1. Gioventù bruciata
Una vicenda tragica accompagna lo svolgimento del grande affresco tratteggiato nel libro e nel film di Mario Martone Noi credevamo: è quella della ideazione e della messa in atto del fallito attentato a Napoleone III da parte di Felice Orsini. La scelta di sviluppare la narrazione attorno a questa sfortunata figura ha l’obiettivo, rispecchiato dall’intero film, di restituire al Risorgimento il suo originario carattere di acceso conflitto. Oggetto di rimozione, prodotta dalla trasformazione in monumento di questo periodo della nostra storia, tale conflitto vedeva contrapposti due progetti per la futura Italia unita: uno laico, democratico e repubblicano, e l’altro clericale, conservatore e monarchico. Nelle intenzioni del regista, è esattamente questo l’aspetto che oggi ci avvicina al quel periodo, e “a quei patrioti, che erano dei ragazzi giovani, pieni di passione”[1]. Il prezzo di questa passione fu per lo più pagato nelle vie dell’esilio.
Naturalmente la prima domanda riguarda le origini del fenomeno: una tradizione storiografica inaugurata da Carlo Cattaneo indica l’esordio dell’esilio risorgimentale nella fuga di Ugo Foscolo all’indomani della restaurazione[2]. Nella prima ricostruzione di questa cronologia tuttavia, già Alessandro Galante Garrone precisava come il poeta fosse stato preceduto nell’ultimo decennio del Settecento da Filippo Buonarroti, che trasferiva in Corsica le sue speranze rivoluzionarie e poi, a ridosso del nuovo secolo, dai superstiti della repubblica napoletana del 1799[3]. A partire da questi dati iniziali, è utile in primo luogo interrogarsi su quelle caratteristiche comuni che permettono di accostarci alla vicenda dei protagonisti adottando un approccio prosopografico, per inseguirne le sorti nella loro dispersione geografica[4]. Le motivazioni, casuali o meno, della scelta delle destinazioni, i progetti e in genere le modalità con cui l’esilio venne affrontato, costituiscono la seconda domanda.
La ricerca degli ultimi anni ha posto domande nuove alle vicende di questi primi esuli dell’età contemporanea e differenti da quelle con cui le loro odissee sono state indagate in passato. Sul versante della storia culturale sono stati colti e illustrati i meccanismi che hanno immesso le loro storie, spesso drammatiche, nella narrativa dell’epopea risorgimentale, responsabile delle principali immagini fondanti della nazione italiana[5]. Sul versante della ricostruzione della loro esperienza, è stata sperimentata la possibilità di delineare un loro profilo sociale e la geografia, reale e ideale, dei loro spostamenti[6].
Per quanto riguarda il primo aspetto, si può partire da qualche dato quantitativo: l’avanguardia fu composta dai circa 630 superstiti della repubblica napoletana rifugiati in Francia nel 1799, ai quali si aggiungevano i 250 giunti dalla repubblica romana[7]. Un contingente di circa 800 persone venne espulso nel biennio 1820-21, e più complessivamente sono stati calcolati in 3.000 esuli fra il 1815 e il 1830[8]. I fatti del 1848 sospinsero alla fuga un numero ben maggiore di profughi: dalla sola Lombardia si è ritenuto che addirittura 120.000 persone abbiano cercato rifugio in Svizzera al rientro degli austriaci dei primi di agosto[9]. Anche Costanza D’Azeglio giudicava che un terzo dell’intera popolazione del Lombardo-Veneto, cioè circa centomila persone, avesse cercato scampo altrove. Tali cifre sono state ritenute successivamente esagerate, è certo tuttavia che, come ha dimostrato Ester De Fort, nel solo Piemonte affluirono in quell’occasione oltre 50.000 fuggitivi[10].
Per cercare di delineare meglio chi fossero gli esuli risorgimentali è utile in primo luogo individuarne l’aspetto generazionale: come ha sostenuto Bistarelli, si tratta in realtà dell’intersezione fra più di una generazione, poiché i protagonisti dell’esilio risorgimentale si distribuirono fra la coorte che visse gli anni dell’esperienza napoleonica e quella che giunse all’adolescenza in quelli della Restaurazione[11]. Da tali considerazioni deriva una importante conseguenza: i rivoluzionari dell’Ottocento, nel loro configurarsi come una generazione, erano per lo più di età giovane e giovanissima. A questo riguardo, è sufficiente ricordare le implicazioni sottese allo stesso nome di “Giovane Italia”, il cui nome derivava dal fatto che per entrare far parte dell’ associazione occorreva non avere ancora raggiunto i quarant’anni. La circostanza è confermata dall’indagine prosopografica condotta su 146 protagonisti delle lotte risorgimentali da Roberto Balzani: nel 1848, non solo l’86% di questi aveva meno di quarant’anni, ma il 41% non era ancora trentenne e addirittura il 22% aveva meno di venticinque anni[12]. Anche la storiografia precedente aveva tuttavia messo l’accento appunto su tale dato generazionale, dei “giovani” nati dopo la data fatidica del 1789[13].
Quanto alla provenienza sociale, la ricerca già citata di Bistarelli, condotta su di un campione di 800 degli esuli piemontesi e napoletani del 1821, ha mostrato come la percentuale più significativa risulti quella dei militari, che avevano dato origine alla sollevazione. I 438 ufficiali, sottufficiali e soldati rappresentavano infatti il 59,4% dell’intero contingente. Fra i civili, il gruppo più numeroso era quello degli studenti, pari al 32%, confermando con ciò il dato relativo all’età. A tale gruppo seguiva il 28% dei professionisti, mentre lavoratori manuali e artigiani assieme arrivano appena al 16%. All’interno dei professionisti, che costituivano la schiera più folta dopo quella degli studenti, il 59% esercitava le professioni legali, il 9% apparteneva alla categoria degli ingegneri e degli architetti e il 7% a quella dei medici[14].
