Se la storiografia contemporanea non è sprovvista di contributi capaci di formare, ormai anche in Italia, una interessante letteratura d’emigrazione, mancano più probabilmente lavori che diano maggiore organicità a questo genere di narrazioni e soprattutto mancano analisi congiunte, di storia cioè politica, sociale e culturale, relative alla condizione degli italiani nella repubblica nordamericana durante l’ultima parte dell’Ottocento. Un punto di osservazione privilegiato, per la prima metà di questo secolo, è stato offerto in tempi recenti da un saggio di Maurizio Isabella, che tratta il tema risorgimentale come uno dei tanti “casi” di nazionalismo nella “diaspora” verificatisi nei tempi moderni[1], e da un libro di Agostino Bistarelli sull’esilio,dove si esplorano, assieme, l’impatto dell’emigrazione e le diverse scelte degli emigrati sulla cultura politica e sulla conformazione stessa del Risorgimento italiano individuandone l’evoluzione nel contesto in cui furono originariamente prodotti, vale a dire nell’esistenza quotidiana dei protagonisti e nei dibattiti, europei e transatlantici, degli anni in cui si sviluppò una prima consistente corrente di espatrio e d’insediamento all’estero di gruppi d’italiani che si riconoscevano ed erano riconosciuti come tali[2]. La politica d’immigrazione rappresenta, peraltro, un tema non ignorato della più classica storiografia risorgimentale e l’importanza attribuita ai legami globali, salda da tempo, agli occhi degli storici, molti eventi politici, intellettuali, e sociali che fiorirono nell’era post- napoleonica nel mondo transatlantico e mediterraneo. Gli scritti degli esuli riflettevano pratici e immediati interessi rivoluzionari ed erano influenzati da specifiche battaglie politiche: questi eventi, non solo promossero nozioni di solidarietà internazionale, ma modellarono anche la cultura del patriottismo italiano durante le seguenti decadi. L’esperienza dell’emigrazione fu cruciale nella misura in cui la comunità nazionale italiana venne immaginata e un poco anche per il fatto che certe rilevanti discussioni politiche avrebbero potuto essere condotte solamente all’estero. Nacque così e riuscì ad operare per vari decenni, fuori d’Italia, una “comunità espatriata”, che tuttavia manteneva stretti legami con la realtà e con i problemi del paese d’origine sviluppando, nel contempo, una visione mitica della loro natura e coltivando l’obbligo “morale” di “tornare indietro” una volta che le cose avessero trovato lo sbocco sperato dando finalmente vita, “in patria”, a un’entità statuale e nazionale meglio se connotata in modo unitario. È attraverso alcuni itinerari biografici selezionati, comunque, che è stato possibile verificare il tessuto concreto e le strategie di comunicazione politica materialmente messe in campo dagli esuli italiani – per gli Stati Uniti specificamente in ambiente newyorkese – tra gli anni trenta e sessanta dell’Ottocento. Si è trattato, più in generale, di analizzare il passaggio dal mondo delle “narrazioni” ad uno più prosaico, segnato da esistenze spesso letteralmente sradicate e poste a duro contatto con la realtà del paese di accoglienza. Un cambiamento, politico-culturale, che non investirà solo i singoli, ma che a seguito di alcuni importanti tornanti storici come l’esperienza della Repubblica romana del 1849 – la prima esperienza costituzionale dell’Italia moderna – e la guerra civile americana del 1861, determineranno un rinnovato clima intellettuale e nuovi modelli culturali di riferimento nei due ambienti di origine e di arrivo: Italia e Stati Uniti nel secondo Ottocento.
