di Valentina Bertuzzi
Michael: “Johnny quand’era appena agli inizi aveva firmato un impegno di esclusiva con un famoso maestro. Ma, dato che la sua carriera andava di bene in meglio, se ne voleva liberare. E chiese aiuto a mio padre che è suo padrino. Allora mio padre andò a trovare quel maestro, e gli offrì diecimila dollari per sciogliere il contratto. La risposta fu no. Il giorno appresso, papà andò a trovarlo di nuovo accompagnato da Luca Brasi, e questa volta quello firmò la rinuncia, in cambio di un assegno di cento dollari”.
Kay : “E come si era convinto?”
Michael: “Papà gli aveva fatto un’offerta che non poté rifiutare”.
Kay: “Offerta in che senso?”
Michael: “Luca gli puntò una pistola alla testa, e mio padre disse che in quel documento ci sarebbe stata la sua firma o il suo cervello. È una storia vera”
È una delle scene più famose del film Il Padrino (The Godfather, 1972), primo della trilogia omonima di Francis Ford Coppola, premiato con 3 Oscar, rispettivamente per il migliore film (Albert S. Ruddy), migliore attore protagonista (Marlon Brando), migliore sceneggiatura (Mario Puzo, Francis Ford Coppola)
New York, 1946. Siamo nel giardino della villa di don Vito Corleone (Marlon Brando), che dopo essere immigrato dalla Sicilia in America è diventato un potente e temibile capomafia. Si stanno festeggiando “alla siciliana” le nozze tra Connie Corleone (Talia Shire) e Carlo Rizzi (Gianni Russo), la gente balla al suono di un’orchestra, si brinda alla sposa, mentre fuori del cancello gli agenti dell’FBI annotano i numeri di targa delle auto. In questo contesto Michael Corleone (Al Pacino), figlio di don Vito Corleone, sta parlando con la sua fidanzata Kay Adams (Diane Keaton), cercando di spiegarle chi è suo padre e quali i suoi metodi di persuasione. In quella frase, “un’offerta che non poté rifiutare”, che sarà pronunciata anche da un giovane Vito Corleone (Robert de Niro) nel secondo film della saga, Il Padrino 2 del 1972 (Ci faccio un’offerta che lui non può rifiutare), c’è l’essenza dei metodi di Cosa Nostra: la legge della lupara.
Il tono di Michael nel raccontare quanto accaduto è di disappunto. Lui, ex marine degli Usa e pluridecorato della seconda guerra mondiale, vuole una vita onorevole, “americana”, lontano dagli affari illegali e criminali. Ma quando il padre cade vittima di un attentato mafioso, Michael inizia a cambiare: uccide i responsabili, per poi fuggire in Sicilia, sposare Apollonia, una ragazza del luogo (Simonetta Stefanelli) che però muore, vittima di un attentato destinato a lui. Michael torna in America e questa volta dal padre prende in consegna il testimone e diventa lui il Padrino.
È interessante notare come la metaforica morte-rinascita di Michael, che da americano rinasce siciliano, sembri dire che dal DNA non si scappa.
Fu Richard Dawkins, nel libro Il gene egoista (1976), a suggerire l’esistenza di un “gene della cultura”, immortale e a cui dette nome “meme” (da Memosine, dea della memoria), un’unità di informazione residente nel cervello, la parte immortale di ogni essere vivente (come recita il sottotitolo del libro) (1). Se il gene ci caratterizza fisicamente (occhi chiari, pelle scura, etc.), il meme ci caratterizza culturalmente, contribuendo a formare la nostra identità. “Il meme è un carattere culturale che si trasmette in modo epidemico, fra i cervelli; e una volta acquisito è per sempre. I memi, come i geni, possono scomparire nei sotterranei della memoria e dell’evoluzione, come fiumi carsici; ma prima o poi riemergono” (2). Più tardi, Robert Aunger, autore di The Electric Meme (3), definirà il meme come “a distinc pattern of electrical charges in a node in our brains that reproduces a thousand times faster than a bacterium”.
Ed è questo che accade a Michael: l’eredità culturale ha il sopravvento e i suoi memi lo spingono a replicare la norma dell’omertà, termine che “deriva dal siciliano omu , uomo, e sta a indicare la capacità di farsi rispettare con i propri mezzi, senza rivolgersi mai all’autorità, mantenendo quindi un assoluto silenzio su reati e delitti mafiosi” (4).
Il regista traduce in immagini questi replicatori culturali, mostrandoci un Michael che nel suo esilio siciliano si muove con disinvoltura nei viottoli assolati del paese o in aperta campagna, con camicia, gilet e coppola, affiancato da due siciliani con fucili a tracolla. I memi stanno facendo il loro corso, promuovendo la “conversione” alla fede mafiosa dell’ex marine.
Tornato in America, la conversione è ultimata, la memoria ereditaria diventa cosciente e Michael farà quello che deve fare: un massacro dei nemici della famiglia.