Il numero preponderante degli appartenenti all’esercito spiega come, nel 1831, il governo francese abbia ritenuto di potere provvedere utilmente alla sistemazione degli esuli italiani, come aveva già fatto nel 1802 con la costituzione della Legione italiana, inquadrando gli italiani nella Legione straniera appena istituita. Il quinto battaglione, composto di sette compagnie, per un totale di ottocento soldati, era interamente composto da rifugiati della Penisola, provenienti per due terzi dal Regno di Sardegna, e per il resto dagli altri dagli stati. La vicenda di Raffaele Poerio, che ne assunse il comando, appare esemplare: nato nel 1792, egli aveva iniziato la sua carriera con i Bonaparte, prima in Spagna e poi a Napoli; nel 1820 aveva preso parte alla rivoluzione costituzionale, a capo di un tentativo di insurrezione in Calabria. Condannato per questo all’esilio, aveva peregrinato fra Malta, la Spagna il Portogallo, la Grecia, di nuovo Malta, di qui in Inghilterra per approdare finalmente di nuovo in Francia, dove gli veniva affidato tale incarico di comando[15].
Nei confronti della provenienza geografica, gli studi condotti convergono nell’indicare non solo una distribuzione regionale piuttosto omogenea, ma anche una accentuata presenza di persone nate e cresciute in provincia, piuttosto che nelle capitali dei vari stati italiani, dando luogo a un fenomeno che è stato definito come “egemonia delle periferie”[16].
Non sfugge infine la scarsissima attenzione alla componente femminile, pure spesso presente nelle fonti, ma come di consuetudine annoverata fra le pertinenze degli esuli maschi, come fidanzate e mogli, madri e sorelle, partecipi di disagi e peripezie. A pochissime figure la storiografia ha affidato la rappresentanza dei rispettivi ruoli della donna esule e di quella che attende in patria: esse sono riassunte nella biografia di Cristina Trivulzio di Belgioioso, raminga per l’Europa e il Mediterraneo e in quella Maria Drago, madre di Giuseppe Mazzini e costante amorevole conforto al figlio che non avrebbe più rivisto. Le donne compaiono prevalentemente come corrispondenti di epistolari familiari, partecipi solidali con le sofferenze dei mariti, figli e fratelli, che accudiscono con una sollecitudine accresciuta dalla lontananza[17]
2. Terre di libertà e di accoglienza
Per delineare il carattere dei protagonisti dell’esilio risorgimentale, la cronologia delle partenze e la geografia delle destinazioni, è opportuno partire dall’intreccio fra questi ultimi due aspetti. Le destinazioni prevalenti degli esuli portarono infatti in una prima fase lontano dall’Italia, nel Mediterraneo, nell’Europa occidentale e oltreoceano nei primi decenni del secolo. Dopo il 1848 invece fu il Piemonte, in precedenza terra di partenza per l’esilio, che divenne luogo privilegiato d’accoglienza per profughi e rifugiati.
In modo molto suggestivo la geografia dell’esilio è stata di recente ripercorsa ricostruendo una mappa ideale delle lotte per l’indipendenza e la libertà dei primi decenni dell’Ottocento. In questo universo di speranza e di aneliti ideali, la Spagna rivoluzionaria e le nuove repubbliche dell’America Latina, la Grecia avamposto dell’Occidente e luogo primigenio della democrazia, l’Inghilterra quale unico e insuperato esempio europeo di democrazia e libertà hanno costituito le patrie ideali e gli approdi doverosi di quanti fecero parte di questa diaspora[18]. Indubbiamente questi luoghi costituirono dei riferimenti ideali dell’esilio, e anche le tappe reali di un esiguo gruppo di esuli. L’esperienza dei trentacinque patrioti, i cui epistolari sono stati indagati da Maurizio Isabella, non può tuttavia, e non intende neppure, delineare “una storia sociale dell’emigrazione del primo Risorgimento”[19]. Non è casuale, al riguardo, che sia la Francia, che la Svizzera, terre di esilio privilegiate degli esuli italiani per tutto l’Ottocento, non vengano prese in considerazione in questa ricerca.
Per cominciare a indagare proprio tale aspetto finora trascurato, è opportuno tenere conto, nella costruzione della geografia dell’esilio, oltre che delle speranze e delle aspirazioni ideali dei fuggitivi,delle politiche di accoglienza che questi ultimi incontrarono o che furono sollecitate dal loro arrivo, e il ruolo che esse rivestirono nel determinarne percorsi e comportamenti nell’esilio. Nel corso dei primi decenni dell’Ottocento tutti gli stati europei dovettero affrontare il problema degli esuli politici. La risposta che essi diedero risultò decisiva nell’indirizzare percorsi e destinazioni e, nel lungo periodo, l’adozione di modelli politici che avrebbero nutrito più di una generazione risorgimentale nell’ammirazione di quel sogno liberale che era negato in patria.
La Spagna rivoluzionaria, la Francia repubblicana, la Gran Bretagna, il Belgio e la Svizzera furono i paesi che più attrassero gli esuli e alla base di tale predilezione stavano le politiche adottate tema di accoglienza. In Francia ad esempio, poiché non entrò mai in vigore il diritto d’asilo previsto dalla costituzione del 1793, a lungo fu l’aiuto individuale, o l’impegno delle municipalità, a farsi carico degli esiliati politici, che tuttavia dovevano spartire le risorse destinate al soccorso dei profughi con il gruppo degli esuli polacchi, non solo numericamente preponderanti, ma visti come veri martiri di una nazione cui era negato il diritto ad uno stato. In Gran Bretagna fu, come è noto, la mancanza di una normativa, che, non contemplando esplicitamente il diritto d’asilo, concesse di fatto il diritto all’asilo a chi ne aveva necessità. Anche in Belgio la normativa agì per sottrazione, rendendo inefficaci, con un provvedimento varato nel 1833, le richieste di rimpatrio fatte dai paesi di provenienza dei rifugiati[20]. La presenza degli esuli tuttavia non sfuggiva né alla polizia locale né, soprattutto, ai servizi segreti dei paesi dai quali essi erano fuggiti. L’accoglienza offerta nel 1821 da Paolo Arconti Visconti nel castello di Gaesbeck, non lontano da Bruxelles, a suo nipote Giuseppe, in fuga perché compromesso con gli avvenimenti piemontesi, trasformò tale dimora in un centro di incontro e di soccorso degli esuli che attrasse le attenzioni degli servizi segreti sabaudi. Per anni questi esercitarono accurati controlli nel piccolo stato di recente indipendenza, stipendiando agenti di informazione, la cui utilità a un certo punto risultò non adeguata alla spesa, date le più che dubbie aspirazioni rivoluzionarie della piccola comunità in esilio[21]. Anche la lunga tradizione di accoglienza che si accompagnava in Svizzera alla scelta della neutralità, non salvaguardava completamente l’autonomia politica del paese, che pullulava di agenti segreti dei paesi confinanti, e a stento garantiva la salvezza di quanti vi cercavamo protezione. In vari casi il consiglio municipale di Ginevra si trovò costretto a giustificare, con gli irritati rappresentanti diplomatici asburgici, l’ospitalità concessa agli esuli italiani; ma anche la presenza per niente discreta di agenti segreti austriaci non impedì di mantenere una benevola protezione nei confronti dei rifugiati[22]. Gli individui troppo esposti erano comunque inviati a riprendere quanto prima la strada, come era avvenuto con Santorre Derossi di Santarosa al suo arrivo nel cantone del Vaud nel 1821[23]. L’ospitalità concessa vietava tuttavia sia in Svizzera che in Belgio il prosieguo di ogni attività politica, come mostra l’itinerario di Karl Marx, espulso prima dalla Francia e poi nel 1848 anche dal Belgio e approdato infine nell’ospitale metropoli londinese. Anche a Londra tuttavia, appunto per il suo carattere di rifugio dei ribelli dell’Europa continentale, erano all’opera frotte di spie[24].