Il mio progetto ha cercato di privilegiare, come metodo storiografico, un approccio comparativo e un punto di partenza “evenemenziale”: la vicenda umana e politica di un esule forlivese negli Stati Uniti, Piero Maroncelli, saldando questo evento singolo con l’analisi delle strutture che lo hanno condizionano. Questa indagine parte da un elemento forse minore nella storia dell’Ottocento per tendere, poi, ad alcuni obiettivi particolari. L’evento principale è costituito infatti da uno strano funerale postumo, quello appunto di Piero Maroncelli, carbonaro finito alla Spielberg, graziato, poi emigrato in Francia e in America, il cui corpo viene sepolto a New York nell’estate del 1846. Quarant’anni dopo, nel 1886, i resti di Maroncelli vengono esumati e – attraverso una “trafila” particolare, di cui è protagonista la Massoneria, da una sponda all’altra dell’Atlantico – solennemente trasferiti nella città natale di Forlì, dove vengono collocati nel pantheon del cimitero monumentale, inaugurato per l’occasione. Gli eventi celebrativi che si consumano a New York e a Forlì sono molto diversi fra loro, anche se avvengono quasi in contemporanea e sotto regie politiche ispirate dal medesimo radicalismo anticlericale. È chiaro che Maroncelli è un simbolo e un pretesto: simbolo di un’italianità trans-nazionale, composta di un “corpo in transito”, fuori dello spazio “italiano”, ma appartenente alla patria (quella grande e quella piccola); pretesto per acquisire e rafforzare legami politici, mercé mobilitazioni di massa in un caso fondate sul festival, sulla festa en plein air, nell’altro sui noti rituali del cordoglio per i “martiri” dell’indipendenza.
In particolare, si è cercato di verificare, se per una sorta di effetto di gemmazione anche il mito maroncelliano – ovvero il suo personale percorso biografico e il suo lascito intellettuale – sia servito ad una sorta di riconciliazione della comunità italiana negli Stati Uniti – spesso lacerata da divisioni politiche – e abbia contribuito ad una più precisa definizione “culturale” del tessuto sociale della colonia italiana di New York. Nel nostro caso sono state esaminate, in primis, le strutture associative nei due ambienti di riferimento – l’Italia radicale e la New York di fine Ottocento – cercando di restituirne l’efficacia sul tessuto sociale dell’epoca e la loro reale dimensione tanto rispetto alle “reti di potere” effettive – seguendo l’esperienza della più celebre macchina politica statunitense, la Tammany Hall – quanto riguardo alle finalità simboliche (feste, pubblicazioni, funerali) dell’iniziativa[3].
In fondo, l’emigrazione risorgimentale ebbe una natura duplice, di tipo economico e politico: gli esuli furono spinti da motivazioni, obiettivi, sia ideologici che pratici: già i primi democratici, infatti, avevano lavorato sostenendo il regime napoleonico come “male minore”, canalizzando le proprie frustrazioni per la mancata indipendenza e maturando attaccamento per le idee di democrazia, attraverso società segrete come la Massoneria e la Carboneria.
La figura di Piero Maroncelli s’inserisce a buon titolo in questo quadro, avendo egli aderito tanto all’una quanto all’altra e avendo sposato l’attività cospirativa già dai primi anni della sua giovinezza, sino ad approdare, nel 1833, sulle coste americane. Ne ha parlato, bene e diffusamente, Angelina Lograsso[4], i cui lavori ho messo a confronto con le Carte Maroncelli conservate presso il Fondo Piancastelli della Biblioteca comunale di Forlì. Il lavoro svolto presso vari archivi italiani, spesso con risultati fruttuosi sotto il profilo delle fonti reperite, rivelerebbe come la figura di Piero Maroncelli sia stata forse quella che più di altre ha subito una distorta collezione di fatti storici assemblati dalla stranezza (e dalla fascinazione) della sua complessa parabola risorgimentale. Nonostante persista un certo disaccordo da parte di alcuni settori della storiografia classica studiata da Walter Maturi – tra i suoi principali esponenti, come detrattore di Maroncelli basti citare il Rinieri[5], ma c’è anche chi lo difese strenuamente come Luzio e Sandonà[6] – persino la storia dei suoi soggiorni prima a Parigi e poi negli Stati Uniti[7],tutt’ora poco indagati, fugano i dubbi sull’interpretazione del suo profilo patriottico. I pregiudizi coltivati rispetto alle sue peripezie e alle vicissitudini conosciute in patria, sono stati attenuati non poco dal prezioso lascito della sua folta corrispondenza con la famiglia Norton di Cambridge, mentre le privazioni dell’esperienza parigina erano già state messe in luce dalle pubblicazioni di Oliverotto Fabretti e qui dalla sua corrispondenza con Pauline Andryane, sorella del generale napoleonico Antoine-Eugène Merlin[8]. Il ruolo di Piero Maroncelli, evidente già in questa vecchia storiografia[9], risalta altresì da un ricco arcipelago di relazioni, italiane e straniere, che mi induce a ipotizzare la possibilità e anzi la necessità di un rinnovato percorso di ricerca rivitalizzando idee già esposte nel lontano 1922, dal senatore Luigi Rava il quale così ne parlava dalle pagine della “Nuova Antologia”:
Gli americani poco conobbero le condizioni e l’anima dell’Italia negli anni del lungo servaggio; cominciarono a conoscerle con Lorenzo da Ponte, il letterato Poeta, che fondò – or è un secolo – la prima scuola italiana e la prima libreria italiana a New York; e coi nostri esuli politici, primo Piero Maroncelli, il musicista uscito dalle carceri dello Spielberg, dove era stato con Silvio Pellico[10].
