economico si presentava omogenea, luogo di una fitta rete di relazioni commerciali che si era stratificata nel tempo e che aveva nel porto di Messina il proprio fulcro.
La notizia delle tragedia commosse il mondo e generò una partecipazione solidale senza precedenti. Tutti i paesi convocarono una seduta dei loro parlamenti per votare stanziamenti a favore delle vittime e poi si mobilitarono ambasciate, comuni, banche, camere di commercio, associazioni umanitarie. Nelle comunità di immigrati italiani, si accese una gara di solidarietà che si concretizzò nell’invio di squadre di soccorso, beni materiali e somme di denaro raccolte attraverso le sottoscrizioni33. Anche il Cge diede immediatamente ordine che alcuni piroscafi in servizio di emigrazione − che disponendo di cucine, dormitori e infermerie, più facilmente si prestavano a essere trasformati in ospedali − si recassero nelle acque dello Stretto a raccogliere i profughi e soccorrere i feriti34. Il terremoto segnò l’inizio della definitiva fase di declino economico, prima industriale che commerciale, della piazza messinese. Nello spazio di un quindicennio, la città perse il primato tra gli scali siciliani e le direttrici di investimento si concentrarono quasi esclusivamente nelle ghiotte operazioni immobiliari e di compravendita dei suoli fabbricabili35.
All’inizio del XX secolo, prima del sopraggiungere del disastro, Messina, pur con le contraddizioni comuni ad altre città meridionali36, grazie alla posizione geografica, alle antiche tradizioni marinare, alla solidità della sua borghesia, appariva come un centro commerciale vitale e ricco di potenzialità. La nomina a porto d’imbarco consentì alla città di inserirsi nel traffico di emigrazione le cui dimensioni di massa stavano rivitalizzando le attività portuali, consentendo agli scali italiani di inserirsi nel mercato internazionale dei trasporti marittimi dove, fino ad allora, avevano occupato una posizione del tutto marginale37. Anche le banchine del porto di Messina cominciarono a brulicare di uomini, donne e bambini fermi con i bagagli in attesa della partenza, fiorirono le agenzie delle compagnie di navigazione, le locande, le osterie e il piccolo commercio gravitante nell’area del porto. Nonostante difficoltà e problemi, i messinesi (i funzionari e il personale dell’ispettorato e della Capitaneria, la classe politica, la stampa periodica, gli operatori commerciali e la borghesia mercantile e armatoriale) fecero ognuno la propria parte per rendere effettivo e realmente efficace il decreto di nomina, consapevoli che, come sempre nella storia, ogni fortuna per la città sarebbe venuta solo dal mare.