Al contrario, la negazione dell’accoglienza aggiunse per alcuni, alla tragedia dell’esilio, un supplementare calvario: nel giugno del 1849, ad esempio, il brigantino San Gennaro, con a bordo 255 siciliani espulsi, veniva respinto dal governatore britannico di Malta, per incontrare la stessa risposta anche da parte del bey di Tunisi. Alla nave venne negato l’approdo dalle autorità francesi sia a Bona che ad Algeri, e rispedita in direzione di Tunisi. Di qui veniva indirizzata ancora alla volta di Malta, sperimentando una modalità di gestione dei profughi che l’Europa avrebbe messo in atto anche in seguito[25].
A parte le scelte ideali di un numero assai limitato di esuli, determinanti per la selezione di itinerari e destinazioni furono, in definitiva, le politiche di accoglienza intraprese dai vari paesi. Non è irrilevante la circostanza che proprio attraverso tali politiche di accoglienza, da parte della Francia, della Spagna e della Svizzera, del Belgio e dell’Inghilterra si intendessero ribadire delle scelte in ordine alle idee di libertà e di tolleranza, come si è appena osservato[26].
Una seconda alternativa di fuga, ma anche di deportazione, furono quei luoghi del Mediterraneo come Malta, l’Algeria e la Tunisia, ma anche Istanbul, dove la presenza di insediamenti di lingua e cultura italiana faceva sperare che fosse possibile continuare l’azione politica dando vita a quella che è stata definita una “diaspora mediterranea”[27]. Le destinazioni transoceaniche invece non ebbero maggiori attrattive, soprattutto in America settentrionale, meno preferita delle giovani repubbliche dell’America Latina. Il trasferimento nei paesi del nuovo mondo infatti non fu nel complesso ritenuto desiderabile, perché le distanze impedivano il mantenimento di quella rete di comunicazioni che sorreggeva l’impegno politico. Per tale ragione, esso fu più spesso il risultato di deportazione che di esilio volontario. Emblematica risulta al riguardo la vicenda dei detenuti politici dello stato pontificio, deportati nel 1836 in Brasile, con una iniziativa che aveva già un precedente nel 1820, quando trecento prigionieri napoletani erano stati condotti per nave a Lisbona e di qui inviati in Brasile[28].
3. Naufraghi della rivoluzione
L’esperienza dell’esilio ottocentesco italiano è stata catalogata utilizzando il binomio dell’esule giacobino, che trasforma l’allontanamento in nuova occasione di lotta, inseguendo il mito della libertà negli itinerari del mondo, e del proscritto, cacciato dalla patria e sconfitto[29]. Tuttavia tale esperienza pone anche delle domande per rispondere alle quali si può ipotizzare un terzo percorso di indagine, che applichi ad essa gli interrogativi e anche gli strumenti di ricerca elaborati dalla storia dell’emigrazione, e anche quelli messi in opera nei confronti dell’esilio antifascista del Novecento[30].
Il carattere sempre coercitivo delle partenze, che si trattasse di fughe o di espulsioni, pone dei problemi cui solo questo terzo percorso può fornire delle risposte. Le vicissitudini degli esuli sono state per lo più osservate alla ricerca di quelle attività che essi promossero per continuare all’estero a combattere per la causa per cui avevano lasciare in patria. La loro vicenda può, però, anche essere ricostruita con occhio attento alla loro esperienza di migranti, quindi in primo luogo alle possibilità di sostentamento che si offrirono a quanti si erano allontanati dai loro luoghi di origine, non alla ricerca di lavoro o per l’esercizio di un mestiere ma, al contrario, abbandonando il proprio impiego e spesso perdendo, per poco o per sempre, la possibilità di sfruttare le proprie competenze[31]. In secondo luogo è il rapporto sia con le società di arrivo, sia con il resto dell’emigrazione italiana che sembra costituire un utile punto di osservazione per ricostruire le modalità e le traiettorie dell’esilio.
Nonostante il carattere non volontario delle loro partenze, gli esuli si trovarono infatti a condividere molti aspetti esistenziali dell’esperienza degli emigranti non politici, e pure, come questi ultimi, a entrare in relazione tanto con le società di accoglienza quanto con gli altri connazionali, con modalità differenti da un paese all’altro. Inoltre, a guidare i loro percorsi non stavano soltanto ragioni ideali e desiderio di mettere la propria esistenza al servizio della libertà, dovunque si trovasse, ma quelle opportunità e quei legami personali che la storia dell’emigrazione ha riassunto nel concetto di catene migratoria. L’allontanamento, nelle speranze e nelle aspettative dei fuggitivi e degli espulsi, avrebbe voluto essere limitato nel tempo, anche se questi emigranti, come altri, si trovarono sovente nella condizione di trasformare una partenza temporanea in una definitiva. Tale tipologia di percorsi pone la domanda di quale ruolo gli esuli abbiano assunto nei confronti del resto dell’emigrazione italiana. Il punto di partenza è tuttavia la considerazione preliminare che gran parte della storiografia ottocentesca e anche della prima metà del Novecento non ha avuto come obiettivo la ricostruzione di questi aspetti, sui quali più che di informazioni disponiamo di indizi, tratti da una narrazione intenta soprattutto a obiettivi di edificazione e di costruzione di esempi meritevoli di essere collocati nell’empireo nazionale[32].