“Il Padrino – scrive Grobel, in Io, Al Pacino(5) – trasforma Al Pacino in una star del cinema. L’interpretazione gli vale la nomination dell’Academy Award come miglior attore non protagonista, ottenuta con il Michael Corleone del Padrino, parte II. Il successo si consolida con la trilogia di Coppola, e con Il Padrino, parte III nel ’94”. C’è da chiedersi quanto Al Pacino, i cui nonni paterni erano immigrati siciliani, originari di San Fratello, in provincia di Messina, debba la sua interpretazione strepitosa esclusivamente alla sua solida formazione presso l’Actors Studio di Lee Strasberg o anche alle sue gocce di sangue siciliano.
Tutto il film è attraversato da scene di violenza, da quella della testa mozzata del cavallo ai colpi ravvicinati di armi da fuoco durante la scena finale del battesimo. Una violenza cinematografica che rende bene la violenza della mafia italo-americana dell’epoca, tanto più che don Vito Corleone, pur essendo un personaggio di fantasia nato dalla penna dello scrittore italo-americano Mario Puzo, rappresenta i “don” della Little Italy della prima metà del ‘900 proiettata alla conquista degli States. Tra i maggiori esponenti di Cosa Nostra americana, spiccavano Francesco Castiglia, che si faceva chiamare Frank Costello; Francesco Gambino, il boss dei boss; Vito Genovese; Albert Anastasia, scampato al braccio della morte di Sing Sing perché i testimoni che lo avevano incastrato non testimoniarono al processo d’appello; e soprattutto Lucky Luciano.
Lucky Luciano, (il suo vero nome era Salvatore Lucania), nacque nel 1897 a Lercara Friddi, a metà strada fra Palermo e Agrigento. Emigrato a 9 anni in USA e colpito da una forma di vaiolo, nel 1916, a soli 19 anni se ne andava in giro per Manhattan consegnando droga nascosta in fiale collocate sotto i nastrini di cappellini per signora. Entrato nelle file di Giuseppe Masseria, Joe the boss, in lotta feroce con Salvatore Maranzano, capo della fazione rivale. Lucky eliminerà entrambi e per non soccombere a sua volta nella guerra fra bande, ristrutturò l’organizzazione. Nominò un “consigliere” per ogni famiglia in modo da tessere una rete organizzativa comune. Nacque così la nervatura di Cosa Nostra articolata su capifamiglia che potevano contare su un sottocapo, sul “consigliere” e su un numero non definito di “capi regime”, a loro volta alla guida di una squadra composta da 10 “soldati”.
Nel Padrino il consigliere è Tom Hagen (Robert Duvall), figlio adottivo di Vito Corleone e brillante avvocato.
Gioco, droga, prostituzione e delitti. Per tutto questo Lucky fu condannato a 30 anni di reclusione, non scontati perché nel 1942 offrì i propri servizi al controspionaggio per salvaguardare le navi della Marina statunitense (6). Lucky rappresenta l’evoluzione criminale della mafia siculo-americana, che, se con il proibizionismo e il relativo contrabbando di liquori ebbe la sua grande occasione, con il business della droga vanta il diritto di primogenitura oltreoceano e il consolidamento del suo impero criminale.
La mafia della prima ora, incarnata da don Vito Corleone (che rifiuta di entrare nel giro della droga, che considera “sporca”), cede il passo all’eroina, con sviluppi devastanti per l’economia e la vita sociale e civile nel mondo.
E se don Vito allude ai capifamiglia degli immigrati siciliani, il personaggio di Johnny Fontane (Al Martino) pare ispirato al famoso cantante Frank Sinatra (1915-1998), The Voice, e ai suoi contatti con la malavita. Come dimostra il dossier (7) su di lui dell’FBI (Federal Bureau of Intelligence), Sinatra, figlio di immigrati siciliani, fu sospettato di essere coinvolto con la mafia, che lo avrebbe aiutato a fare carriera, ma lui negò sempre qualsiasi rapporto con l’associazione a delinquere e neanche J. Edgar Hoover, capo dell’FBI per 48 anni, riuscì a provare la colpevolezza del cantante per reati di tipo mafioso.
Il Padrino, il libro di Mario Puzo (1969) è uno dei libri più letti del mondo (25 milioni di copie). Il Padrino, il film di Francis Ford Coppola (1972) ha avuto un successo planetario. Lo scrittore e il regista insieme hanno fatto della famiglia Corleone l’icona mondiale della mafia italo-americana, basata sul codice del baciamo le mani e sulla legge della lupara.
Mario Puzo, nato a New York è figlio di immigrati italiani e lo stesso vale per Coppola.
Lo straordinario successo è forse dovuto all’albero genealogico intellettuale degli autori e ai loro memi dell’italianità?
BIBLIOGRAFIA
(1) Il gene egoista, di Richard Dawkins, (ebook, ed. Mondadori)
(2) Identità, saggio di Pino Aprile (10-11), in Meditations on Identity (ed. Bordighera 2014)
(3) The Electric Meme, A New Theory of How We Think, di Robert Aunger (ed. Simon & Schuster Uk, 2002)
(4)http://archiviopiolatorre.camera.it/img-repo/DOCUMENTAZIONE/Antimafia/01_rel_p03_1.pdf
(5) Io, Al Pacino, di Lawrence Grobel (ed. Sperling & Kupfer, 2006)
(6) Mafia, album di Cosa Nostra, di Felice Cavallaro (ed. Rizzoli, 1992)
(7) http://www.cultor.org/Documents/Sinatra/sinatr1a.pdf