3 Identità plurali e politica.
Per tentare di interpretare le ricadute della propaganda politica sui ceti popolari ho studiato il comportamento di voto dei torinesi in quegli stessi anni. L’analisi dei dati elettorali e degli elettori, suddivisi per condizione socio-professionale, ha mostrato che non è possibile stabilire confini generici nella composizione delle basi sociali delle principali forze politiche attive a Torino all’inizio del Novecento e che, dunque, non esistesse una forte correlazione tra condizione professionale degli elettori e comportamento elettorale20. Ho usato i dati elettorali come indicatore delle ricadute delle strategie di proselitismo altrimenti difficilmente misurabili: ne è emerso che l’efficacia del proselitismo fosse condizionata dal modo in cui le forze politiche sapevano combinare i molteplici fattori che caratterizzavano l’elettorato, senza far leva sulla sola condizione professionale o, detto in altri termini, sulla identità di classe. La posizione lavorativa infatti poteva dimostrarsi estremamente instabile e dunque rivelarsi non consona o insufficiente a cementare un senso d’appartenenza comune. L’identità appariva invece come il risultato dell’interazione di diversi elementi che potevano sovrapporsi, coesistere e la cui combinazione poteva variare nel tempo e nello spazio: non a caso anche oggi si parla sempre più spesso di identità plurali, cioè di identità che coesistono nell’uomo contemporaneamente. A definire queste combinazioni potevano contribuire, oltre alla professione, l’origine, la condizione della famiglia di provenienza, l’eventuale migrazione, la generazione e il genere di appartenenza, l’età, le reti sociali, la fede religiosa. Per valutare l’efficacia o meno del proselitismo ho cercato di cogliere le modalità attraverso cui l’azione politica riuscisse a interpretare queste combinazioni di identità plurali. I risultati dei singoli collegi dimostrano che le differenze nel comportamento al voto dipendevano dalle caratteristiche del contesto e dalle specifiche modalità d’insediamento sociale delle forze politiche nei vari quartieri. Le probabilità di conseguire un migliore esito elettorale aumentavano quanto più i partiti e i candidati erano in grado di interpretare la società locale e dimostravano di saper cogliere l’insieme degli elementi e delle identità.
Lo stesso valeva per la ricezione dei messaggi proposti dalle celebrazioni patriottiche. Le tendenze emerse dai dati dei censimenti e dalle inchieste presi in esame evidenziano la rilevanza di identità precise tra loro intrecciate, di esperienze di vita che condizionavano il punto di vista delle persone, anche quello da cui osservavano le grandi celebrazioni della nazione. Nella generale scarsità documentaria relativa alla ricaduta e al grado di ricezione tra i ceti popolari dei messaggi patriottici di cui le manifestazioni torinesi erano portatrici, il raffronto tra i simboli, i valori di riferimento di tali eventi e l’insieme delle identità prevalenti in un determinato periodo nei gruppi dei potenziali destinatari rappresenta una via di ricerca percorribile, che può in parte sopperire alla mancanza di fonti esplicite in materia. Le esposizioni e le celebrazioni patriottiche erano un esempio del programma liberale d’integrazione delle masse popolari nella politica e nelle istituzioni. In sintesi, nel descrivere la simbologia, possiamo sottolineare queste caratteristiche del messaggio proposto dai liberali: gli elementi autoritari erano fortemente enfatizzati, così come quelli finalizzati a confermare il modello di subordinazione dei ceti popolari all’élite liberale. La fedeltà, l’obbedienza e l’armonia erano i capisaldi della simbologia, non solo nel rapporto tra gli individui e le istituzioni. Venivano a più riprese ribadite le forme di subordinazione dei lavoratori all’impresa, dei giovani ai vecchi, delle donne agli uomini. In particolare, nel caso delle donne si ribadiva l’immagine fortemente conservatrice, di fronte a un potenziale pubblico femminile che viveva l’esperienza quotidiana del peso di alcuni modelli autoritari, per esempio in fabbrica o nei legami familiari, aspetti che, al contrario, l’ideologia patriottica tentava di riaffermare21. Certo, su un punto sembrava che il messaggio potesse essere efficace: la migrazione. Tale elemento, però, fu isolato e soprattutto fu utilizzato con un altro scopo, cioè rafforzare l’immagine degli italiani all’estero. Era cioè una nuova forma di colonialismo e c’era un uso strumentale dell’esperienza migratoria, difficilmente utilizzabile in patria. Questa sorta di orgoglio patriottico risultava molto debole, da solo, in Italia, anche nel caso di chi aveva alle spalle l’esperienza migratoria o di chi aveva mantenuto legami solidi con amici e parenti a Torino. Nel contesto urbano, un mix di identità caratterizzava l’esistenza dei destinatari del messaggio politico, e l’enfasi su una sola delle identità presenti, anche se forte, come nel caso della migrazione, non riusciva a condizionare in meglio l’esito del processo comunicativo.