Piero Maroncelli nasce a Forlì il 21 settembre 1795 da Antonio e Maria Traldi Bonnet. Poco più di un anno dopo, entravano nella città le prime milizie francesi. Osservava a questo proposito Oliverotto Fabretti:
Egli dunque respirò, si può dire, sin dal nascere, aure di libertà; ed è circostanza, questa, che non conviene dimenticare: perché, quando, ne 1815, rigida e greve, si ripristinerà in Romagna la pontificia signoria, il Maroncelli si troverà nella penosa situazione, che sarà comune a tutte le giovani generazioni; le quali, cresciute sin dai primi anni – se non addirittura nate – sotto un regime libero ed avventuroso, come fu quello repubblicano, e poi sotto un regime relativamente – non v’ha dubbio – “illuminato e civile”, come fu quello del Regno Italico, non conosceranno l’antico regime che per “sentito dire”, ma avranno già nel sangue “la ripugnanza e l’insofferenza per un governo di chierici”[11].
Spiato, perseguitato, braccato, condannato a dieci anni di carcere duro nella fortezza dello Spielberg insieme all’amico Silvio Pellico dove perse la “celebre” gamba sinistra e rilasciato, infine, nel 1832, ripiegò esule prima in Francia, a Parigi, e solo un anno dopo negli Stati Uniti, a New York: il “New York Mirror”del 21 settembre 1833, fissa precisamente la data di partenza del nostro da Parigi – il 30 luglio dello stesso anno -e per la quale ricevette diversi sussidi, complici le amicizie altolocate e affezionate a cui ebbe sempre modo di appoggiarsi[12]. Nei Norton papers conservati nella Biblioteca di Harvard, sono custodite alcune tra le corrispondenze più significative che raccontano il suo soggiorno americano[13]. Catharine Mary Sedgwick è tra le figure femminili che si distingueranno, tra la cerchia dei supporter degli esuli italiani in America, come un’amica affettuosa di Piero[14]. Fu anche grazie a questo sentimento di viva ammirazione, che Sedgwick lo spinse successivamente a ripubblicare le Mie Prigioni con le sue Addizioni per il pubblico americano in una traduzione migliore e più fedele di quella londinese uscita nel 1833 a cura di Thomas Roscoe.[15] Ancora, il legame con Andrew Norton, professore di letteratura sacra presso la Harvard University a Cambridge, divenne presto profondo, come attesta la fitta corrispondenza[16].
L’esilio politico del Maroncelli si caratterizza specificamente, sotto due aspetti: la storia dell’Opera italiana promossa da Lorenzo Da Ponte negli Stati Uniti; l’interesse per le teorie di rinnovamento sociale di Charles Fourier.[17]Maroncelli era già ampiamente noto al pubblico americano grazie al successo ottenuto all’estero dal testo autobiografico del suo compagno di prigionia allo Spielberg. In questo senso, l’occasione offertagli dalla fondazione a New York dell’Italian Opera House spinse Maroncelli, musicista formatosi al Collegio di San Sebastiano a Napoli, ad emigrare per il Nuovo Mondo con l’incarico di direttore del coro del quale entrerà a fare parte anche la moglie. Negli anni americani, Maroncelli maturò la convinta adesione alle idee di Fourier che propagò assiduamente attraverso la Fourier Society da lui fondata a New York nel 1837 insieme a Jean Manesca, Arthur Brisbane e altri seguaci del pensatore francese. Questa conversione a una dottrina sociale fu vissuta da Maroncelli come una fede religiosa: il romagnolo insisteva, infatti, sulle analogie e affinità fra le dottrine della scuola societaria e quelle del mistico svedese Emanuel Swedenborg i cui seguaci, i Nuovi Cristiani, considerava più adatti ad interpretare le teorie del fourierismo[18]. Egli accentuava così l’aspetto religioso delle teorie societarie: l’associazione in falangi e per falangi era da lui vista come “una conseguenza logica del cristianesimo” che, però, avrebbe dovuto attraversare le prove di un’età di transizione, nella quale le falangi sarebbero state costrette ad accettare transitoriamente le convinzioni della sedicente civiltà in fatto di religione, costumi, rapporti fra i due sessi. La “nuova società armonica”, caratterizzata da un’organizzazione