Il tema delle migrazioni all’interno dell’Italia è tornato recentemente alla ribalta. Opinionisti, studiosi, giornalisti, funzionari pubblici e ricercatori hanno ricominciato ad approfondire le forme, le cause, l’impatto della mobilità territoriale all’interno della penisola. Gli spostamenti a lunga percorrenza da Sud a Nord non sono diminuiti negli anni della crisi, anzi si sono confermati come un elemento consolidato nel sistema migratorio italiano. Tra il 2011 e il 2012 Napoli è stata la provincia italiana con il record negativo per il saldo migratorio interno, ovvero la provincia che ha perso il numero più elevato di persone per spostamenti interni: la differenza tra iscrizioni e cancellazioni per altre provincie ammonta a meno 18 500, numero superiore persino al totale di regioni come Puglia, Sicilia o Calabria, il cui saldo migratorio si aggirava tra meno 10 800 e meno 8000. Nello stesso periodo Roma e Bologna risultavano all’altro capo della bilancia come le provincie che più hanno attratto cittadini da tutta la penisola, con un saldo migratorio attivo rispettivamente di 10 000 e 4000 persone; il Trentino Alto-Adige e l’Emilia-Romagna si sono confermate come le regioni di maggiore richiamo in proporzione agli abitanti. Anche il pendolarismo a lunga percorrenza è un fenomeno che mostra una consistenza notevole: secondo le rilevazioni Istat nel 2012 sono state circa 156 000 le persone che si sono mosse da Sud e Nord e ritorno, coprendo ripetutamente le centinaia di chilometri che separano il luogo di residenza dal luogo di lavoro.
Le migrazioni interne continuano tuttavia ad apparire e scomparire nel dibattito pubblico con una bizzarra intermittenza: prima vengono richiamate e sbandierate come sintomo delle numerose e infinite anomalie italiane, poi sono rapidamente dimenticate nella rincorsa di qualche altra emergenza, presunta o reale. Di fatto questa schizofrenia non produce una piena consapevolezza del fenomeno, neanche tra gli studiosi: rimane invece una scarsa confidenza con la stessa categoria e la definizione di “migrazione interna”. Soprattutto, non si riescono ad acquisire strumenti di analisi, di verifica, di valutazione, di interpretazione delle questioni che emergono quando si osservano gli spostamenti di popolazione interni ai confini nazionali.
L’obiettivo della pubblicazione di un rapporto sulle migrazioni interne, che avrà d’ora in poi cadenza annuale, è proprio l’apertura di un cantiere di lavoro stabile e duraturo capace di scandagliare con rigore e profondità di analisi la mobilità territoriale interna all’Italia. Un cantiere necessariamente aperto al contributo di studiosi di discipline diverse, proprio per il carattere multiforme che il fenomeno ha avuto e continua ad avere sulla società italiana. In questa edizione hanno dato il loro contributo storici, demografi e sociologi, ognuno con le proprie competenze; nei prossimi volumi troverete anche altri saperi e altri approcci. Ogni edizione tuttavia conterrà sempre come primo contributo un’analisi dei dati statistici più recenti per presentare le tendenze in atto, l’ultima fotografia disponibile di una situazione per sua natura dinamica e in costante evoluzione.
Il progetto nasce all’interno di un cantiere più ampio dedicato alle frontiere mediterranee, nell’ambito di un programma Firb-Miur coordinato da Valentina Favarò, Università di Palermo, in cui l’unità Cnr-Issm, con base a Napoli, ha scelto di concentrarsi principalmente sull’età contemporanea. La scelta di declinare la frontiera come passaggio interno all’Italia e alle sue dinamiche sociali ed economiche è legata alla necessità di svelare la tipologia delle frontiere – materiali e immateriali – presenti dentro un territorio nazionale.