Nel caso preso in esame, è difficile rilevare elementi di convergenza tra l’idea di patria propagandata e le spinte rivendicatrici che, per esempio tra le donne e i giovani operai, si manifestarono in questi anni del Novecento, e che erano in chiara opposizione rispetto ai valori di subordinazione politica, sociale e familiare, di cui i messaggi patriottici erano intrisi. Ogni occasione, per esempio uno sciopero di tessitrici, faceva sempre trasparire l’esistenza di pacchetti identari complessi, in cui pesavano, insieme, il genere, l’età, la provenienza, i vincoli familiari e la professione. Le critiche diffuse che accompagnarono tante celebrazioni nazionali erano dunque lo specchio di questa distanza: c’era semplicemente una oggettiva difficoltà a far dialogare la patria rappresentata con l’insieme delle identità prevalenti nella società torinese, soprattutto tra i ceti popolari. Come ho cercato di dimostrare altrove, l’attenzione al pacchetto identitario, e non solo a un elemento in particolare, come per esempio la professione o l’emigrazione, fu in quei decenni alla base del successo socialista nei quartieri popolari.
4 Conclusioni
Gli storici sociali hanno da tempo capito l’importanza dello studio della mobilità, non solo per le società urbane, mentre dobbiamo registrare in tal senso un certo ritardo della storiografia politica. Nello studio della politica in ambiente urbano, non ci possiamo soffermare solo sull’immigrazione, ma dobbiamo far attenzione ai continui spostamenti di persone, ai loro arrivi, alle loro partenze, ai loro ritorni e pure ai movimenti interni, da quartiere a quartiere. Dobbiamo inoltre sottolineare i tempi della mobilità, dato che i movimenti di popolazione possono essere temporanei, stagionali, circolari, spesso complessi e intricati, e cercare di esaminare i legami che sottendono gli spostamenti di persone. La mobilità non è però un processo unidimensionale e come tale devono essere considerate le identità legate alle migrazioni. Nel considerare l’identità di una città industriale dobbiamo dunque cercare di esaminare le identità plurali prevalenti nella sua popolazione e individuare piste di ricerca per studiarle.
Negli ultimi decenni gli studiosi dell’identità nazionale si sono concentrati molto sulle rappresentazioni, in linea con un fortunato filone di ricerche da tempo avviato dagli studi culturali. Il tentativo d’inquadrare più da vicino gli attori che erano protagonisti degli eventi celebrativi, come organizzatori o come pubblico potenziale, cerca di fornire un altro punto di vista da cui osservare i processi di nazionalizzazione delle masse. Nelle mie ricerche cerco d’identificare i simboli, i luoghi e i potenziali destinatari, per capire in che modo potesse o meno circolare il discorso politico patriottico al di fuori della ristretta élite a capo dei vari comitati organizzatori. Ho cercato d’identificare un modello d’analisi per far dialogare i messaggi dei promotori e le culture popolari, per capire se esistessero canali di comunicazione aperti oppure se i codici culturali dei mittenti, racchiusi nella simbologia ufficiale, e quelli dei destinatari fossero così distanti da non consentire il processo comunicativo. Lo studio della mobilità fornisce una prospettiva molto promettente per l’analisi della politica.