Dal punto di vista economico, a differenza degli altri emigranti, gli esuli non partivano alla ricerca di lavoro, ma al contrario si trovavano sovente sprovvisti di competenze spendibili all’estero. Di tale circostanza furono ben consapevoli fin dall’inizio quanti li videro affluire, per esempio in Francia. Qui, con la legge del 28 termidoro del 1799 si stanziavano 100.000 franchi per il soccorso degli esuli, che si sommavano ai 200.000 già decretati in aprile per i rifugiati cisalpini. I nuovi arrivati dapprima furono principalmente i piemontesi, ma si incrementarono in modo drammatico con l’arrivo dei fuggitivi giunti a Marsiglia da Napoli, a fine mese[33]. La somma si rivelò largamente insufficiente, soprattutto quando ai napoletani si aggiunsero anche i profughi della repubblica romana, e nell’ottobre le vittime delle espulsioni dalla Liguria. Le singole municipalità, come quella di Grenoble, si trovarono direttamente investite dal problema posto da questa moltitudine di profughi bisognosi di tutto, completamente dipendenti dalla carità cittadina e privata, ridotti a cantare per le strade per sollecitare qualche elemosina e fra i quali nell’autunno la fame cominciava a mietere le prime vittime.
Vent’anni dopo, all’arrivo dei circa cinquecento esuli italiani nel 1821 a Barcellona, Tarragona a Valenza, nella Spagna del Trienio Constitucional, vennero varati dalle Corti sussidi mensili proporzionati al censo e alla collocazione sociale dei rifugiati, suddivisi in due categorie: i titolari di cariche significative nella rivoluzione napoletana e i profughi generici cui i soccorsi erano destinati solo temporaneamente[34]. Anche a Londra fin dal 1821 si costituiva il Comitato di soccorso esuli, cui ne seguì un altro, dieci anni dopo, per quanti avevano partecipato alla sfortunata spedizione in Savoia[35].
Quando nel 1848 la capitale dell’emigrazione politica italiana divenne Torino, furono immediatamente varati provvedimenti riguardanti l’immigrazione e il soccorso dei profughi. Mentre si invitavano all’arruolamento tutti gli uomini dai 18 ai 40 anni e si varava una sovvenzione giornaliera per i più poveri, si istituiva un Comitato centrale per i soccorsi agli emigrati italiani, presieduto dall’abate Cameroni. Il comitato misurava le sovvenzioni in base alla classe sociale di appartenenza, in modo da non dovere costringere chi non aveva mai lavorato a tale umiliazione, ma anche in modo da non fare perdere l’abitudine al lavoro a chi invece già l’aveva contratta[36].
Contemporaneamente anche in Canton Ticino, dove avevano trovato rifugio soprattutto gli sfollati di Milano, prendevano vita associazioni caritatevoli e comitati di soccorso sorgevano sia a Lugano che a Locarno. Quello di Lugano dopo un mese di attività aveva raccolto 28.000 lire milanesi, con cui aveva portato soccorso a 750 profughi[37].
I soccorsi pubblici e privati non impedirono in genere il morso del disagio: “Ici on meurt de faim, de froid et de désespoir” scriveva Carlo Botta nel dicembre del 1799, pochi mesi dopo avere lasciato l’Italia[38]. Uomini di studio e professionisti erano impreparati ad un mercato del lavoro che non richiedeva le loro competenze: si inventarono istruttori di musica, di scherma e di equitazione, ma anche di matematica. Diffuso fu anche l’insegnamento dell’italiano, idioma che, identificando le persone colte, costituiva un ornamento di prestigio per signorine ben nate e gentiluomini nei paesi anglosassoni. Negli Stati Uniti l’insegnamento dell’italiano garantì qualche possibilità, almeno nella prima metà del secolo: Piero Maroncelli, giunto a New York dopo la lunga prigionia allo Spielberg, dava lezioni di musica e di italiano, dovendo, però, anche piegarsi, nei momenti più difficili, a trasformare la sua abitazione in boarding house[39].
Nell’area mediterranea, e soprattutto nei territori nordafricani dell’impero ottomano, dove la nostra era ritenuta lingua della diplomazia e dei commerci [40], quest’ultimo settore si rivelò come il più proficuo, come rivela l’esperienza in Algeria del milanese Leone Paladini. Esule del 1848 e poi combattente della repubblica romana l’anno successivo, prima tentò di inseguire la fortuna in Francia, come fotografo, direttore di una fabbrica di birra, ma anche sopravvivendo come facchino. L’avrebbe poi trovata nel 1855, nella ditta di importazione di carni di Biskra da cui si era allontanato due anni prima, grazie alle forniture alla locale guarnigione e alle spedizioni in Francia di lana e granaglie[41]. Ma anche per gli affari occorreva una vocazione, che, per esempio, mancò del tutto a Giuseppe Mazzini, quando nel 1839 sperimentò senza successo l’importazione di salumi e poi di olio e vino dalla Liguria[42].
I meglio attrezzati alla sopravvivenza all’estero furono ovviamente quanti disponevano di competenze tecniche: medici, ingeneri e architetti, categorie che costituirono rispettivamente il 7% e il 9% degli esuli del 1820-21[43]. I primi trovarono pazienti tanto fra i nativi dei paesi di arrivo quanto fra le collettività italiane, come capitò al medico napoletano Francesco Galasso, assunto come chirurgo nell’armata francese in Algeria, e a cui, nel 1831, dovette rivolgersi per cure anche il console dello stesso Regno di Napoli da cui era fuggito[44]. Sono poi noti i casi di quanti trovarono nell’esilio il modo di esprimere vocazioni scientifiche che sarebbero altrimenti rimaste sopite, come l’esploratore Antonio Raimondi in Perù. Anche destinazioni più vicine si rivelarono tuttavia utili agli studi scientifici, come mostra l’esperienza del giovane Alberto Ferrero della Marmora, che trasformò il trasferimento coatto in Sardegna, risultato della sua partecipazione alle insurrezioni del 1821, nell’occasione per esprimere le sue doti di geologo e naturalista[45].
