Delle emigrazioni e della loro diversa indole nella Storia antica e moderna[1]
Uno de’ primi grandiosi fenomeni che la Storia ci rappresenta sono le emigrazioni,¸ questi movimenti provvidenziali di popoli che sovente risospinti dall’urto di altre nazioni, talora cacciati da avversari religiosi o politici; talaltra trascinati da istinti quasi fatali; in onta a temporanei travolgimenti cooperano da ultimo all’equabile diffusione della civiltà.
Sembra che come un’arcana legge fisica comanda alle correnti marine un flusso regolare dal polo ai tropici e all’equatore, così pure una indeclinabile necessità tragga le razze del Settentrione verso il mezzodì. Infatti pochissime eccezioni si riscontrano a questo gran fatto, e non una di esse nei più grandi dislocamenti nazionali. Un desiderio continuo richiama forse l’uman genere verso quella natura ardente e vigorosa in grembo della quale ebbe primo nascimento. E’ questo per avventura il solo carattere generale d’ogni emigrazione di qualunque tempo, da qualunque causa abbia avuto principio. Del resto le varie condizioni del mondo antico e del moderno imprimono ad esse fisionomie tanto difformi da non poterlesi quasi significare sotto un solo vocabolo.
Quando la società ancora bambina e perciò tiranna, non proteggeva colle leggi l’individuo, ma lo assorbiva in se, soltanto per un atto volontario di tutto il corpo sociale nacquero quei sollevamenti repentini per i quali milioni e milioni di uomini passavano da regione a regione, e cacciati dalle proprie sedi spostavano alla lor volta le altre genti nelle quali s’abbattessero. L’avidità del bottino, la smania della conquista (passioni peculiari dell’epoca barbarica), la superba volontà d’un capo o la superstiziosa ubbidienza agli astuti responsi dell’oracolo (primo cemento di sociale convivenza) i cataclismi fisici, o l’irruzione d’orde più selvagge e boreali (avvenimenti storici de’ tempi primitivi) traevano dalle selve torme a torme i guerrieri; e dietro ad essi sui carri gli idoli, i bambini e le donne; e per lungo spazio di luoghi e di tempi, per grandissima diversità di siti e di clima trasmigrava a quel modo colla sua lingua , colle sue credenze un’intera nazione. La quale posta a contatto con società meglio incivilite si compenetrava in esse, e dopo avervi alle volte spento apparentemente ogni elemento di civiltà, finiva col rimanere incivilita essa stessa. Testimoni le immense trasmigrazioni del Quinto e Sesto Secolo, le quali posatesi sulle rovine della Società Romana furono origine agli splendori dei Comuni Italiani; e fondamento alla trasformazione completa dell’Umanità.
Nell’Età di mezzo le emigrazioni ebbero specialmente a causa le passioni religiose e politiche, ma la unità sociale era già scaduta dall’antica rigidezza, e la conquista stessa di Costantinopoli per Maometto II° non generò guari la proscrizione d’un intero popolo, ma solamente la fuga d’alquante migliaia di dotti e di magnati i quali coadiuvarono nell’Occidente i principi del Risorgimento.
Quando il moderno sviluppo scientifico, giuridico ed economico ebbe sciolta la personalità dai legami dello Stato, cominciò quel quasi quotidiano passaggio alla spicciolata da paese a paese di individui e di famiglie, il quale sembra provvedere nelle condizioni moderne all’equilibrio della popolazione. Ecco come alluvione lenta e continua a terre deserte e sterili infonde i semi fecondi di civiltà recati dalla madre patria. Le emigrazioni antiche all’incontro erano violente avulsioni, dopo le quali il principio provvidenziale restava un qualche tratto offuscato e sospeso. Ma a lungo andare la mano di Dio si valeva pel bene dell’umanità di quelle tumultuanti valanghe di nazioni, come ora adopera per l’egual fine il volontario e periodico adagiarsi sopra rive lontane dell’eccedenza di popoli già civile. Quella prima maniera d’emigrazione si conveniva a tempi di barbarie, ne’ quali il procedimento dello spirito umano avviene a sbalzi e quasi per istinti; quest’ultima si confà meglio al secolo nostro, nel quale tutto sembra prepararsi se non senza lotte, almeno senza pericoli, a uno stadio di futuro e tranquillo miglioramento. (Ippolito Nievo, Padova, 15 novembre 1855)
1. Fra il 1852 e il 1858, durante quel decennio che gli storici del “patrio Risorgimento” avrebbero poi definito di preparazione, mentre non si arrestava il flusso, intermittente ma tuttora forte, degli esuli diretti in Piemonte [2] e, più di rado, in paesi anche assai lontani dall’Italia[3], si susseguirono, su impulso diretto o indiretto di Mazzini e del suo movimento rifondato col nome di Partito d’azione, i principali tentativi per mantenere in vita la prospettiva rivoluzionaria e democratica tramontata nel sangue, a Roma e a Venezia, nella triste estate del 1849. Gli episodi e le tappe in cui si articolò una simile iniziativa di tipo sia cospirativo che insurrezionale, cui non arrise mai il successo sperato da chi l’aveva promossa oppure anche solo parzialmente ispirata, sono abbastanza noti: dalla fallita rivolta operaia di Milano all’attentato, nei voti “tirannicida”, di Felice Orsini contro Napoleone III alla disastrosa spedizione a Sapri di Carlo Pisacane, passando peraltro attraverso le durissime repressioni austriache di Este e di Belfiore protrattesi fino al 1855 con l’impiccagione di Pier Fortunato Calvi. Tali avvenimenti contrappuntarono, come pure si sa, l’incedere di ben altre strategie politiche e diplomatiche maturate invece, auspice Cavour, in Piemonte e in Francia (dalla guerra di Crimea con i bersaglieri di La Marmora alla fondazione della Società Nazionale Italiana di Manin e La Farina agli accordi di Plombières). Sia come sia, furono essi, tutti insieme, a far da cornice allo svolgersi della vita ordinaria di molti patrioti italiani intenti all’elaborazione di un lutto più difficile da riassorbire, specialmente nel Lombardo Veneto, fra coloro che alla causa nazionale in chiave laica, progressista e repubblicana ancora serbavano fede avendola fervorosamente già manifestata e sostenuta, in armi o col cuore, solo pochi anni avanti.