Il modello analitico presentato da Mosse nello studio sulla nazionalizzazione delle masse era concentrato sulla descrizione degli strumenti che le élites nazionali attivarono per creare un più ampio consenso intorno al loro progetto politico e si limitava, per questo, a indirizzare l’analisi proprio sulle intenzioni e sulle idee di quei gruppi che, dall’alto, si ponevano alla guida di tale processo22. Il lavoro di Mosse ha avuto il grande merito di reindirizzare per decenni gli studi sulle identità nazionali e sulla loro genesi, insieme ad altri fondamentali contributi coevi, ma ignorava l’esame dei “pubblici” delle grandi operazioni nazionalizzanti, il cui buon esito, per paesi come la Germania o la Francia, era dato per scontato. Da tempo molti studiosi di processi comunicativi, ma non tutti, sostengono che la comunicazione e il passaggio di informazioni sia possibile perché esiste un contesto comunicativo di fondo che muta da situazione a situazione, e che è dunque necessario ricostruirlo per capire come si leghino tra loro anzitutto mittente e destinatario. Nella loro teoria sulla pertinenza, studiosi come Sperber e Wilson23 hanno sottolineato come, nella realtà, sia del tutto improbabile che per tutti i piani (l’identità dei partecipanti, i parametri spazio-temporali, le credenze, le conoscenze e le intenzioni, ecc.) gli interlocutori condividano esattamente quegli stessi elementi che fanno in modo che il processo di codifica dei segni sia il medesimo per tutti, ed è su questa base che hanno riflettuto su come ridefinire il contesto comunicativo. Non esistono documenti che testimonino il grado di partecipazione delle persone agli appuntamenti e nemmeno il livello di coinvolgimento di chi, tra il pubblico, assistette a una o più delle manifestazioni organizzate per le commemorazioni. Se consideriamo le celebrazioni nazionali tra Ottocento e Novecento al pari dei cerimoniali e dei rituali studiati dagli etnografi, e se dunque le esaminiamo come se fossero un testo, secondo l’approccio dell’antropologia interpretativa di Geertz, dobbiamo tentare di procedere per approssimazioni alla perimetrazione del contesto specifico in cui si svolgeva ciascun evento comunicativo, per passare dalle rappresentazioni (i simboli) agli attori, alle loro caratteristiche e alle forme reali dell’interazione.
Da tempo mi interrogo su quale sia il contesto pertinente nell’analisi dei grandi processi di politicizzazione delle masse tra Otto e Novecento. Nelle mie ricerche ho cercato di concentrarmi su quello spazio continuo in cui sono in relazione attori politici e sociali posizionali su più livelli, dai leaders ai mediatori, dagli attivisti di base agli interlocutori e destinatari della politica. Ho tentato così di capire chi fossero i tanti attori coinvolti e di caratterizzare i loro legami: ne è emerso un modello simile alla configurazione di Norbert Elias, cioè un modello dinamico in cui è l’interazione e lo scambio continuo tra i vari e molteplici punti a determinare la natura e le caratteristiche di un processo storico. La popolazione mobile delle grandi città industriali rappresenta un osservatorio privilegiato per studiare il rapporto tra politica e ceti popolari in tale prospettiva: concentrare il nostro obiettivo sugli immigrati e sugli emigrati ci aiuta a sottolineare il carattere fluido della società urbana e a intravvederne le identità plurali che la compongono. Nella Torino tra Otto e Novecento, immigrati ed emigrati creavano legami e avevano relazioni, lavoravano e facevano politica: essi erano un ponte tra contesti differenti, geografici, sociali, professionali e culturali, e contribuivano in modo rilevante alla formazione dei pacchetti d’identità urbane che condizionavano anche la “grande” politica.
1Sul ruolo delle esposizioni nei processi di costruzione delle identità nazionali si veda per esempio: Anne-Marie Thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, Bologna, il Mulino, 2001; Adriana Baculo, Stefano Gallo, Mario Mangone, Le grandi esposizioni nel mondo, 1851-1900: dall’edificio città alla città di edifici, dal Crystal palace alla White city, Napoli, Liguori, 1988; Florence Pinot de Villechenon, Les expositions universelles, Paris, Presses universitaires de France, 1992; Brigitte Shroeder-Gudheus, Anne Rasmussen, Les Fastes du progrès: le guide des Expositions universelles 1851-1991, Paris, Flammarion, 1992; Linda Aimone, Carlo Olmo, Le esposizioni universali 1851-1900. Il progresso in scena, Torino, Allemandi, 1990; Pier Luigi Bassignana,Le feste popolari del capitalismo: esposizioni d’industria e coscienza nazionale in Europa, 1798-1911, Torino, U. Allemandi, 1997. Una sintesi recente del dibattito si può trovare in Alexander C. T. Geppert, Massimo Baioni (a cura di), Esposizioni in Europa tra Otto e Novecento. Spazi, organizzazione, rappresentazioni, in «Memoria e Ricerca», 17, 2004.