Nel primo volume stampato[1], Corrado Bonifazi, Frank Heins e Enrico Tucci ci forniscono una serie di informazioni preziose sui trasferimenti di residenza che si sono effettuati tra i comuni italiani tra 2011 e 2012. Scomponendo i dati per nazionalità viene ribadito come siano gli stranieri oggi in Italia la parte più mobile della società, quella che maggiormente modifica il luogo di vita inseguendo condizioni migliori. Diversamente dagli italiani, tuttavia, gli spostamenti riguardano distanze minori. La divaricazione dei comportamenti migratori di italiani e stranieri ha in parte a che fare con il possesso di differenti stratificazioni di esperienze di mobilità: il passato degli spostamenti interni della popolazione italiana ha lasciato dietro di sé uno stock di legami sociali a lunga distanza e un’attitudine a orientarsi verso il Centro-Nord per trovare lavoro, quando non dei veri e propri sistemi migratori funzionanti da anni. Gli stranieri hanno invece una storia differente: le distanze percorse all’interno del territorio nazionale sono maggiori nella fase iniziale della permanenza in Italia (ma va anche considerato che chi è tracciato dall’apparato statistico anagrafico vanta presumibilmente una presenza pregressa sul territorio nazionale di molti anni, non registrata a causa delle rigidità presenti nel Testo Unico sull’Immigrazione), per poi diminuire nel corso degli anni.
Un altro elemento di riflessione molto importante che emerge dal primo saggio (ma l’apparato statistico presente all’interno del testo e nell’appendice on line può riservare molte riflessioni al lettore abituato a ragionare con i numeri[2]) riguarda la scomposizione dei dati per sesso e classe di età: il confronto tra le curve di mobilità nel corso della vita di donne italiane, uomini italiani, donne straniere e uomini stranieri riserva qualche sorpresa. In particolare, si nota che le donne straniere presentano tassi di spostamento senza eguali nella fascia di età tra i 50 e i 64 anni: ne emerge in tutta la sua importanza il peso demografico che il lavoro di cura domestico riveste oggi nel nostro Paese, con i suoi peculiari comportamenti migratori.
Gli spostamenti effettivi sono molto più complicati di quanto non emerga dagli indicatori anagrafici e il saggio di Domenica Perrotta ce lo ricorda con un’analisi molto lucida sui sistemi migratori legati ai lavori agricoli stagionali. Vengono così formulati alcuni modelli di traiettorie, sulla base di anni di inchieste sul campo e di analisi idiografiche, forme di mobilità che vedono nella partecipazione alle grandi operazioni agricole (la raccolta del pomodoro, degli agrumi, ecc.) la possibilità di ottenere un reddito aggiuntivo o un reddito tout court. Entrano in campo alcuni aspetti che vantano radici profonde nella storia italiana dell’agricoltura e del lavoro: lavoratori che seguono le scansioni del calendario agricolo per recarsi nelle diverse piazze, in particolare nel Meridione ma non solo, in quei periodi in cui si sa che c’è bisogno di manodopera, il ritorno alla terra come risorsa cuscinetto nelle fasi di crisi o di pausa dei settori dove si svolge il lavoro principale (edilizia, manifattura).
A questi elementi di lunga data, familiari per gli storici, Perrotta aggiunge correttamente altri fattori che rendono molto più complesso il quadro. Il ricorso stagionale all’occupazione agricola riguarda persone provenienti da paesi diversi e lontani, con i più svariati progetti migratori e differenti risorse: africani e rumeni, ad esempio, possono avere approcci al lavoro diametralmente opposti, non per presunti dati culturali di origine ma semplicemente perché dietro alle loro scelte stanno motivi pratici distinti, che in alcuni casi hanno portato a conflitti lavorativi declinati in chiave di appartenenza nazionale. I migranti che si avvicendano nei lavori agricoli oggi possiedono inoltre status giuridici molto diversificati, che possono essere incompatibili con la stipula di legali contratti di lavoro (come nel caso degli irregolari o dei richiedenti asilo politico). Il settore agricolo diventa quindi un rifugio adatto a determinate categorie di stranieri che vogliano avere un reddito da lavoro. Il saggio di Perrotta intreccia riflessioni di tipo normativo-giuridico con un’analisi puntuale dei mercati del lavoro italiani: alcuni passaggi, come quello sull’influenza svolta dalla mancanza di sanatorie nell’irrobustire le sacche di lavoro irregolare nel Meridione, meritano senza dubbio grande attenzione e ulteriori approfondimenti.