Nella vita ordinaria dei popoli e degli Stati, frattanto, in quel decennio davvero cruciale dell’Ottocento, nuovi equilibri, nuove dottrine e nuove egemonie occidentali, a cominciare ovviamente da quella imperiale britannica, si venivano delineando non solo entro i confini del vecchio continente, bensì pure nelle Americhe resesi infine indipendenti e proiettate, a spese degli “indiani”, verso la definitiva conquista delle proprie “frontiere”[4]. Ad attirare l’attenzione dei contemporanei potevano già essere quindi, assieme agli eventi tumultuosi della politica interna e internazionale, anche molti e diversi fatti di cui davano notizia sempre più frequente giornali o riviste di grande tiratura e una editoria piuttosto vivace nonché seguita, a riprova del suo fascino, da stuoli crescenti di lettori. Viaggi, scoperte, invenzioni e fenomeni economico-sociali per molti aspetti inediti ma tutti, quale più quale meno, sorti dal grembo della rivoluzione industriale e tecnologica in corso (ed anzi quasi in corsa) dai primi decenni dell’Ottocento, occupavano ormai la fantasia delle classi colte e persino di quelle popolari urbane di mezza Europa. Fra essi, inedite per le loro ricadute immediate nelle isole britanniche e in buona parte del Nord Europa, ma persino in alcune province del periferico Regno Sardo, spiccavano le migrazioni transatlantiche. Prima quelle degli inglesi, dei tedeschi, dei norvegesi, degli svedesi, ecc., (iniziate o rafforzatesi a dismisura dopo la fine delle guerre napoleoniche) e poi, negli anni 1830-1850, quelle dei liguri, dei piemontesi e dei ticinesi[5] (o degli stessi irlandesi all’indomani di una famosa e terribile carestia di patate) cominciavano infatti a ritagliarsi un posto di qualche riguardo nell’immaginario collettivo e, via via, anche nelle preoccupazioni degli statisti e delle loro correnti pratiche di governo. All’esodo ad esempio dei genovesi e dei biellesi, ma anche degli italofoni svizzeri, si rifaceva esplicitamente più volte a Torino, nella sua qualità di ministro delle Finanze e di presidente del Consiglio, il conte Camillo Benso di Cavour. Facendo approdare la questione emigratoria nelle aule del parlamento subalpino sin dal 1852 egli promuoveva addirittura, l’anno successivo, con il sostegno di Luigi Torelli e degli ambienti armatoriali liguri “stretti attorno all’emergente Raffaele Rubattino”, un progetto ambizioso (anche se poi subito rientrato) di “compagnia di bandiera” volto ad attivare, grazie al concorso di una “Società transatlantica” appositamente creata, una specifica “linea di navigazione a vapore tra Genova e le Americhe”[6].
Non è dato di sapere con precisione, ma forse non è nemmeno troppo difficile da ipotizzare, il motivo per cui, nel novembre del 1855, il ventiquattrenne Ippolito Nievo si risolse a privilegiare, quale ultimo banco di prova propedeutico al conseguimento del titolo di dottore “in ambe le leggi” presso l’Università di Padova[7], l’argomento da lui sviluppato nel testo che introduce, in esergo, la nostra riflessione e che rispetto alle migrazioni costituisce spesso, per gli storici, lo spunto stimolante per uno studio comparato benché, ovviamente, svolto oggi in ben diversa e assai più articolata prospettiva[8].
L’esodo oltreoceano dei contadini europei intorno alla metà degli anni 1850-1860 era sotto gli occhi di tutti mentre quello dei contadini del Nord della penisola si profilava appena all’orizzonte benché si trovasse, in ipotesi, ormai alle viste di un’opinione pubblica per altri versi giustamente distratta e pressoché magnetizzata, invece, dal perdurante dibattito sulle sorti politiche, auspicate o paventate che fossero in chiave unitaria, di un’Italia scossa ma tuttora in grande fermento.
Sui caratteri delle migrazioni del passato messe a confronto con quelle del presente e sulla colonizzazione agraria delle Americhe o dell’Australia[9], ad ogni modo, esisteva da tempo una letteratura economica abbastanza agguerrita non solo in Inghilterra e in Francia, grazie alle opere di Merival e di Wakefield, di Garnier e di Legoyt, di Duval e di Wolowski ecc., bensì pure da noi in virtù dei sondaggi precocemente compiuti da Melchiorre Gioia e, dopo di lui, da una serie di giovani studiosi e cultori più e meno volontari d’economia politica. Alcuni di essi, in particolare, risultavano molto attivi già nella decade 1850 e si mostravano sin da allora disposti, da Maestri a Correnti a Minghetti[10], a esaminare i rapporti, allora prevalenti, fra emigrazione transoceanica, colonie “penali” e colonizzazione agricola quale rimedio, in prospettiva, ai “guasti” indotti dal pauperismo e ai rischi, malthusianamente intesi, di una temuta sovrappopolazione. Se questi ultimi pericoli non apparivano tuttavia ancora esattamente all’ordine del giorno da noi, i dilemmi scrutinati invece dal giovane Nievo, si stavano già allora consolidando, nella pubblicistica e nella letteratura economica coeve[11], in vulgata e avrebbero continuato per più di vent’anni a riprodursi quasi invariati confluendo nelle opere successive dei vari Carpi, Virgilio, Florenzano ecc.
Ai quesiti sul carattere essenziale che avrebbe differenziato “le antiche dalle moderne migrazioni” si rispondeva di solito, come asserito più tardi in riepilogo dall’avvocato Giuseppe Scavia, sottolineando come alle prime, realizzate da “famiglie e tribù unite in nazione” si fossero sostituiti, “nei tempi moderni”, gli esodi individuali o di gruppo di persone migranti in grado di portare con sé, all’estero, capacità, competenze e capitali (“civiltà” in una parola) in un quadro di nuova mobilità territoriale che avrebbe reso nondimeno “perpetue”, come già in passato, le cosiddette “migrazioni coloniali”[12].
In Italia poi, a livello divulgativo, se ne segnalavano qua e là alcune ricadute possibili persino sul piano poetico dilatando così lo spettro delle relazioni fra letteratura ed economia moderna già avviate per alcuni versi durante la Restaurazione[13] tanto che recensendo nel 1854 un’operetta giovanile di Fedele Lampertico − ch’era stato incoraggiato a stenderla dal suo mentore e maestro Giacomo Zanella[14] (Dei vantaggi che la poesia può conseguire dall’economia politica e questa da quella[15]) − un critico forse inizialmente poco apprezzato da Nievo[16], ma comunque del valore di Carlo Tenca, si spingeva sul “Crepuscolo” a tesserne entusiasticamente le lodi scrivendo: “Se l’aspetto d’un intero popolo che muove animoso a sgombrare con la scure le foreste dell’America per conquistare allo spirito le sue mille città, non è atto a infiammare le menti più ancora che non fosse pei greci quello dei favolosi argonauti, non sapremmo ove debba trovarsi oggidì la materia della poesia”.