4. Esuli come emigranti. Catene migratorie e costruzione del-l’Italia all’estero
L’alto numero di appartenenti ai ranghi dell’esercito fra gli esuli produsse quella che oggi noi chiameremmo una catena migratoria professionale: nei loro successivi passaggi attraverso la Spagna, e la Francia, con alcune significative presenze anche nei combattimenti in Grecia, tale dimensione emerge con molta chiarezza. Già nella Spagna del Trienio Constitucional, fra i circa 500 rifugiati piemontesi, il gruppo che trovò una sua collocazione “coerente con capacità e aspirazioni” è quello che si radunò nel battaglione comandato da Pacchiarotti nel 1822[46]. Una ricerca condotta su 289 esuli provenienti dal Regno di Sardegna, giunti in Spagna a bordo di cinque navi nel maggio del 1821, ha verificato come i militari di professione costituissero la maggioranza: il 70%. Fra di essi risulta anche evidente il predominio di ufficiali di alto grado, di professionisti, commercianti, studenti e proprietari, che assieme coprono due terzi del contingente. L’ultimo terzo risultava invece composto da militari di truppa e artigiani[47].
L’istituzione del già menzionato quinto battaglione della Legione straniera, formato nel 1831 da volontari italiani, composto in prevalenza da militari di professione, e provenienti per due terzi dal regno di Sardegna, riafferma nelle sue modalità il meccanismo della catena migratoria professionale. Tre dei comandanti delle sette compagnie provenivano dall’esercito del Regno italico, e altri tre, piemontesi e savoiardi, dall’esercito imperiale. Gli arruolamenti erano avvenuti a Mâcon, a Grenoble e a Bastia. Quanto le ragioni dell’ingaggio fossero prevalentemente economiche, lo si può valutare dal tipo di impiego cui tale battaglione venne destinato: i lavori stradali e poi di costruzione del campo trincerato di Kouba, nella provincia di Algeri. Quando successivamente venne trasferito in quella di Orano, il battaglione dovette anche sostenere combattimenti contro la resistenza dei beduini, ma la lotta più dura era quella quotidiana per la sopravvivenza nel deserto[48] . In tali condizioni, dopo che venne meno la speranza, coltivata da alcuni, di fermarsi nel paese ottenendo un lotto da coltivare, fu di frequente adottata la scelta della diserzione, chiedendo perdono e assistenza al console del Regno di Sardegna, o passando il confine con la Tunisia[49]. Ancora più significativa risulta la circostanza che quel gruppo di poche decine di volontari che, dopo l’esperienza del Trienio, decisero di continuare la lotta per la libertà in Grecia, si sia trovato a combattere, almeno nel corso dell’assedio a Navarino, contro altri militari italiani che avevano invece trovato occupazione nell’esercito dell’Impero Ottomano. Tale presenza, per più rimossa o manipolata nella storiografia risorgimentale anche novecentesca, va invece valutata, seguendo l’invito di Bistarelli, nella sua valenza di “pista di ricerca sullo specifico della professione militare”. Tanto più che un altro territorio dell’impero, l’Egitto, con i suoi programmi di modernizzazione dell’esercito, rappresentò una ulteriore opportunità di impiego per chi esercitava tale mestiere[50]. Anche a Tunisi fu grazie all’impegno di un altro esule, Luigi Calligaris, fuggito dal Piemonte dopo il 1831, che venne fondata la Scuola Politecnica militare[51]. Questa distribuzione geografica disegna un circuito transnazionale, come dimostra anche la circostanza che al comando dell’apparato militare egiziano ci fosse un ufficiale francese, incaricato anche della preparazione per l’East India Company, corpo in cui si arruolò il piemontese Paolo Solaroli, passato dall’Egitto all’India, in un percorso che giustamente è stato accostato a quello di un “soldato di ventura”[52].
Altri itinerari alternativi vennero inaugurati da quanti intrapresero attività imprenditoriali o riuscirono a mettere a frutto in modo vantaggioso le loro competenze di intellettuali. Attraverso le molte biografie esemplari raccolte nel tempo dalla ricerca sul Risorgimento e anche da quella condotta in anni più recenti sulle presenze italiane all’estero nella prima metà dell’Ottocento, in cui la componente degli esuli fu certamente decisiva, emergono alcune ricorrenze, sulle rotte non ancora frequentate dalla grande migrazione, che è utile mettere in luce. La prima è rintracciabile accostando due biografie piuttosto note come quella di Luigi Tinelli e di Michelangelo Pinto.
Esponente di una importante dinastia imprenditoriale originaria di Laveno, sul lago Maggiore, che nel tempo aveva ratificato il suo prestigio con il trasferimento a Milano e la nobilitazione, il primo era giunto a New York nel 1835 per effetto della commutazione del carcere in esilio a vita in America[53]. Avvocato di professione, sperò di intraprendere un’attività imprenditoriale nel campo dell’allevamento dei bachi e della filatura della seta, con una piantagione nel New Jersey, a Weehawken. Nonostante le perdite provocate dalle turbolenze bancarie del 1837, l’attività meritò la medaglia d’oro dell’American Institute di New York per la miglior produzione di seta grezza di quell’anno. All’imprenditoria Tinelli preferì tuttavia l’incarico di console statunitense a Oporto, in Portogallo, che ricoprì dal 1841 al 1850. Il secondo e definitivo ritorno di Tinelli a New York, con la speranza esercitare ancora la professione di avvocato, l’avrebbe visto coinvolto nella guerra civile, prima nella Garibaldi Guard e successivamente nel 90° battaglione dell’Unione, fino alle dimissioni del 1863, causate da febbri malariche. Dieci anni dopo, la morte l’avrebbe colto in miseria, guadagnandosi la vita come legale dei nuovi immigrati dall’Europa, dopo che gli era stata negata anche la pensione di guerra richiesta nel 1870[54].
Il secondo fuggì invece dall’Italia alla sconfitta della repubblica romana, che lo costrinse a riparare da Torino, da cui ripartì nel 1855, per intraprendere un itinerario che lo avrebbe condotto attraverso le più consuete tappe dell’esilio: Parigi, Londra e la Svizzera, fino all’approdo a San Pietroburgo, nel 1859. Grazie a poche ma efficaci lettere di presentazione, già nel febbraio del 1860 Pinto ricoprì la carica le lettore di Lingua e Letteratura italiana presso l’Università imperiale, divenendo ascoltato consigliere in un progetto di riforma universitaria per il quale le istituzioni italiane fornirono il modello, acquisito attraverso un specifica missione nella penisola di cui venne incaricato. Non sarebbe stato che il primo di vari viaggi di studio su commissione dell’Accademia delle Scienze russa, anche dopo che, nel 1867, egli assunse la carica di console del regno d’Italia a San Pietroburgo. La carriera diplomatica avrebbe allontanato Michelangelo Pinto dalla Russia nel 1886, per condurlo prima ad Algeri e poi ad Amsterdam. L’ultima nomina l’avrebbe tuttavia ricondotto nell’impero russo: a Odessa, nel 1891[55].