del lavoro e delle attività produttive fondata sulle gerarchie volute dalla natura, si configurava pertanto come il risultato di un processo che avrebbe portato all’instaurazione di una religione e di una morale unitaria, e quindi del “vero cattolicesimo”. In questo senso è lecito perlomeno supporre che a contatto con altri esuli, italiani e non, negli Stati Uniti, immerso nel milieu associativo di alcuni tra i più celebri cenacoli culturali e ricordato successivamente da eminenti intellettuali dell’epoca, Maroncelli rivelasse i pregi e i limiti di una natura tanto composita quanto complessa. In particolare, Edgar Allan Poe, che fra i suoi Literati inseriràun prezioso ritratto del Maroncelli, lo stimò degno di figurare nel mondo letterario, lasciandone un lusinghiero giudizio nella storia come scrittore:
Durante i dodici anni della sua prigionia il Maroncelli compose parecchie poesie, alcune delle quali vennero trascritte mentre altre sono perdute, perché non poterono esserlo. Qui negli Stati Uniti egli ha pubblicato un volume intitolato Addizioni alle Memorie di Silvio Pellico, che contiene la trascrizione di parecchi episodi omessi nel lavoro del Pellico e inoltre un Saggio sulle scuole classica e romantica, ch’egli si propone di tornare a suddividere dando loro nuovi nomi. Questo saggio, se non altro, non manca di una certa erudizione e originalità; inoltre è breve. Maroncelli lo considera come la sua opera migliore; essa ha un forte carattere trascendentale. Il volume contiene altresì alcuni poemetti fra i quali il “Salmo della vita” e il “Salmo dell’alba”, che non sono stati tradotti in inglese. Il Sig. Halleck ha tradotto assai bene il componimento intitolato “Aure della ridesta Primavera”, che a ciò si prestava meglio d’ogni altro. Queste Addizioni furono aggiunte alla traduzione delle Mie Prigioni di Silvio Pellico, eseguita a Boston. Il Maroncelli ha ora circa cinquant’anni e porta impressi nella sua persona i segni dei lunghi patimenti, ha perduto una gamba e ha la barba e i capelli brizzolati da parecchi anni; ora poi è stato colpito da una grave malattia dalla quale v’è poca speranza che possa guarire. È di media statura ed esile, ha la fronte piuttosto bassa ma spaziosa. Ha gli occhi azzurri e deboli, naso accentuato e bocca larga. Le sue fattezze in generale hanno tutta la mobilità italiana ed egli ha un’espressione vivace e intelligente. Parla in fretta e gestisce eccessivamente. Il Maroncelli è irascibile, franco, generoso, cavalleresco, molto affezionato ai suoi amici dai quali s’aspetta reciprocanza; il suo amore patrio è immenso ed egli occupa con gran fervore di diffondere in America la letteratura italiana.
A New York riemerse, dunque, con vigore, la sua vena progressista, tesa non solo agli ideali di libertà e indipendenza, ma anche di giustizia, progresso ed equità sociale: le dottrine del Fourier erano idee di socialismo molto avanzate per l’epoca, così pure le teorie misticheggianti dello Swedenborg. Così facendo Maroncelli mise in discussione la sua precedente esperienza e formazione politica, chiamandosi decisamente fuori dall’arcipelago democratico storico che faceva riferimento, in particolare, ai mazziniani in specie e agli ammiratori o seguaci di Giuseppe Mazzini. In questo senso, l’esperienza dell’esilio politico fu determinante: a New York, Maroncelli trasferirà la passione per le nuove idee socialiste, assumendo presto un ruolo di cerniera; è quanto si evince, ad esempio, dal carteggio fra il Phalanstère in Francia e l’American Phalanx organizzata da Arthur Brisbane[19]. Il carteggio, conservato nel Fondo Maroncelli,ci permette di rivelare nomi nonché protagonisti del primo periodico fourierista pubblicato negli Stati Uniti, “The Phalanx or Journal of Social Science”, che recava questa epigrafe: “I nostri mali sono sociali; non già politici e solo una riforma sociale potrà estirparli”. Tra i collaboratori figuravano intellettuali prestigiosi: Horace Greeley, William H. Channing, Parke Godwin e altri pionieri del fourierismo made in Usa.