Più giovane di lui di due anni, ma laureatosi anch’egli a Padova nella stessa Facoltà e nello stesso anno dello scrittore (con una dissertazione di 90 pagine Sulla statistica in Italia prima dell’Achenwall concepita già in partenza per essere data immantinente alle stampe), Lampertico − per censo, per attitudini psicologiche e politiche e per obiettivo moderatismo risorgimentale[17] − si collocava, in Veneto, pressoché agli antipodi di Ippolito Nievo. Eppure, a riprova di uno stesso clima intellettuale e culturale che era poi quello del tempo e dei luoghi in cui entrambi vivevano immersi, qualcosa si trovarono entrambi a dover spartire o ad avere grosso modo in comune. Qualora si ponga mente agli argomenti di altre due “prove rigorose” scelte dal secondo di loro all’Università, oltre a quella comparativa sulle migrazioni, quale oggetto preliminare di discussione per avere accesso alla laurea, è possibile farsene un’idea più precisa. Nell’esame rigoroso di Diritto filosofico Nievo propose e difese, infatti, una tesi, intitolata Del nesso della Letteratura e della Filosofia colla Giurisprudenza, mentre in quello di Statistica si cimentò con un tema forse ancor più indicativo, e non a caso ripreso di lì a poco, ma in una prestigiosa sede accademica, anche da Lampertico[18]: Degli Istmi di Panama e di Suez e delle diverse condizioni geografiche, politiche, economiche che favoreggiano ed avversano il progetto di due canali attraverso ad essi[19].
La consapevolezza delle principali novità indotte dalla rivoluzione industriale, non solo nel campo marittimo o della modernizzazione tecnologica dei trasporti, suggeriva al giovane Nievo molte sensate osservazioni sull’ascesa, al di là dell’Atlantico, di un inedito “ceto commerciale” rappresentato al meglio, secondo il suo parere, dalla borghesia di New York e di Boston. Intravista qui come migliore e più compiuta espressione degli Stati Uniti e dunque come “impersonificazione attuale delle Americhe appetto all’Europa”, più tardi essa sarebbe stata invece criticata abbastanza corrosivamente nelle pagine finali delle Confessioni con un giudizio che usciva decisamente da quel terreno economico concreto su cui insistevano le acerbe prove universitarie del 1855. Non per motivi casuali, ad ogni modo, Nievo aveva scelto di soffermarsi e d’insistere allora sull’avvento del vapore quale spiegazione e premessa dei radicali mutamenti in atto nell’economia mondiale e nel complesso sistema degli scambi internazionali in cui infatti le migrazioni transoceaniche erano inserite (“E questo complicato e provvido sistema mette capo d’ogni lato al mare, sicché pochi punti sono del nostro continente ove le manifatture inglesi e i cereali del Mar Nero e delle Americhe non vengano portati dalla barche”). Il che legittimava comunque anche l’idea da lui discussa, e plausibile al di là delle contingenti esigenze scolastiche, secondo la quale “fra le più grandiose intraprese” dei tempi moderni fossero da considerare e da inquadrare appunto i tagli progettati dei due celebri istmi.
Sebbene poi, nelle 24 tesi difese a una settimana di distanza dalla discussione dell’ultima “prova rigorosa” intorno alle migrazioni non ne figuri che una di riferibile, e alquanto vagamente per giunta, a questioni economiche di simile natura o portata (la sesta di Statistica su “La Bassa Ungheria” come “paese più acconcio nell’Europa centrale allo stabilimento di colonie agricole”)[20], lo scrittore figura infatti già impegnato, nel 1855, in una varietà di riflessioni in bilico fra economia, letteratura e politica. Solo apparentemente esse risultano scollegate fra loro o disgiunte dalle altre che nel frattempo il giovane studente universitario viene consegnando ai fogli delle proprie corrispondenze private e alle pagine delle sue prime prove pubblicistiche e letterarie. Fra i coetanei dello scrittore, classe 1831, o almeno fra quelli dai trascorsi patriottici ben noti, come i suoi, anche alla polizia asburgica, cercare rifugio in una “pace artificiale” o, secondo l’opinione di Cesare De Michelis, in “una sorta di esilio in patria”[21] dovette essere reazione abbastanza diffusa alle delusioni e al disincanto dominanti, da questo punto di vista, nel periodo immediatamente seguito alla troppo breve ancorché inebriante stagione del 1848/49[22] Se Ippolito aveva vissuto quel biennio da ragazzo, peraltro del tutto in linea o meglio in sintonia con la media generazionale borghese della sua classe di età[23], e se davvero la parte da lui presa negli eventi di quel tempo rivoluzionario si era forse già consumata, lì ed allora, “in un’appassionata adesione ideale”, durante il decennio successivo invece, “(quello dei suoi vent’anni), il suo impegno civile – come nota di nuovo De Michelis – si concentrò in un’intensa e assai varia attività di scrittore, pronta a misurarsi nei generi più diversi […] ma decisa a tenersi lontano, persino idealmente lontano, dalla cospirazione con quel che ne veniva di conseguenza”. Facile dedurne che sul piano professionale e degli studi ne potessero derivare assieme, per molti, uno sforzo di comprensione della realtà più variegato (e prudente) di quello immediatamente politico e il desiderio implicito, e ancora tutto sommato coerente, di applicarne gli effetti a campi appena contigui ma pur sempre compatibili con il patriottismo (quantunque visibilmente orientati adesso, oltre al resto, da praticissime necessità). Anche così, ad ogni modo, non può sfuggire quanto potessero variare le risposte che vennero offerte in quei frangenti, come ad esempio nel “ripiegamento” in sede scolastica e universitaria, da parte di altri e in particolare di chi, uomo d’azione giovane ma già sperimentato, si fosse lasciato coinvolgere ancora per qualche tratto, diversamente da Nievo, in rischiose imprese o “mene mazziniane”. A questa schiera – non sempre ben distinta da quella degli esuli e dei migranti in cui già abbondavano dei suoi coetanei per differenti motivi più “avventurosi” di lui, dal bellunese Carlo Camillo di Rudio al lavagnese Giovanni (John) Garibaldi, dall’urbinate Raffaello Carboni al chietino Silvino Olivieri ecc.[24] – apparteneva senz’altro Luigi Castellazzo, di quattro anni più vecchio del Nievo e protagonista (in negativo) di una delle più tragiche vicende del nostro Risorgimento. “Bigio”, come lo chiamavano gli amici, si trovò infatti a far parte per sua scelta, fra il 1850 e il 1852, della “più grande congiura del Lombardo Veneto contro l’Austria”[25] ma per il comportamento che tenne dopo l’arresto venne considerato da molti dei suoi contemporanei − e poi da vari storici capeggiati da Alessandro Luzio − il responsabile primo, nel 1852, del tradimento di don Enrico Tazzoli, di Tito Speri e degli altri “congiurati mantovani” avendo ceduto alle torture della polizia austriaca ed essendosi prestato a fatali delazioni e forse, addirittura, a provocazioni funeste in combutta con l’avvocato veronese Luigi Faccioli[26]. Liberato di prigione nel marzo del 1853 − “per ricompensa” dissero poi sempre, con buoni argomenti, i suoi detrattori − e restituito in fretta alla vita civile, “Bigio”, unico fra i carcerati di Belfiore a godere per amnistia di una completa impunità, tornò ad iscriversi nell’Università di Pavia, sua città natale, completandovi i corsi di diritto e laureandosi nel luglio dello stesso anno in legge. Anch’egli dovette superare l’ultima delle “prove rigorose” richieste (qui in numero di cinque) da quell’ateneo per l’ammissione all’esame finale e lo fece con uno scritto sulla Convenienza del diritto di grazia in cui difese posizioni di stretta osservanza politica e religiosa filo asburgica spingendosi a condannare come “perniciosissimi”, senza tentennamenti o riserve, ” tutti i delitti “antipolitici” commessi contro lo Stato[27].