Le due biografie appaiono all’opposto per tanti aspetti, fra i quali il dato geografico risulta il più appariscente ma il meno significativo. La prima finisce nella miseria e la seconda nel curriculum diplomatico di un rispettato rappresentante del Regno d’Italia all’estero. L’una e l’altra presentano delle analogie tuttavia proprio per l’inizio nell’esilio e nei successivi esiti nella diplomazia. In quella statunitense, nel primo caso, ma non unico, dato che anche il mazziniano Eleuterio Felice Foresti sarebbe stato nominato console americano Genova, nel 1853[56]. In quella italiana nel secondo, dato che anche il primo console italiano nominato a San Francisco, Leonetto Cipriani, era giunto nella città californiana nel 1849 a seguito della restaurazione dei Lorena in Toscana, con l’incarico conferitogli di persona da Massimo D’Azeglio[57]. Si tratta di percorsi che sarebbero stati attraversati nel Novecento anche da alcuni fra i più noti esuli antifascisti, come Carlo Sforza, primo ministro degli esteri della repubblica italiana, Alberto Tarchiani, titolare dell’ambasciata a Washington, o Egidio Reale, ambasciatore in Svizzera[58]. Un sentiero rimasto ben segnato nel tempo ha impresso lo stigma dell’esilio ad alcuni fra i principali protagonisti della diplomazia non solo italiana, dall’Ottocento al Novecento, fornendo una significativa apertura cosmopolita alla politica del nostro paese, sia pure al prezzo di vicende esistenziali segnate dalla sofferenza.
Su di un altro versante, anche gli incarichi assunti da Luigi Tinelli nell’ultima parte della sua esistenza, come avvocato e come rappresentate politico della nascente collettività italiana di New York, ci appaiono anticipatori di quel ruolo di ethnic broker che gli esuli italiani, per lo più anarchici e socialisti avrebbero svolto nell’ultima parte del secolo[59]. In tal senso le tracce sono assai più diffuse e visibili. A Tunisi il primo embrione di scuola italiana venne fondato nel 1828 da due esuli napoletani, il cui esempio venne seguito tre anni dopo da un altro profugo politico, assieme alla sorella[60]. Ma il terreno più fecondo per quella che Donna Gabaccia ha definito come “creazione degli italiani all’estero” fu l’America meridionale.
“L’emigrazione italiana in Argentina non s’inizia, dunque, con dei modesti lavoranti, ma degli intellettuali” scriveva nel 1940 Niccolò Cuneo, introducendo in tal modo il lettore alle biografie di Pietro Carta Molino e Carlo Ferrarsi, medico il primo e farmacista il secondo, artefici del Museo di storia naturale di Buenos Aires[61]. Chi aveva dato una fisionomia collettiva a questi arrivi era stato Giambattista Cuneo, esule mazziniano fuggito dall’Italia nel 1834, che nel 1854 aveva dato vita al primo giornale italiano della repubblica platense[62]. A Buenos Aires la prima società di mutuo soccorso fra gli italiani, che sarebbe divenuta una delle principali istituzioni italiane della città, l’Unione e benevolenza, venne fondata nel 1858 da esuli repubblicani. Come molte altre dopo di lei, scelse fra suoi padri ispiratori Garibaldi, eroe dei due mondi e perenne richiamo popolare per il nazionalismo democratico.
Per quanto riguarda l’Europa, Gabaccia ha sottolineato utilmente, nella sua sintesi del 2000, il carattere inusuale delle iniziative intraprese da Mazzini a Londra fin dagli anni centrali del secolo nei confronti dei gruppi di artigiani e suonatori ambulanti che costituivano al tempo la parte principale della presenza italiana nella capitale britannica[63]. Con una scelta da precursore, egli fondò già nel 1840 una prima società di mutuo soccorso fra gli artigiani e l’anno successivo aprì una scuola per i propri connazionali poveri e per i bambini che suonavano l’organetto per strada[64]. Con tali iniziative l’esule ligure segnava un marcato distacco da un comportamento degli altri rifugiati dalla Penisola che in maggioranza mantenevano il consueto atteggiamento di distanza nei confronti plebi che stentavano a riconoscere come connazionali. Attraverso queste attività, come giornali, scuole e società di mutuo soccorso, gli esiliati di questa stagione parteciparono in modo fattivo e con risultati di lunga durata a quel processo di creazione dell’Italia da cui erano stati esclusi in patria. Inoltre, a causa delle modalità e degli esiti con cui tal processo si concluse, una parte di essi giudicò la nuova Italia unita come un risultato troppo distante dai progetti per cui aveva sofferto l’esilio. Tale contingente finì per coltivare all’estero quegli ideali di un paese repubblicano, laico e democratico che nuove generazioni di esuli avrebbero riaffermato nei decenni successivi.
[1] Mario Martone, Noi credevamo, Milano, Bompiani, 2010, e l’intervista fatta da Fabio Fazio, “Che tempo che fa”, Rai3, 10 novembre 2010.
[2] Carlo Cattaneo, Ugo Foscolo e l’Italia, Estratto dai fascicolo LII-LIII del Politecnico, ottobre-dicembre 1860, Milano, Editori del Politecnico, 1861, p. 34: “Ugo Foscolo diede alla nuova Italia una nuova istituzione: l’esilio!”.
[3] Alessandro Galante Garrone,L’emigrazione politica italiana nel Risorgimento, “Rassegna storica del Risorgimento”, XLI, 1-2 (1954), pp. 223-242; anche in Id., L’albero della libertà. Dai giacobini a Garibaldi, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 59-97; Anna Maria Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli, Guida 1992, pp. 243 ss.
[4] Sulla legittimità di tale approccio cfr. Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 27 e ss.
[5] Cfr. Alberto Maria Banti, La nazione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 2000; Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. L’Internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma-Bari, Laterza, 2011 (ed. or. Risorgimento in exile. Italian Emigrés and the Liberal International in the Post-Napoleonic Era, Oxford, Oxford University Press, 2009).