L’apostolato di Maroncelli nel movimento, dunque, iniziò presto e presto assunse tinte importanti: ebbe l’onore di presiedere più volte banchetti indetti per celebrare la nascita di Fourier e fu in contatto epistolare con numerosi fourieristi francesi. Tuttavia, non è possibile risalire ad una ricostruzione precisa della sua militanza fourierista che vada oltre un bilancio incerto e un’adesione “celebrativa” al credo umanitario: le corrispondenze epistolari del Maroncelli con la moglie e con l’amica Zoé Gatti de Gamondrimangono le ultime fonti disponibili per tracciare e fissare tappe più stabili.
In fondo, definire un contatto e uno scambio con i fourieristi del Vecchio Mondo costituì a lungo un’aspirazione dei falansteriani d’America e che Maroncelli coglierà, attraverso indicazioni e incoraggiamenti, dopo tanti tentativi deludenti di coordinarsi in modo stabile con gli amici francesi[20]. In America, l’anello di congiunzione gli fu offerto dal rapporto presto stabilitosi con John Manesca, considerato il primo e più fedele seguace di Fourier nel Nuovo Mondo. I nomi della famiglia Manesca e quello del Fourier appaiono simultaneamente nel carteggio del Maroncelli, onde è difficile determinare con esattezza se la conoscenza dei Manesca risvegliò i mai sopiti aneliti di utopismo sociale del Maroncelli, o se questi, al contrario, furono all’origine dei contatti con Manesca. D’altra parte, il Maroncelli, carbonaro pratico dei metodi di propaganda e abile nell’illustrare ai suoi compagni termini e concetti di una nuova dottrina, aveva già ragionato di fourierismo con le sue conoscenze di Filadelfia: fu lui che avviò Charles Julius Hempelalle dottrine dello Swendenborg e del Fourier e questi a sua volta ricambiò, nell’introduzione al suo volume, The true Organization of the New Church, as indicated in the writings of Emanuel Swendenborg, and demostrated by Charles Fourier, riconoscendo gli insegnamenti del Maroncelli e lo spessore del suo rapporto personale con John Manesca.
L’impegno profuso a favore del fourierismo occupò lungamente l’attività statunitense del Maroncelli, ma mai fino al punto di fargli dimenticare il compito, non meno importante, di aiutare i suoi compatrioti, in particolar modo quelli più diseredati. A questo proposito rimane a noi oggi una significativa testimonianza da parte dell’amico Felice Foresti:
Carissimo Piero, non avendo io dubitato giammai del tuo caldo e sincero patriottismo – io te ne do ora una prova nel mandarti il numero I° di uno scritto periodico che la “Propaganda Italiana” – intende di pubblicare per l’Europa: e segretamente spargere in Italia – con l’oggetto di elevare la dignità morale e civile del povero operaio giornaliero- la cui carta è la più possente in numero a tutto il mondo – insomma dal n. I accluso capirai tutto… […] adoperati con quell’alacrità, concludeva Foresti, che il tuo bel cuore- ed il tuo patriottismo ti ispirano; e credimi[21].
Che il patriottismo del Maroncelli non fosse mai venuto meno lo confermerebbe dunque, tra gli altri, la corrispondenza con Foresti, tramite la quale scopriamo inoltre che il Maroncelli fece parte di un Comitato per la celebrazione del Columbus Day[22].Egli, infatti, si distinse, anche e particolarmente, per l’attività di accoglienza e fratellanza verso gli altri esuli italiani in America. Una solidarietà calda, diretta e senza interposizioni, più spesso esemplare: nel 1839 Maroncelli, Foresti, il generale Avezzana, Quirico Filopanti ed altri, fondarono, ad esempio, una società denominata dallo stesso Maroncelli “Società Italiana di Unione, Fratellanza e Beneficenza”, allo scopo di offrire ai propri connazionali un punto di riferimento e di soccorso. Tale fondazione fu ricordata a lungo dagli immigrati in America; così riportava l’“Eco d’Italia” del gennaio 1882:
Allora le adunanze italiane non si facevano nelle “bar-rooms”, né chi le convocava erano di quegli spavaldi a cui si fa notte innanzi sera; i convegni avevano luogo nelle case di italiani fra i più rispettabili e, se troppo numerosi per l’angustia del luogo, si convocavano in sale adatte per riunioni pubbliche. Chi in quei tempi prendeva l’iniziativa di cose patriottiche o nell’interesse della Colonia, era il fiore della nostra emigrazione, – uomini che a ragione, le altre nazionalità ci invidiavano, e non volgari tribuni da bettola; ciurmaglia dispregevole, sempre pronta a buttarsi avanti, purché possa fare sfoggio di qualche piccola carica[23].