Lasciamo a questa altezza ovvero al suo contraddittorio destino la tragica figura di Castellazzo evitando di soffermarci sugli sviluppi di una controversa esistenza e di una espiazione[28] (che un po’ ricorda quella del nieviano Giulio Altoviti) protrattesi per lui dal 1858 alla morte, nel 1890, in veste prima di ardente patriota democratico, di coraggioso combattente e di alto ufficiale garibaldino (ferito in modo grave al Volturno) e poi di massone, d’internazionalista e di socialista, di pubblicista, di romanziere e di deputato ecc., e torniamo senz’altro all’ambiente culturale e studentesco padovano e a Ippolito Nievo[29]. La cui vita, come si sa, fu fatalmente più breve di quella di “Bigio”. Iscrittosi nell’ateneo patavino sul finire del 1852, provenendo proprio dalla stessa Facoltà legale di Pavia, Nievo alternò in effetti fra il 1853 e il 1855, nella città del Santo dov’era nato, i ricordati studi giuridici ed i connessi esami di prammatica a quella intensa attività artistica e giornalistica a cui si riferiva De Michelis e che lo vide intento a realizzare, fra racconti e poesie, saggi critici e articoli di rivista, drammi e commedie, opere già in qualche caso di valore e comunque premonitrici della sua genialità e dei suoi prevalenti interessi poi fatti convergere quasi tutti, fra il 1857 e il 1858, nelle Confessioni di un Italiano. A parte le sintomatiche posizioni assunte nel 1853 in acre polemica col gazzettiere antisemita bresciano Luigi Mazzoldi e in risoluta difesa degli “studenti delle università italiane”[30], basti ricordare, l’anno successivo, la sua prima raccolta di Versi e ancor più gli Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia[31]. In essi, a supporto di una propria romantica teoria sull’antica (o “pelasgica”) tradizione poetica nazionale, egli sosteneva, come si sa, l’opportunità, per la nostra letteratura, di riferirsi al popolo delle campagne con un linguaggio che tenesse conto delle diverse peculiarità regionali. Strettamente collegata a questa impostazione, in apparenza di carattere solo linguistico ma in una maniera che si spingeva ben oltre i confini di quella che era o sarebbe diventata la linea paternalistica prevalente e più congeniale, da noi, alla letteratura rusticale di metà Ottocento (quella delle Codemo e delle Percoto per intenderci ovvero per restringerci anche solo all’area veneto-friulana), la novella su La nostra famiglia di campagna, ospitata a puntate a Mantova, nel 1855, dalle vivaci pagine de “La Scintilla”[32], già documentava la discreta originalità dell’approccio nieviano al problema (e ai problemi concreti) delle popolazioni rurali, specie della vasta area padana da lui meglio conosciuta[33], secondo prospettive che, precisate e rafforzate, sarebbero confluite più tardi nel celebre Frammento sulla rivoluzione nazionale.[34] In effetti, nella “nutrita serie” di racconti rusticali avviata appunto nel 1855, ma portata avanti anche negli anni successivi tra Il Conte pecoraio e “diversi passi” delle Confessioni, Nievo, come dice Marcella Gorra, avrebbe sempre denotato un profondo e per nulla epidermico interesse verso il mondo contadino. E aveva cominciato a darne prova accogliendo di buon grado, ma razionalizzandole, nel 1856, le raccomandazioni che nell’invitarlo a collaborare con la “Rivista Veneta” di Venezia[35] gli avevano rivolto Saverio Scolari e altri amici della sua redazione chiedendogli di scrivere per loro delle novelle in cui – dicevano – “ vorremmo […] che […] piuttosto che la vita intima e psicologica del contadino, tu ci mettessi in azione i contatti e le influenze vicendevoli fra questo stato fondamentale della società e le classi superiori”[36]. Lasciando alle fatiche imminenti di un Antonio Maria Gemma o del celebre Paolo Mantegazza[37] l’incombenza di ritrarre, come sarebbe puntualmente avvenuto in un clima di positivismo arrembante, la mera “fisiologia”, magari riproduttiva e sessuale, degli abitatori delle campagne del Nord, Nievo veniva sollecitato insomma a intraprendere – ovvero a perfezionare – una riflessione più ampia sui contadini, prossimi emigranti in pectore, a cui si rivolgeva, nelle fiere e nelle piazze,“il saltimbanco che spiega al villano il Nuovo Mondo”[38]. E tale riflessione non si sarebbe certo potuta esimere, per uno come lui, dal confronto con la realtà delle cose ovvero dall’analisi delle relazioni insorgenti, un po’ in tutta la penisola, fra la cosiddetta questione contadina e i problemi sociali sottesi a un processo non più solo vagheggiato bensì ormai in gestazione di unità nazionale, a partire, almeno nei suoi voti, anche dai bisogni e dalle condizioni in cui versavano quelle stesse masse rurali della penisola (che quasi solo a Pisacane, entrato nella sua fase anarco-socialista, avevano dettato pagine memorabili e consonanti ancorché all’epoca poco o punto conosciute). In Veneto e in Friuli, oltre a suscitare di fatto, nelle basse pianure, ricorrenti e indicativi fenomeni di ribellismo[39], esse stavano dando prova di avere messo a frutto, specie fra gli “alpigiani”[40], un lungo apprendistato emigratorio abbastanza somigliante, in fin dei conti, a quello già compiuto da contadini ed altri lavoratori nell’alta Lombardia, nel basso Piemonte e nel Genovesato ovvero, in modo più eclatante perché massicciamente orientato verso le Americhe a fini popolazionistici e di colonizzazione agraria, nelle campagne dell’Europa centro settentrionale.