[6] Oltre ai volumi di Bistarelli e Isabella, cfr. Enrico Verdecchia, Londra dei cospiratori. L’esilio londinese dei padri del Risorgimento, Milano, Marco Tropea Editore, 2010; più in generale Gabriella Ciampi, L’emigrazione, in Bibliografia dell’età del Risorgimento 1970-2000, II, Firenze, Olschki, 2003, pp. 1180-1209; Maria Anna Fonzi Colomba, L’emigrazione, in Bibliografia dell’età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, II, Firenze, Olschki 1972, pp. 429-469.
[7] A.M. Rao. Esuli, cit., pp. 249 e ss.
[8] Agostino Bistarelli, Cittadini del mondo? Gli esuli italiani del 1820-1821, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 4, 2008, pp. 5-21; M. Isabella, Risorgimento in esilio, cit.
[9] Giuseppe Martinola, Gli esuli nel Ticino, II, Lugano, Fondazione Ticino nostro 1994, p. 81.
[10] Antonio Colombo, Emigrati lombardi a Torino dopo l’armistizio di Salasco, “Il risorgimento italiano”, XXII, 3-4 (1930), pp. 543-566; Ester De Fort, Esuli in Piemonte nel Risorgimento. Riflessioni su una fonte, “Rivista storica italiana”, CXV, 3 (2003), pp. 649-688.
[11] A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., pp.83-84, il campione è stato, però, elaborato da Clara M. Lovett, The democratic movement in Italy, Cambridge MA, Harvard University Press, 1982.
[12] Roberto Balzani, I giovani del Quarantotto: profilo di una generazione, “Contemporanea”, III, 3 (2000), pp. 403-416; C.M. Lovett, The democratic movement in Italy, cit.
[13] Franco Della Peruta, I “giovani” del Risorgimento, in Il mondo giovanile in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di Angelo Varni, Bologna, il Mulino, 1998, pp. 41-52; Id., Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il “partito d’azione”, 1830-1845, Milano, Feltrinelli, 1974.
[14] A. Bistarelli, Cittadini del mondo?, cit..
[15] Ersilio Michel, Esuli italiani in Algeria (1815-1861), Bologna, Cappelli, 1935, pp. 24-29; A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., pp. 114-115.
[16] Ibid., pp. 82-83.
[17] Marta Bonsanti, Amore familiare, amore romantico e amor di patria, in Storia d’Italia, Annali 22, Il Risorgimento, a cura di Alberto Banti e Paul Ginsborg, Torino, Einaudi, 2007, pp. 127-152; Simonetta Soldani, Il Risorgimento delle donne, ibid., pp. 183-224; Bianca Montale, Maria Drago Mazzini, Genova, Comune di Genova, 1955.
[18] M. Isabella, Risorgimento in esilio, cit.
[19] Ibid., p. 12.
[20] Klaus J. Bade, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal settecento a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 201-225; più in particolare Pierre Guillen, L’évolution du statut des migrantes en France au XIXe et XXe siècles, in L’émigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, a cura di Pierre Milza, Rome, École Française de Rome 1991, pp.35-55; Anne Morelli, Belgique, Terre d’accueil? Rejet et accueil des exilés politiques en Belgique de 1830 à nos jours, ibid., pp. 117- 128.
[21] Mario Battistini, Esuli italiani in Belgio: 1815-1861, Firenze, Brunetti, 1968, pp. 15 e ssgg. e 74-75.
[22] Romeo Manzoni, Gli esuli italiani nella Svizzera (da Foscolo a Mazzini), a cura di Arcangelo Ghisleri con un discorso di Francesco Chiesa, Milano, Casa editrice Caddeo, 1922; Giovanni Ferretti, Esuli del Risorgimento in Svizzera, Bologna, Zanichelli, 1948; Giuseppe Martinola, Gli esuli italiani nel Ticino, vol.I, 1791-1847, Lugano, Comitato italiano nel Ticino per la celebrazione centenaria dell’unità d’Italia, Fondazione Ticino nostro, 1980; Id., Gli esuli italiani nel Ticino, II, 1848-1870, cit.; più in generale, Marc Vuilleumier, Immigrati e profughi in Svizzera. Profilo storico, Zurigo, Pro Helvetia, 1987.
[23] G. Ferretti, Esuli del Risorgimento in Svizzera, cit., pp. 86 e ss.
[24] K.J. Bade, L’Europa in movimento, cit., p. 211; E. Verdecchia, Londra dei cospiratori, cit., in particolare pp. 276 e ss.
[25] Ersilio Michel, Esuli italiani in Tunisia (1815-1861), Milano, Istituto per gli studi di politica internazionale 1941, pp. 216 ss.
[26] K.J. Bade, L’Europa in movimento, cit., pp. 201-225.
[27] Zefiro Ciuffoletti, L’esilio nel Risorgimento, in L’esilio nella storia del movimento operaio e l’emigrazione economica, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Manduria, Piero Lacaita editore, 1992, pp. 53-60; Gli italiani di Istanbul. Figure e istituzioni dalle riforme alla repubblica 1839-1923, a cura di Attilio De Gasperis e Roberta Ferrazza, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli, 2007.
[28] Ezio Lodolini, L’esilio in Brasile dei detenuti politici romani (1837), “Rassegna storica del Risorgimento”, LXV, 2 (1978), pp. 131-171; Luciano C. Rusich, Esuli dai moti carbonari del 1820-1821 nel Messico, ibid., LXXI, 4 (1984), pp.419-437; Salvatore Candido, Le emigrazioni politiche nell’America iberica nell’Ottocento, “Il Veltro”, XXXIV, 3-4 (1990), pp. 261-277; Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America, 1492-1992, Milano, Mondadori, 1995, pp.87-140.
[29] Piero Del Negro, L’Europa degli esuli, in Europa: storie di viaggiatori italiani, Milano, Electa 1988, p. 148. Alla prima categoria vanno evidentemente ascritti i protagonisti delle ricerche di Isabella.
[30] Pietro Pinna, Migranti italiani tra fascismo e antifascismo. La scoperta della politica in due regioni francesi, Bologna, Clueb, 2012; Patrizia Audenino, L’esilio di un maestro di libertà, in Il prezzo della libertà. Gaetano Salvemini in esilio 1925-1949, a cura di Ead., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 11-42; Patrizia Gabrielli, Col freddo nel cuore: uomini e donne nell’esilio antifascista, Roma, Donzelli 2004; Émigration politique. Un perspective comparative. Italiens et Espagnols en Argentine et en France XIXe-XXe siècles, a cura di Fernando Devoto e Pilar Gonzalez Bernaldo, Paris, L’Harmattan, 2001.