Il legame tra economia e istituzioni emerge con forza anche dal saggio di Davide Bubbico. Partendo dalle ultime riflessioni avanzate dalla Svimez e dall’Istat, che parla ormai di “assuefazione” degli italiani alle migrazioni Sud-Nord, Bubbico propone una riflessione sull’aggravamento avutosi con la crisi degli ultimi anni delle già elevate spinte espulsive presenti nelle regioni meridionali. La risposta che gli attori economici e istituzionali stanno dando alla crisi consiste nel concentrare risorse e investimenti nelle aree forti del paese, per mantenere attivo ed efficiente il cuore pulsante della vita economica; aggiungendosi ciò a un trend generale di minor attenzione alle politiche redistributive e di coesione territoriale, il risultato è una sempre minore possibilità per le classi giovani del Mezzogiorno di riuscire a realizzare i propri progetti di vita nella province di origine. Province che, secondo le indagini sulla qualità della vita elaborate da Legambiente o il Sole 24 Ore, conoscono un deterioramento progressivo di una serie di indicatori non direttamente legati all’occupazione ma che possono risultare determinanti nel maturare la scelta di andarsene, come ad esempio la presenza di verde urbano pubblico, la disponibilità di asili comunali o l’efficienza del trasporto pubblico locale.
Il Settentrione rimane quindi un punto di riferimento nelle menti di molti giovani meridionali. Il saggio di Enrico Gargiulo ci parla proprio di quanto recentemente avvenuto nel Nord Italia a livello amministrativo, per quel che riguarda la concessione della residenza. Attraverso un’originale ricerca condotta con gli strumenti della sociologia giuridica, Gargiulo riflette sui tentativi, avanzati da alcuni responsabili degli enti locali settentrionali come il sindaco di Cittadella in provincia di Padova, di limitare l’accesso all’iscrizione anagrafica a persone non in possesso di una serie di requisiti relativi a lavoro, reddito o abitazione. Dato che la residenza riveste nel nostro ordinamento un’importanza cruciale per il godimento di tutta una serie di diritti, le scelte di questi amministratori hanno colpito profondamente una porzione di cittadini più deboli, principalmente stranieri, con l’intenzione di influenzare indirettamente anche i loro comportamenti migratori, ovvero per spingerli a prendere la residenza in un comune diverso. Cosa tutto ciò implichi in termini di una definizione più articolata della cittadinanza è al cuore dell’analisi di Gargiulo, che riesce a calarci in un orizzonte estremamente attuale di ‘geometrie variabili’ di status civitatis.
I problemi legati all’anagrafe e alla residenza non sono tuttavia esclusivi dei tempi recenti: ce lo ricorda Stefano Gallo ricostruendo la vicenda storica dell’applicazione della legge contro l’urbanesimo nel corso dei primi decenni dell’Italia repubblicana. Un dispositivo introdotto dal fascismo spiegò tutto il suo potenziale negli anni della ricostruzione e del boom economico e impedì a centinaia di migliaia di cittadini italiani di godere del riconoscimento ufficiale dei propri percorsi migratori. Questi meccanismi non agirono automaticamente, ma furono consapevolmente oliati e messi in funzione da politici e amministratori, ansiosi di arginare e controllare un grande movimento sociale di cui si si temevano le conseguenze. Il saggio ricostruisce la tenace e originale battaglia condotta dall’Istat per mettere fine a una commistione nociva tra strumenti di intervento e strumenti di registrazione: l’abrogazione del 1961 avvenne proprio grazie a questo impegno, ulteriore tassello nel consolidarsi di un’impostazione politico-culturale che Anna Treves ha chiamato “antifascismo demografico”.