Pur frequentando, per rigido debito scolastico, lezioni e studi che a Padova, come si è visto, contemplavano anche, nella Facoltà legale, la conoscenza di nozioni statistiche di base e l’apprendimento di concetti elementari di economia politica[41], pare abbastanza probabile che, entrato nel 1854 in contatto e poi in stretta amicizia con uomini e patrioti più vecchi di lui come ad esempio Ferdinando Coletti, Osvaldo Monti o i fratelli Arnaldo e Clemente Fusinato (il secondo dei quali alcuni ne masticava abbastanza), Ippolito Nievo si fosse venuto formando un minimo bagaglio culturale in materia di scienza economica applicata o applicabile alle Americhe. Il che probabilmente avvenne, comunque, non già o non tanto solo mediante la lettura dei trattati in adozione all’Università, quanto piuttosto ascoltando “la voce” di poeti e scrittori come Chateaubriand e Byron i quali avevano recuperato alla cultura europea un interesse, appannatosi a tratti in età napoleonica, “per il Nuovo Continente”[42] oppure attraverso la stessa familiarità con i romanzi più “avventurosi” da oltre vent’anni in voga[43] e con i resoconti diretti e indiretti (saggi, articoli, recensioni a libri di viaggio[44] ecc.) messi in circolo dalle riviste e dai giornali. In Italia e all’estero si divulgavano sempre più spesso notizie e dettagli riguardanti l’assetto demografico del vecchio mondo in rapporto alla presenza degli “indiani” e alle migrazioni già di massa verso i paesi “nuovi” d’oltreoceano tutti o quasi tutti da “colonizzare” per la disponibilità laggiù crescente (e sanguinosamente indotta) di “terra libera”[45]. Assieme ai “bianchi coloni” rurali del vecchio continente, molti di quei paesi (nella stessa America Latina, com’era stata definita per la prima volta da Michel Chevalier quand’era ancora saintsimoniano e poi a ridosso della tragica avventura messicana di Massimiliano d’Asburgo dopo la sua improvvida partenza dal Lombardo-Veneto), stavano però accogliendo anche una parte non indifferente degli esuli e dei profughi dell’ incompiuta rivoluzione democratica del 1848.
Ritiratosi dopo la laurea a Colloredo di Montalbano, Nievo vi attese l’avvento di tempi migliori per la causa nazionale, anche se continuò, con ogni probabilità, a tenersi informato sugli sviluppi delle migrazioni al di là dell’oceano – negli Stati Uniti, in Brasile e in Argentina − meditando in forma più matura sulla nuova fase di un processo che si stava confermando di grande portata e d’inedita composizione non solo per ovvie ragioni economiche e demografiche, bensì pure per le implicazioni di carattere più squisitamente politico. Anche su tali implicazioni merita intrattenersi, come suggerisce di fare se non altro la chiusa avventurosa e spesso fraintesa o sottovalutata delle Confessioni[46]. In essa, infatti, Ippolito Nievo si ispirò, a mio avviso, da un lato alle ultime e assai poco note bandeiras pauliste[47] e dall’altro, come vedremo, alla tragica vicenda del patriota abruzzese Silvino Olivieri. Poiché ciò rimanda tuttavia ad un tema che molto s’inoltra nella storia delle legioni militari italiane e soprattutto del mazzinianesimo nelle sue cangianti relazioni, al Plata, con le ideologie nazionaliste locali – meglio studiate sinora, dopo Salvatore Candido[48], da vari storici latinoamericani come De Marco, Scheidt, Serrano, Chiaramonte, Myers ecc. – pur essendo da tempo indaffarato a mia volta a lavorare sugli esuli, sui soldati “per scelta o per caso” e sugli sbocchi pratico-politici della prima emigrazione italiana in Argentina e Brasile[49], rinuncerò ad occuparmene qui evitando di entrare, quanto meno in dettaglio, nel merito di questioni tanto complesse per limitarmi alla sola analisi essenziale di quanto, in rapporto a tali temi, emerge da una rilettura del testo nieviano nelle sue battute finali.
2. In un suo libro di ormai vent’anni fa – La verdad de las mentiras – Mario Vargas Llosa spiegava che “non si scrivono romanzi per raccontare la vita”, bensì “per trasformarla, aggiungendovi qualcosa”[50]. Cosicché, se pure alle volte “mentano” (non potendo tra l’altro fare altrimenti), essi alterano soltanto una parte della storia: l’altra, destinata ad apparirci non meno importante, “è che, mentendo, esprimono una strana verità” la quale “può essere espressa solo se dissimulata e occultata, mascherata da quello che non è”. Si tratta di una idea condivisa anche da un altro scrittore latinoamericano come Eduardo Galeano che ha ripetuto in diverse occasioni di avere appreso “più nei caffè di Montevideo che non a scuola le lezioni della vita” la prima delle quali recita in sintesi: “l’arte è una menzogna che dice la verità”[51].
Non saprei dire quanto si attagli l’annotazione al caso delle Confessioni di un italiano, ma sta di fatto che tra “menzogna” (sc. invenzione) e verità (sc. realtà storica o fattuale) Nievo si destreggia con successo esprimendo anch’egli, sotto il velame di una relativa dissimulazione, delle dure verità “mascherate da quello che non sono”. Qualcosa di simile succede nel capitolo ventesimo terzo ed ultimo del suo capolavoro romanzesco in cui l’autore, a tre anni dalla prova rigorosa per la laurea, ritorna alla storia delle migrazioni, guardata ora da un angolo di visuale particolare ma non proprio inconsulto, con ben altra forza rispetto al recente passato e con motivazioni o con intendimenti su cui vale forse la pena, anche noi in conclusione, d’interrogarsi.
Nell’inviare al padre, in forma epistolare, alcuni “cenni” della propria vita per dargli prova di non essere stato, dopo un’esistenza “dissoluta e superba”, “al tutto [….] indegno” del loro nome, quello degli Altoviti, Giulio, costretto al profugato, viene chiamato da Nievo a redigere la cronaca verosimile di “un esiglio che non finirà forse mai più” ma che diventa, nel contempo, anche il racconto pieno di chiaroscuri di un tipo d’emigrazione precoce oltre Atlantico in cui al giovane si fa dire in premessa che “l’onore della nostra nazione” sarà affidato a “poveretti” come lui, “sbalestrati dalla sventura ai quattro capi della terra.”