2Sul caso torinese mi limito a segnalare: Umberto Levra, Rosanna Roccia (a cura di), Le esposizioni torinesi 1805-1911, Torino, Archivio storico della Città di Torino, 2003; Pier Luigi Bassignana, Immagini del progresso: la tecnica attraverso le esposizioni nei documenti dell’Archivio storico Amma, Torino, Allemandi, 1990; Id., Lo specchio della trasformazione, in Umberto Levra (a cura di), Storia di Torino. VII. Da capitale politica a capitale industriale (1864-1915), Torino, Einaudi, 2001, p. 839-847; Augusto Sistri, Immagini della modernità e cultura architettonica, in ivi, pp. 849-865; Umberto Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione del Risorgimento, Torino, Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1992; Silvano Montaldo, Patria e affari. Tommaso Villa e la costruzione del consenso tra Unità e grande guerra, Roma, Carocci, 1999, pp. 301-369.
3Sulle migrazioni italiane: Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Partenze, Roma, Donzelli, 2001; Id., Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002; Angiolina Arru, Franco Ramella (a cura di), L’Italia delle migrazioni interne. Donne, uomini, mobilità in età moderna e contemporanea, Roma, Donzelli, 2003.
4Sull’idea del contagio, Dan Sperber, La contagion des idées. Théorie naturaliste de la culture, Paris, Odile Jacob, 1996.
5Maurizio Gribaudi, Movimenti migratori e mobilità sociale. Introduzione, in Disuguaglianze: stratificazione e mobilità sociale nelle popolazioni italiane (dal sec. XIV agli inizi del secolo XX), Bologna, CLUEB, 1997, tomo 2, pp. 171-176.
6Sui contatti a distanza, Pnina Werbner, The migration process: capital, gifts and offerings among the British pakistans, New York, Berg, 1990; Id., Global pathways. Working class cosmopolitans and the creation of transnational ethnics worlds, in «Social Anthropology», 7, 1999, pp. 17-35.
7Stein Rokkan, Cittadini, partiti, elezioni, Bologna, il Mulino, 1982.
8Ho estrapolato i fogli di famiglia da un data base che include circa 15.000 nominativi di residenti a Torino in alcuni quartieri della periferia secondo i censimenti del 1901 e del 1911, che funzionarono come schede anagrafiche fino al 1921.
9Carlo A. Corsini, Mauro Reginato, L’emigrazione piemontese nel contesto italiano. Una sintesi storico-demografica dei flussi, in Mauro Reginato, Patrizia Audenino, Carlo A. Corsini, Paola Corti (a cura di), Emigrazione piemontese all’estero. Rassegna bibliografica, supplemento a «Quaderni della Regione Piemonte», 29, 1999; Paola Corti, L’emigrazione piemontese: un modello regionale?, in Matteo Sanfilippo (a cura di), Emigrazione e storia d’Italia, Cosenza, Pellegrini editore, 2003; Ercole Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino, 1979.
10«Annuario del Municipio di Torino», 1911-1912, p. 504.
11Le statistiche sono tratte da «Annuario del Municipio di Torino», annate varie.
12«Annuario del Municipio di Torino», 1911-1912, p. 493.