La società fu, infatti, tra le prime associazioni nelle cosiddette colonie italiane del Nord America. Lo statuto fu redatto da Maroncelli, Foresti, Palmieri e Tinelli. Il 10 marzo 1839 era pronto e l’assemblea si riunì per approvarlo. I soci fondatori erano novanta. Così, di nuovo, l’“Eco d’Italia”:
Lo Statuto [si componeva di] 4 capitoli e 37 articoli: provvedeva sussidi in cibi, alloggio, farmaci e assistenza medica; in talune circostanze, “eccezionali”, soccorsi in denaro, e mezzi per trasferirsi altrove; somministrava altresì il pane dell’intelletto a coloro che ne abbisognavano … uomini … come un Maroncelli … come un conte Bargnani, Foresti e Tinelli si prestavano con cura paterna a insegnare l’a.b.c.d. ai loro poveri connazionali e si adoperavano a cercare ad essi impiego. In quell’adunanza vennero eletti: Carlo Delvecchio, Presidente; Giuseppe Avezzana, Vice Presidente; Bartolomeo Ceragioli, Tesoriere; Luigi Tinelli, Segretario[24].
In particolare e a partire dal gennaio 1841, si legge nell’articolo, la Società “pubblicava avvisi a proprie spese sui giornali della città, coi quali si richiedeva l’impiego a uno o più artefici o manuali italiani, i quali venivano dalla stessa garantiti presso capi- fabbrica, famiglie, negozi, cottimisti o agricoltori”[25].
L’esperienza americana del Maroncelli, che coincide con gli ultimi anni della sua vita, fu dunque, nel suo complesso, vivace e impegnata, confortata dalle amicizie e da una discreta attività letteraria. Il suo ruolo nell’insegnamento della musica e della lingua italiana gli procurò il necessario con cui vivere. Nel New York Directory, tra il 1833 e il 1834, il Maroncelli figura come professore di musica e di lingue dai verbali della Corporazione dell’Università di New York risulta che quando morì l’amico Lorenzo Da Ponte nel 1838, già professore d’italiano, William W. Chester, membro del Consiglio, indicò proprio nel Maroncelli il suo successore[26]. Da alcuni autografi conservati nel Fondo Maroncelli forlivese, risulterebbe infine che questi fu molto raccomandato per la cattedra di lingue moderne dell’Università di Virginia: in una lettera datata 31 maggio 1841 e firmata da Henry Cas. Anderson, professore di matematica e astronomia, Maroncelli viene presentato quale conferenziere di letteratura comparata e di storia medievale italiana. Più interessante ancora, un articolo pubblicato dal quotidiano “The Sun” del 5 agosto 1886, Broadway cinquant’anni fa, puntualizzava e fissava il percorso biografico del Maroncelli motivando le ragioni che avevano contribuito a far entrare la sua personale storia di vita nell’olimpo delle figure celebri di New York[27].
Il 1° agosto 1846, nel sedicesimo anniversario della sua liberazione dallo Spielberg, il patriota forlivese spirava: la stampa locale ne annunciò il decesso con vari avvisi mortuari[28]. È in questo complesso reticolo di suggestioni che s’iscrive anche la storia del funerale di Piero Maroncelli e l’evento postumo della traslazione dei suoi resti mortali fra New York e Forlì, nell’agosto del 1886 e che introdurrebbero, infine, il personale “mito risorgimentale” di Piero Maroncelli, quale figura saldamente inserita nel cosiddetto martirologio patriottico, come parte integrante nella mentalità e nei miti della storia italiana a partire da circa metà degli anni cinquanta dell’Ottocento. La letteratura disponibile, al riguardo, è assai ricca e tale da consentire una precisa classificazione del “caso” Maroncelli all’interno di una tipologia della morte laica, ben delineata nell’Italia dell’Ottocento e del primo Novecento.