A quali vicende si riferiscano le pagine finali che nelle Confessioni Nievo decise di dedicare, per chiudere il suo gran libro, al figlio del protagonista, dopo una “redenzione” compiutasi nel 1849 alla difesa della Repubblica Romana, è abbastanza noto, ma sino a poco tempo fa, parrebbe, anche piuttosto trascurato, dalla critica. Cosa si celi dietro alla loro trama così apparentemente esotica e discosta, innanzitutto geograficamente, dall’andamento patriottico e, per così dire, tutto d’un pezzo “risorgimentale” seguito sin lì dalla narrazione, è stato infatti spesso giudicato, dai più, una “divagazione” artificiosa dello scrittore e come minimo, quindi, male interpretato. Mentre riguarda, a mio avviso, aspetti importanti e a tutt’oggi abbastanza dimenticati dell’emigrazione italiana in America meridionale ai propri albori quando essa fu a lungo contrassegnata, fra il 1840 e il 1880, da presenze che se per un lato poco sembrerebbero aver a che fare con l’esodo successivo di semplici coloni e contadini, per un altro ci parlano invece, realisticamente, di esuli e di proscritti “in armi”, di esploratori e viaggiatori in continuo movimento, di previous migrants alla ricerca di una sistemazione individuale per sé e per il proprio avvenire, ma soprattutto d’intraprendenti pionieri del nascente business immigratorio politicamente connotati e destinati sovente a diventare, più tardi, promotori e leader delle future “comunità” italo-sudamericane in “suolo straniero” e già desiderosi, alle volte anche per puro tornaconto personale, di fondare e comunque di far nascere al Plata , “in terra libera” (oppure resa tale), insediamenti rurali e nuclei seminali di agricoltori connazionali, fra Argentina, Uruguay e Brasile. Nel loro novero le prerogative ideologiche di specie (patriottiche, liberali, mazziniane ecc.) e, nei fatti, di ruolo (militari, pubblicisti, scienziati, faccendieri ecc.) risultano quasi sempre sovrapposte, mescolate e fra loro anche abbastanza confuse, ma possono ben esplicarsi in deroga a rigide tipologie correntemente assegnabili ed evolvere, già dalla fine degli anni 1850-1860, in direzioni sempre più precise e soprattutto in grado di condizionare, caratterizzare e orientare, grazie al monopolio dell’associazionismo e del giornalismo etnico, la crescente presenza italiana in buona parte dell’America Latina.
Anziché seguire la Legione di Garibaldi partita da Roma, ormai in mano ai francesi, “per le Romagne e per la Toscana”, Giulio Altoviti si volge dunque deliberatamente, nel romanzo, all’America con alcune lettere di referenza consegnategli dal Generale per i suoi molti amici di laggiù e intraprende, da proscritto ma anche da emigrante, un tragitto destinato a concludersi tragicamente in Argentina nel febbraio del 1855. Nella traversata stringe amicizia con un medico spoletino, il dottor Ciampoli, che assieme alla famiglia sta cercando anch’egli di raggiungere gli Stati Uniti e durante il viaggio trova persino il modo d’insegnare a Gemma, la figlia diciannovenne di quest’uomo descritto come alieno “dalla rabbia consueta dei profughi politici”[52], una canzonetta popolare di pescatori chioggiotti, in attesa (lunga tanto quanto il viaggio durato oltre due mesi) di sbarcare a New York dov’è diretta la nave. Nella nascente metropoli degli Stati Uniti, che ospitava all’epoca meno di mille italiani e che era stata già ben descritta dal mazziniano ticinese Antonio Caccia in un suo romanzo edito a Monaco nel 1850 – Europa ed America (scene della vita dal 1848 al 1850)[53] – Giulio si ferma ben poco perché stenta ad ambientarsi fra “botteghieri e sensali” il cui prosaico materialismo, da lui deprecato, permette a Nievo di esprimere incidentalmente sugli Stati Uniti, per quanto in modo rapsodico, uno dei primi giudizi negativi che si conoscano del nostro sempreverde antiamericanismo. Il destino, però, attende al varco Giulio in tutta un’altra America ovverosia “al Brasile” dove anch’egli sceglie di spostarsi seguendo Ciampoli costretto a sua volta ad “inseguire” a Rio de Janeiro un ingegnere, Claudio Martelli, al quale era stato raccomandato perché fratello di un Arrigo già comparso antecedentemente nella narrazione e cara conoscenza di Carlo Altoviti per la loro comune partecipazione “alle rivoluzioni di Napoli del novantanove e del ventuno”. Da questo punto in avanti ha inizio la parte che più ci interessa e che si snoda, con descrizioni ambientali visibilmente calcate sul modello di quelle reperibili all’epoca in italiano – cioè abbastanza alla portata del giovane Nievo – in alcuni celebri resoconti coevi (a cominciare, con ogni probabilità, dalle “Esplorazioni” del monzese Gaetano Osculati in zona equatoriale, lungo il Rio delle Amazzoni, dal 1846 al 1848, pubblicate in due edizioni milanesi successive e ravvicinate del 1850 e del 1854[54]). Poco dopo il suo arrivo in Brasile, “uno Stato nuovo ed ordinato”, Giulio, semplicemente esibendo i propri titoli militari, ottiene con facilità un posto ovvero “un grado di maggiore nella fanteria di confine” dell’esercito imperiale dove s’imbatte pure nella “viva memoria” d’un altro amico di suo padre menzionato in precedenza nel romanzo, ossia il già ricordato Alessandro Giorgi, rientrato a Venezia allo scoppio della rivoluzione repubblicana dopo essersi oltremodo distinto per avere ridotto “a soggezione” e riordinato, alla guida di ottocento soldati “regolari”, una vasta zona del Mato Grosso meridionale così da guadagnarsi la stima del sovrano che, per ricompensa, lo aveva anche fatto Duca di Rio-Vedras. Ed è nel Sudoeste matogrossense tra la località dal nome inventato di Rio Ferreires, immaginata e posta nel racconto a tre mesi di marcia da Rio de Janeiro, e la piccola città di Villabella (con ogni probabilità Vila Bela da Santissima Trinidade, la prima capitale della provincia fondata sulle sponde del rio Guaporé nel 1752[55]) che Giulio fa conoscenza fra il 1850 e il 1852 con il Brasile tropicale dov’è in corso una emigrazione per evidente sfruttamento di miniere diamantifere e con i suoi abitatori originari, i “selvaggi” delle varie “tribù indiane”. Nievo li descrive, assieme al paesaggio lussureggiante (fatto di “montagne, torrenti. selve, pianure” e di “cascate di cui l’occhio misura appena l’altezza” ma che tutte serbano una primigenia impronta quasi edenica), in assetto intermittente di rapina rifacendosi, per il contesto ambientale, a molti stereotipi espositivi sulla natura dei luoghi già da tempo in circolo a