Il dialogo tra scienze sociali e storia, rintracciabile nell’accostamento tra il saggio di Gargiulo e quello di Gallo, si può apprezzare appieno nelle pagine scritte da Anna Badino. Sulla base di un ricco apparato di interviste svolte con persone residenti a Torino e dintorni, Badino mette a confronto le pulsioni e i problemi che agitano le donne delle seconde generazioni, quelle delle migrazioni interne storiche dal Meridione e quelle delle immigrazioni straniere di oggi. Il rapporto con le famiglie, con quei genitori che hanno vissuto lo spostamento e gli anni duri dell’introduzione in un nuovo ambiente sociale, presenta sia aspetti comuni che tratti dissimili per le figlie delle migrazioni. Diverso appare soprattutto il contesto, sia a livello socio-urbanistico (non esistono più gli spazi comuni e aperti nei quartieri, dove poter legare con altri ragazzi) sia soprattutto a livello economico. In particolare è la percezione che si ha delle possibilità lavorative ad essere profondamente mutata: se ieri i genitori immigrati dal Sud premevano per un ingresso rapido delle figlie nel mondo del lavoro, per cogliere una delle molte occasioni che la grande città della Fiat offriva, oggi i genitori sognano per le proprie ragazze una formazione superiore, per superare il destino di un lavoro incerto e mal pagato. À rebours invece le inclinazioni delle seconde generazioni: ansiose di superare la condizione di provenienza e più vicine ai modelli di prolungamento degli studi dei coetanei torinesi le figlie delle migrazioni interne storiche, meno convinte dell’opportunità di un lungo corso di studi e più orientate a trovare subito un’occupazione per non pesare sulle famiglie le figlie delle immigrazioni dall’estero.
Chiudono il Rapporto 2014 due articolate rassegne sulla storiografia e le scienze sociali, a firma di Ercole Sori e Michelangela Di Giacomo. Il fortunato libro di Goffredo Fofi sui meridionali a Torino, di cui ricorrono ora i cinquanta anni dalla pubblicazione, rappresenta il cuore del saggio di Sori, che ripercorre con maestria le coordinate degli studi sulle migrazioni interne prima e dopo l’inchiesta di Fofi, dall’inizio del ‘900 fino agli anni più recenti. Vengono così descritte le diverse stagioni dell’interesse nei confronti delle mobilità interne e i diversi approcci metodologici con cui sono state studiate: ne emerge un vivido affresco in cui i diversi lavori presi in esame sono collocati nei rispettivi contesti di produzione e di ognuno viene evidenziata la peculiare sensibilità, distaccandone quanto di interessante e utile contengano. L’ultimo saggio, quello di Di Giacomo, si dedica alla produzione degli ultimi anni ad opera di storici e sociologici, portando l’attenzione sull’ondata più recente di lavori sulle migrazioni interne, quella appunto corrispondente agli anni della crisi. Un punto della situazione che vuole essere anche un invito a percorrere sentieri di ricerca di cui si può ora intuire il tracciato ma che non sono stati ancora battuti. In ogni caso, emergono due fondamentali aspetti di metodo: la sensibilità rispetto ai problemi posti dal mondo d’oggi, la consapevolezza dell’importanza del portato storico delle esperienze migratorie.
[1] L’arte di spostarsi. Rapporto 2014 sulle migrazioni interne in Italia, a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo, Roma, Donzelli, 2014.
[2] Il materiale è liberamente disponibile sul sito www.migrazioninterne.it, che sarà d’ora in poi il riferimento sul web per i Rapporti annuali sulle migrazioni interne.