[31] Sul rapporto tra emigrazione politica ed emigrazione economica cfr. Émile Temime, Émigration “politique” et emigration “économique”, in L’émigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, cit. pp. 57-72, e Pierre Milza, Introduction et problématique générale, ibid., pp. 3-12; cfr. inoltre Patrizia Audenino e Antonio Bechelloni, L’esilio politico fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia, Annali 24, Migrazioni, a cura di Paola Corti e Matteo Sanfilippo, Torino, Einaudi, 2009, pp. 343-369.
[32] Maurizio Isabella, Exile and nationalism: the case of the Risorgimento, “European History Quarterly”, 36, 4 (2006), pp. 493-520.
[33] A.M. Rao, Esuli, cit., pp. 253-263.
[34] A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., pp. 90-99.
[35] Ibid., p. 134.
[36] Biagio Furiozzi, L’emigrazione politica in Piemonte nel decennio preunitario, Firenze, Olschki, 1979, p. 16 ed Ester De Fort, Esuli in Piemonte nel Risorgimento, cit.
[37] G. Martinola, Gli esuli italiani nel Ticino, II, cit., pp. 81e ss.
[38] A.M. Rao, Esul, cit., p. 282.
[39] E. Franzina, Gli italiani al nuovo mondo, cit. p.113; anche Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880, I, Milano, Mondadori, 2001, pp. 339-341; Luisa Cetti, Piero Maroncelli,Lettere dall’America 1834-1844, “Il Risorgimento”, XLV, 3 (1993), pp. 336-421.
[40] Robert Paris, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, IV, 1, Dall’unità a oggi, Torino, Einaudi, 1975, pp. 553-557.
[41] E. Michel, Esuli italiani in Algeria, cit., pp. 207-219.
[42] Emilia Morelli, Mazzini in Inghilterra, Firenze, Le Monnier, 1938, pp. 16-17.
[43] A. Bistarelli, Cittadini del mondo?, cit., p. 14.
[44] E. Michel, Esuli italiani in Algeria, cit., pp. 23-24.
[45] Giorgio Pellegrini, Le belle di Cabras. Note sull’iconografia sarda di Alberto Ferrero della Marmora, in Una famiglia nel Risorgimento. I la Marmora dal Piemonte all’Italia, a cura di Silvia Cavicchioli, Candelo, Biverbanca-Gruppo Montepaschi, 2012.
[46] A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., p. 101.
[47] Manuel Morán, Los Piamonteses en el Trienio Constitucional Espagnolo, in L’émigration politique en Europe aux XIXe et XXe siècles, cit. pp. 217-234.
[48] E. Michel, Esuli italiani in Algeria, cit., pp. 24 e ss.
[49] E. Michel, Esuli italiani in Tunisia, cit., pp. 80 e 135.
[50] A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., pp. 112-116; R. Paris, L’Italia fuori d’Italia, cit., p.553.
[51] Enrico de Leone, La colonizzazione dell’Africa del nord (Algeria, Tunisia, Marocco, Libia), Padova, CEDAM, 1957, I, pp. 204-209.
[52] Ibid., p. 117 e Tommaso Vialardi di Sandigliano, Un soldato di ventura alla corte indiana di Sardanha: Paolo Solaroli, novarese, “Studi piemontesi”, 35, 2 (2006), pp. 333-346.
[53] Cfr. I Tinelli. Storia di una famiglia (secoli XVI-XX), a cura di Marina Cavallera, Milano, FrancoAngeli, 2003.
[54] Marco Sioli, Nella terra della libertà: Luigi Tinelli in America, in I Tinelli, cit., pp.67-92; Stefano Luconi e Matteo Pretelli, L’immigrazione negli Stati Uniti, Bologna, il Mulino, 2008, p. 63.
[55] Marco Clementi, Michelangelo Pinto, l’Università di San Pietroburgo e la lontana Unità d’Italia. Il volontario esilio di un ex rivoluzionario, “Nuova rivista storica”, LXXX (1996), pp. 179-202.
[56] Salvatore Candido, L’azione mazziniana nelle Americhe e la congrega di New York della “Giovine Italia” (1842-1852), “Bollettino della Domus Mazziniana”, XVIII, 2 (1972), pp. 123-185.
[57] Francesca Loverci, Italiani in California negli anni del Risorgimento, “Clio”, XV, 4 (1979), pp. 469-547; Leonetto Cipriani, Avventure della mia vita, pubblicate e annotate a cura di Leonardo Mordini, Bologna, Cappelli, 1934.
[58] Cf. fra gli altri, Sonia Castro, Egidio Reale tra Italia, Svizzera e Europa, Milano, FrancoAngeli, 2011.
[59] Elisabetta Vezzosi, Il socialismo indifferente. Immigrati italiani e Socialist Party negli Stati Uniti del primo Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1991.
[60] E. Michel, Esuli italiani in Tunisia , cit., p.10.
[61] Nicolò Cuneo, Storia dell’emigrazione italiana in Argentina, Milano, Garzanti, 1940, pp. 47 e ss.; cfr. pure S. Candido, Le emigrazioni politiche nell’America dell’Ottocento, cit..
[62] Federica Bertagna, La stampa italiana in Argentina, Roma, Donzelli, 2009, p.19 e ss; Fernando Devoto, Le migrazioni italiane in Argentina. Un saggio interpretativo, Napoli, L’officina tipografica, 1994, p. 125, e Storia degli italiani in Argentina, Roma, Donzelli, 2007.
[63] Donna Gabaccia, Italy’s many diasporas, Seattle, University of Washington Press, 2000 (tr. it. Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Torino, Einaudi 2003). Per la composizione della presenza italiana a Londra nella prima metà dell’Ottocento, cfr. Lucio Sponza, Italian Immigrants in Noineteenth Century Britain: Realities and Images, Leicester, Leicester University Press, 1988; John Zucchi, Little Slaves of the Arp. Italian Child Street Musicians in Nineteenth-Century Paris, London, and New York, Montreal-Kingston, McGill-Queen’s University Press, 1992 (tr. it. I piccoli schiavi dell’arpa. Storie di bambini italiani a Parigi, Londra e New York nell’Ottocento, Genova, Marietti, 1998).
[64] E. Morelli, Mazzini in Inghilterra, cit., pp. 35 e ss; Michele Finelli, Il prezioso elemento. Giuseppe Mazzini e gli emigrati italiani nella Scuola Italiana di Londra, Verucchio, P.G. Pazzini, 1999.