metà Ottocento anche se poi il ritratto che egli traccia degli indios, definiti in un punto, alla nordamericana, addirittura “pelli-rosse”, e quindi dell’attività militare di tipo bellico (e non solo di generico controllo) affidata alle cure di Giulio Altoviti sembrerebbero rinviare, come vedremo più in là, all’Argentina piuttosto che al Brasile. Qui, e massime nel Mato Grosso, avevano certo e realmente avuto modo di verificarsi, fra Sette e Ottocento e ancora sull’aprirsi della decade 1850-1860[56], numerosi episodi simili a quello in cui perdono la vita Ciampoli e suo figlio Fabietto: una terribile incursione con scontri all’ultimo sangue, ratti di donne bianche e incendi paurosi il cui bilancio finale ammonta a 200 morti tra soldati e coloni e a trecento vittime fra i “selvaggi”. Ad essa, cui scampa per esigenze narrative la giovane Gemma di cui Giulio si era innamorato e che farà presto sua sposa, si possono attribuire i caratteri di un copione al tempo stesso vero e inventato. Giulio Altoviti spedito a presidiare la zona di Rio Ferreires e a proteggere la missione tecnico scientifica del dottor Ciampoli − nominato dal governo “sopraintendente delle miniere” locali − si trova ad avere accasermati ai suoi ordini dei soldati che, “ubbidientissimi a Rio de Janeiro”, nel Mato Grosso “si tramutano in scorridori, in briganti, e […] di poco dissomigliano dagli Indiani che molestano di continui assalti”
Anche di tali assalti Nievo offre una rappresentazione precisamente scandita e macabramente suggestiva che ha solo il difetto di rifarsi almeno in parte, com’è stato sostenuto da Beatriz Curia, a una sorta di canone descrittivo in auge per tali eventi nell’America ispano-portoghese sin dai primi del Seicento[57]. È un canone scomposto assai bene e analizzato in via generale, anni fa, anche da Piero Brunello[58], che contempla una serie indicativa di motivi comuni dei quali tuttavia Nievo si serve lasciando intravedere perplessità tutte sue sulla logica spietata delle bandeiras e delle “legioni agricolo militari” brasiliane che pure, probabilmente, conosceva un po’ meno bene delle spedizioni punitive organizzate, in contemporanea, sia negli Stati Uniti dei presidenti Taylor, Fillmore e Pierce (nonostante l’esito discreto nell’arco di vent’anni dell’Indian Removal Act di Andrew Jackson) e sia nell’Argentina di Juan Manuel de Rosas e dei suoi immediati successori. Nell’America portoghese ancora “infestata” dagli indiani tutto appare “nuovo strano inopinato” anche se “dopo le lontane escursioni fra le tribù selvagge, si torna sempre alla pace e alla giocondità della famiglia”. Le incombenze minute di questa fase finale dello sterminio e delle violenze inflitte alle popolazioni native sono aggravate non solo dalla precaria logistica e dalle immense distanze, bensì pure dalle reazioni e dall’”astuzia particolare” dei selvaggi di cui peraltro vengono bruciate per precauzione le imbarcazioni e assaltati i villaggi anche quando si debba accorrere soprattutto, o soltanto, per “dar un esempio […] con gran parte della guarnigione” (composta fra l’altro, come s’è visto, da una “soldatesca che ha bisogno di esser curata perché non diventi [essa stessa] il flagello del territorio”). Persino nei frangenti più atroci, nondimeno, residua nello scrittore il sospetto, ed è cosa rara per quei tempi anche se viene espressa in forma incidentale e distaccata, che qualcosa d’ingiusto o di sbagliato vi sia nelle pratiche repressive e omicide dislocate a monte o a valle degli scoppi di furore e degli attacchi irati e micidiali degli indiani. Cavalcando a gran velocità e con rabbia crescente alla volta di Rio Ferreires ormai data alle fiamme (dove costoro, non a caso mai chiamati precisamente per nome, ma identificati soltanto in modo generico e sommario, “avevano assaltato di nottetempo le caserme, inchiodato i cannoni, e scannato per sorpresa gran parte degli uomini, facendo prigioniere le donne”), a Giulio Altoviti si para dinanzi nell’aprile del 1852 uno scenario di morte in cui le ragioni degli altri, per un momento, riescono a trovare qualche spazio: “I pochi superstiti si erano rifugiati alla residenza; ma colà appunto si era rovesciata proprio nel momento del nostro ritorno la rabbia dei selvaggi. Gridavano di voler uccidere i capi bianchi ch’erano venuti a spodestarli della pianura e della riva del Gran Fiume; e lanciavano contro le mura frecce e macigni.” Ma si tratta, appunto, solo di un momento: grandi alternative agli occhi delle autorità americane e dei coloni bianchi venuti dall’Europa non se ne prospettavano del resto in nessun luogo, a metà Ottocento, rispetto a quelle ferocemente marziali poste in essere dalle armi e dalla riduzione in cattività dei meno riottosi fra loro, per gli indiani sia da secoli insediati lì e sia recentemente immigrati, a propria volta, dal Cile in territori ricchi di risorse naturali e di minerali preziosi, ma reclamati e contesi adesso dalla “civiltà occidentale” ovvero, a parole, in suo nome. Nievo, però, una speranza al riguardo la nutre anticipando paradossalmente alcuni sviluppi che, fra indios sopravviventi ed emigrati europei in continuo arrivo, la questione indiana avrebbe conosciuto, mercé l’azione dei missionari scalabriniani e salesiani, di lì a qualche decennio, ormai ben dentro alla seconda metà dell’Ottocento[59]. In Brasile dice, prendendo spunto dalla figura del vecchio sacerdote da cui vanno a lezione di portoghese Giulio e Gemma (un “vecchio prete” che a Rio Ferreires “è cappellano, vescovo, e […] quasi papa del paese), “Voltaire ha ancora torto: […] non si trovano qui né parrochi ospitali, né canoniche spaziose e parate a festa, né mense ben fornite a ogni due miglia. Bisogna serenare dieci notti per insegnare ai selvaggi quell’abbicì della civiltà che è il cristianesimo. Il maresciallo Giorgi, l’invincibile duca di Rio-Vedras, ha fatto assai colle carabine; ma più faranno, credo, questi preti ignoranti pazienti”. A conferma e a riprova della fiducia da lui riposta nell’opera possibile del magistero ecclesiastico tramite le figure familiari del basso clero, Nievo, che ben conosceva anche gli effetti nel Lombardo Veneto di certe strategie vaticane messe a nudo dalla congiuntura concordataria del 1855 – anno di un compromesso fra la Chiesa e l’Austria gravido, nel Vice Regno asburgico, di conseguenze alquanto regressive – fa ritornare in scena, nel racconto dell’assalto indiano a Rio Ferreires, la figura del vecchio curato portoghese.