Infine, questa indagine iniziale porterebbe ad una prima, parziale, rilettura delle trasformazioni politiche dei moti del 1820-1821 come traduzione, sessant’anni dopo, in un analogo progetto transnazionale: una sorta di “patria itinerante” e di “patriottismo cosmopolita”. In questo senso, lo stesso mito di Maroncelli – implementato nella fase di realizzazione di una liturgia laica per il paese –, contribuì al tema più generale (e transnazionale) del radicalismo politico dell’Ottocento: ovvero, l’inclusione di pezzi della società civile nel contesto politico postunitario. L’opportunità di comparare questi due contesti – l’Italia nella sua periferia radicale e la New York della Tammany Hall – non sulla base di ipotesi astratte, ma nella concretezza di un “caso di studio” reale e simultaneo, consente di riflettere sulla pervasività dell’ideologia democratica nella sua accezione ottocentesca, standardizzata dalla Massoneria, e, d’altro canto, anche sui riti del consenso, colti nelle rispettive tipicità locali. Un gioco di similitudini e di dissonanze, quindi, che consentono la tessitura di una narrazione non forzata, nella quale il ricordo della Repubblica romana viaggia da una sponda all’altra dell’Atlantico, insieme ai resti di Maroncelli; nella quale il rituale massonico funge da facilitatore e da “mediatore culturale”; nella quale, infine, il linguaggio patriottico e la koinè democratica trans-nazionale riescono quasi incredibilmente a produrre o a incarnare identità. Per quanto tempo? La risposta, nel caso forlivese, è relativamente facile; in quello della colonia italiana di New York, presto alterata nella sua connotazione demografica dalla grande emigrazione transoceanica, le cose appaiono più complesse. E, tuttavia, credo che questo processo, politico e culturale, ebbe nell’esilio politico – o, se si preferisce, nel variegato puzzle del mito risorgimentale all’estero – uno dei suoi più significativi punti di partenza se ancora nel 1911, cinquantesimo dell’Unità, qualcuno, nella grande metropoli americana, si sarebbe ricordato di Maroncelli, sia pure in un contesto e con finalità del tutto diverse rispetto al 1886: segno che qualcosa, sotto traccia, era sopravvissuto.
[1] Maurizio Isabella, Risorgimento in exile: Italian émigrés and the liberal international in the post-Napoleonic era, Oxford, Oxford University Press, 2009.
[2] Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino, 2011.
[3] È nota, a questo proposito, la consistenza dei rapporti internazionali tra il 1870-1890 che la Massoneria italiana ridefinì utilizzando, da un lato, la rete mazziniana a New York, punto di riferimento dei diversi nuclei di emigranti italiani nel mondo, e, dall’altro, collegandola ad una realtà nuova e dinamica come apparivano essere le logge americane alla fine dell’Ottocento.
[4] Angeline H. Lograsso, Piero Maroncelli in America, “Rassegna storica del Risorgimento”, XV (1928), pp. 894-941, e Piero Maroncelli, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1958.
[5] Ilario Rinieri, Della vita e delle opere di Silvio Pellico, Torino, Libreria Roux, 1899, e La verità storica nel processo Pellico-Maroncelli, Roma, Tipografia Befani, 1904.
[6] Alessandro Luzio, Il Processo Pellico-Maroncelli secondo gli atti ufficiali segreti, Milano, Tip. L. F. Cogliati, 1903; Augusto Sandonà, Contributo alla storia dei processi del Ventuno e dello Spielberg, Milano, Fratelli Bocca, 1911.
[7] Cfr., a questo proposito: A. H. Lograsso, Piero Maroncelli in America, cit., e Piero Maroncelli in Philadelphia, “Romantic Review”, 24 (1933), pp. 323-328.
[8] Oliverotto Fabretti, Paolina Andryane e Piero Maroncelli, “Rivista d’Italia”, luglio 1914, pp. 127-157.