13Su questo aspetto, rimando per esempio a un lavoro proprio sul caso torinese, cfr. Anna Donvito, Giovanni Garbarini, Senz’altra formalità che il reciproco preavviso. Le officine di Savigliano 1904-1914, in «Italia Contemporanea», 157, 1984, pp. 47-62; Id., Ottanta mestieri per trenta centesimi. Officine di Savigliano, stabilimento di Torino (1904-1914), in «Società e Storia», 29, 1985, pp. 595-625; Giovanni Garbarini, Scelte individuali e destini collettivi. Rapporti di lavoro alla Società Nazionale Officine di Savigliano tra guerra e dopoguerra. 1914-1920, in «Movimento Operaio e Socialista», 1, 1990, pp. 163-181. Per un quadro storiografico sul lavoro, cfr. Stefano Musso, Gli operai nella storiografia contemporanea. Rapporti di lavoro e relazioni sociali, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Tra fabbrica e società. Mondi operai nell’Italia del novecento, Feltrinelli, Milano, 1999, pp. IX-XLVI; Andrea Ciampani, Giancarlo Pellegrini (a cura di), La storia del movimento sindacale nella società italiana. Vent’anni di dibattiti e storiografia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005.
14Mie elaborazioni di dati da «Annuario del Municipio di Torino», 1903-1904, 1904-1905, 1905-1906, 1906-1907, 1907-1908.
15Rimando a Silvano Montaldo, Patria e affari cit., pp. 338-369; Giancarlo Monina, Il consenso coloniale. Le Società geografiche e l’Istituto coloniale italiano (1896-1914), Roma, Carocci, 2002; Nicola Labanca (a cura di), L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, Treviso, Pagus, 1992; Michele Nani, Ai confini della nazione. Stampa e razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Roma, Carocci, 2006; Alberto Aquarone, Politica estera e organizzazione del consenso nell’età giolittiana: il Congresso dell’Asmara e la fondazione dell’Istituto Coloniale Italiano, in «Storia contemporanea», 1971, n.1, pp. 549-572; Francesco Surdich, Esplorazioni geografiche e sviluppo del colonialismo nell’età della rivoluzione industriale, vol. 2, Espansione coloniale ed organizzazione del consenso, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
16La parte dell’esposizione relativa all’emigrazione fu affidata al Laboratorio di economia politica di Torino, e la scelta deve essere collocata in questo mutato scenario sul colonialismo, e nelle riflessioni che gli organizzatori del nuovo evento stavano facendo a metà anni Novanta.
17Primo congresso degli italiani all’estero sotto l’alto patronato di S.M. Vittorio Emanuele III, Roma, ottobre 1908. Tema settimo – Studi relativi al progetto di una mostra generale del lavoro degli italiani all’estero da tenersi nel 1911: relazione dell’on. Edoardo Daneo, Roma, Cooperativa tipografica Manuzio, 1908. Sulla mostra del 1911 e sui suoi precedenti, cfr. Patrizia Audenino, Il lavoro degli italiani all’estero nell’Esposizione Internazionale di Torino del 1911, in «Archivio storico dell’emigrazione italiana», 7, 2011, pp. 11-17.
18Giorgio Mortara, Le popolazioni delle grandi città italiane. Studio demografico, Torino, Unione Tipografico-editrice Torinese, 1908
19Per i dati, cfr. Città di Torino, Quarto censimento della popolazione (9 febbraio 1901), Torino, Eredi Botta, 1902; Id., Popolazione della Città di Torino divisa per sesso e classificazione per professione e condizione. Confronto fra le risultanze dei censimenti: 31 dicembre 1881 e 9 febbraio 1901, Torino, Tipografia G. Vassallo, 1905. Si veda anche S. Musso, Gli operai di Torino. 1900-1920, Milano, Feltrinelli, 1980.
20Davide Tabor, «Il popolo alle urne. Un’analisi del comportamento elettorale a Torino tra la fine dell’Ottocento e la Grande Guerra», Quaderni Storici, 1, 2011, 249-284.
21Su questo aspetto della condizione femminile rimando a Davide Tabor, La donna negli ospedali psichiatrici a cavallo fra Ottocento e Novecento. Il caso di Torino, in Gianluigi Mangiapane, Anna Maria Pecci, Valentina Porcellana (a cura di), Arte dei margini. Collezioni di Art brut, creatività relazionale, educazione alla differenza, Milano, FrancoAngeli, 2013.
22George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna, Il Mulino, 1975.
23Dan Sperber, Deirdre Wilson, Relevance. Communication and cognition, Oxford, Blackwell, 1986.