[9] Oltre a quanto già citato, cfr. Oliverotto Fabretti, Briciole Maroncelliane, “Rassegna Storica del Risorgimento”, II, 4-5 (1915), pp. 637-657. Tra i contributi più recenti vedi invece Piero Maroncelli: l’itinerario di un romantico dalla Carboneria al Fourierismo, nell’età della Restaurazione, a cura di Flavia Bugani, Forlì, Comune di Forlì, 1997, e Luisa Cetti, Piero Maroncelli. Lettere dall’America, 1834- 1844, “Il Risorgimento”, 45, 3 (1993), pp. 336-421.
[10] Luigi Rava, La fortuna di B. Franklin in Italia, “Nuova Antologia”, fasc. 1217, novembre 1922 (estratto).
[11] Oliverotto Fabretti, I primi anni di Piero Maroncelli, “La Romagna”, V serie, 11, 2 (1914), p. 3-5.
[12] “Imbarcatosi verso la fine del mese, arrivò a New York nel settembre. Era con lui la consorte, la madre di quest’ultima e uno dei due fratelli, Carlo, e successivamente anche l’altro, Gustavo, si recava a New- York e vi si stabiliva” (Oliverotto Fabretti, La moglie e la figlia di Piero Maroncelli, “Forum Livii”, I, 4, 1927).
[13] Riuscì a ricevere sostegni economici dal Ministero dell’Interno, da quello del Commercio e da quello dell’Istruzione. La generosità francese superò, pare, i duemila franchi: parte ne ebbe prima di lasciare Parigi; parte, prima di imbarcarsi a Le Havre, sulla Manica e il rimanente lo raggiunse in America. Cfr. O. Fabretti, Briciole Maroncelliane, cit., p. 648.
[14] Mary, poetessa e scrittrice, raggiunse la fama con la stesura di un romanzo-pamphlet, in cui denunciava l’intolleranza religiosa, A New-England Tale. Una seconda opera, relativa al drammatico conflitto tra colonizzatori inglesi e nativi americani, la portò alla consacrazione. I suoi scritti combinavano l’afflato patriottico alla protesta contro la soggezione puritana; i suoi temi avrebbero ispirato la creazione di una sempre più solida letteratura nazionale. Ce ne offre, ad esempio, una minuziosa descrizione: Edgar Allan Poe, The Literati of New York City-V, “Godey’s Lady’s Book”, 33 (1846), pp. 131-132. Per una disamina più recente: James B. Reece, Poe and the New York Literati: A Study of the “Literati” Sketches and of Poe’s Relations with the New York Writers (unpublished dissertation), Duke University, 1954.
[15] Cfr. A.H. Lograsso, P. Maroncelli in America, p. 904.
[16] Allo stesso modo, la famiglia Norton mostrò vivo interesse per tutto quello che riguardava l’Italia e il suo patrimonio storico-culturale; il padre di Andrew Norton, Charles Eliot Norton, fu un celebre traduttore di Dante ed un illustre professore di Belle arti a Harvard.
[17] Luisa Cetti, Un falansterio a New York, Palermo, Sellerio, 1992, p. 73.
[18] Più oltre, e per favorire un loro maggiore avvicinamento alle teorie falansteriane, Marocelli avrebbe caldeggiato l’opportunità di rassicurarli su una questione: “che le nostre dottrine sociali non s’oppongono in alcun modo allo Spiritismo”. Con il termine spiritualism, tradotto in francese da Maroncelli con Spiritualisme, si indica nel mondo anglosassone la fede nella comunicazione con gli spiriti. Sui legami tra movimenti riformisti e spiritualism, cfr. L. Cetti, Piero Maroncelli: Lettere dall’America, 1834-1844, cit.
[19] Ibid.
[20] Ibid., p. 76.
[21] Biblioteca Comunale di Forlì (d’ora in poi B.C.FO), Fondo Maroncelli, Autografi, Busta IX, 9/111.
[22] Mi riferisco alla lettera, senza data, in B.C. FO, Fondo Maroncelli, Autografi, Busta IX.
[23] L’esule mazziniano Secchi De Casali, direttore del giornale, faceva palese riferimento ai celebri Five Points, il “quartiere malfamato” degli italiani a New York (“Eco d’Italia”, 8-9 gennaio, 1882).
[24] Ibid.
[25] Ibid.
[26] Cfr. Angeline H. Lograsso, Poe’s Piero Maroncelli, “PMLA”, 58, 3 (1943), pp. 780-789.
[27] Ibid.
[28] Cfr. “New York Herald”, 2 agosto 1846 e “New York Evening”, 3 agosto 1846.