Mentre Fabietto Ciampoli, dopo essersi battuto spada alla mano con un coraggio indomito e di gran lunga superiore alla sua età, stramazza al suolo “colpito da molte frecce […] mormorando il nome di Maria”, ecco comparire l’anziano sacerdote che ferma la gazzarra rituale accennata dagli indiani sui corpi dei caduti “per adornare il loro mostruoso trionfo”: “[…] in quella il vecchio prete portoghese che aveva saputo del’eccidio della Sopraintendenza, accorse in camice e stola col crocefisso in mano. L’aspetto di quell’uomo disarmato che parlava loro di pace nel linguaggio nativo, e che si esponeva senza paura ai loro strazii per salvar i fratelli, arrestò un momento i selvaggi. Intanto ci si dié tempo di giungere…”
Sembrerebbe un dettaglio inventato ancorché provvisto di mitici precedenti, a cominciare ovviamente dall’incontro provvidenziale sul Mincio con Attila di Papa Leone Magno che avrebbe convinto nel 452 il re degli Unni a fermarsi e a non devastar oltre la penisola (quantunque, per esprimerci in modo sbrigativo, risulti provato che tre anni più tardi, quando Roma fu invasa nel 455 dai Vandali di Genserico, e sia pure a prezzo di due settimane di saccheggi, fu proprio per intercessione di Leone I che gli abitanti della Città Eterna ebbero salva la vita). Ancora una volta non sappiamo a quale possibile caso concreto, nelle settecentesche missioni gesuitiche o, se mai ce ne fosse stato uno, ancora nel Brasile di metà Ottocento, Nievo si ispirasse per modellare l’episodio del sacerdote disarmato che, forte solo della sua parola e delle sue insegne religiose, si rivolge con parole di pace, e nella loro lingua per giunta, a dei “barbari aggressori” – ovviamente i “selvaggi” − ottenendone miracolosamente una tregua. Negli anni in cui diramandosi da Lione si viene diffondendo i tutti i paesi cattolici − ed è anche facile da rinvenire nella maggior parte delle biblioteche pubbliche (ma perfino in alcuni Gabinetti di lettura) − una pubblicazione come gli “Annali della Propagazione della Fede” destinata a raccogliere periodicamente le lettere che vescovi e missionari cattolici inviano dai più diversi angoli del mondo ancora da evangelizzare, può anche darsi che lo scrittore abbia attinto di lì o da fonti consimili un qualche spunto di natura in partenza “edificante”. Ma oltre a ciò va detto che proprio nei dintorni cronologici in cui Nievo ambienta (e soprattutto viene scrivendo) l’ultima parte delle Confessioni, esempi del genere − a sfondo, per dir così, “clericale” − da lui usati a proposito di Rio Ferreires si diedero sul serio, perlomeno al Plata. Volendone ricordare uno di poco successivo alla stesura del romanzo e però immediatamente passato dalla cronaca alla leggenda, il 29 ottobre del 1859 sarebbe stato proprio un prete italiano, don Francesco Bibolini nato nel 1827 a La Spezia e giunto nel 1854 in quella località chiamata allora Fortin Mulitas, a fermare nella cittadina 25 de Mayo, a 200 chilometri da Buenos Aires e non distante da Saladillo, la replica di un classico e sanguinario “malón” − mandato già una volta ad effetto nel 1856 – del grande Cacique Calfucurá, il temuto signore de “Las Salinas Grandes” e protagonista indiscusso, dalla parte indigena e da circa trent’anni − sino alla sua morte nel 1873 − di quasi tutte le vicende, politiche e militari, che si svolsero fra l’età di Rosas e quella di Mitre e di Sarmiento in Argentina.
25 de Mayo e Saladillo (ancorché ufficialmente fondata, questa, nel 1863) come Bahia Blanca e Azul e come una infinità di altri luoghi delle provincie di Santa Fé, del Chaco, di Entre Rios ecc., posti e fortini tutti allora di “frontiera” in un paese diviso che si stava costituendo faticosamente in Stato nazione attraverso una serie sanguinosa di guerre civili e di scontri ininterrotti con gli indiani delle Pampas (o giuntivi a ondate successive dal Cile attraverso le Ande), rappresentavano il cuore di un’immensa zona di potenziale colonizzazione agricola dove, come e più che in Brasile, “sul finire degli anni cinquanta dell’Ottocento”, per renderla quanto prima possibile coltivabile, era in atto “un processo di espropriazione violenta delle terre indigene”[60]. “La precisione delle osservazioni di Nievo” − nota Piero Brunello − sorprende” tuttavia per il Brasile perché fino ad allora non vi erano stati lì, tranne una colonia ligure in Santa Catarina, insediamenti significativi di agricoltori italiani anche se poi, oltre a quelli mandati o che si sarebbero voluti mandare da Roma (nel 1837) o da Napoli (nel 1857) − per una deportazione politica fieramente avversata da Pisacane[61] − di italiani in giro per le province dell’Impero di Dom Pedro II, fra militari, commercianti e altri soggetti, nella decade 1850-1860, cominciavano ad esservene davvero in discreto numero[62]. Meraviglia semmai maggiormente, segnala sempre Brunello, che quando invece le colonie vengono sul serio fondate, in Italia la consapevolezza dimostrata da Nievo a proposito delle modalità che ne hanno consentito la formazione man mano svanisca e venga definitivamente meno. La prima origine di un tal genere di colonie al Plata, ad ogni modo, è anche cronologicamente assai vicina allo svolgersi degli avvenimenti, sempre più drammatici per Giulio Altoviti, che fra il 1852 e il 1855, sono chiamati (o meglio allusi) nel romanzo da Nievo per fare da sfondo credibile e quasi da cornice alla morte del suo personaggio. L’epilogo della “avventura” brasiliana e il passaggio di Giulio a Buenos Aires segnalano e quasi simbolizzano un cambiamento di fase nei flussi dell’emigrazione e del profugato politico italiano in America meridionale realmente esistito. Quando Giulio Altoviti, abbandonata Villabella e il Mato Grosso, “dopo tre mesi di viaggio, ma sempre vago, pittoresco, in paesi di bellezze quasi favolose” raggiunge infine, nell’ottobre del 1852, l’Argentina – dove “gli Italiani hanno buon nome [perché] il general Garibaldi ha lasciato gran desiderio di sé” e dove egli sposerà Gemma avendone due figli, estrema consolazione in Italia del vecchio Carlino – il paese ha infatti conosciuto da appena pochi mesi una radicale trasformazione dei propri equilibri di potere peraltro esposti, di lì sino al 1862 a un ulteriore decennio di turbolenze e di rinnovata instabilità per lo scontro tuttora in atto fra unitari e federalisti (ovvero fra Buenos Aires e le altre province) in un clima sempre più infuocato di guerra civile[63] e altresì, però, di guerra agli indiani in cui i nostri esuli, soprattutto di fede democratica e mazziniana, finiranno per inserirsi[64], mutando a propria volta, quasi senza accorgersene, le proprie posizioni o le proprie impostazioni ideali[65]. E con queste, ben presto, alcuni di loro, come Giovan Battista Cuneo, l’alter ego di Mazzini in America Latina, si consegneranno anche a compiti del tutto funzionali ai progetti governativi di popolamento per via d’immigrazione d’una classe dirigente (Mitre, Alberdi, Sarmiento ecc.) già vicina, trent’anni prima, al giovane Garibaldi rivoluzionario riograndense e uruguayano[66].
Alla battaglia di Caseros, il 3 febbraio 1852, l’esercito della Confederazione Argentina, al comando di Juan Manuel de Rosas, subisce una rovinosa sconfitta da parte dell’“Esercito Grande” del governatore di Entre Rios Justo José de Urquiza rafforzato da truppe brasiliane e uruguayane[67], ma tra le conseguenze della vittoria, nonostante il varo, nel 1853, di quella che rimarrà poi la Costituzione argentina, tornano ad insinuarsi le rivendicazioni e le insofferenze di Buenos Aires. La città, infatti, insorge contro Urquiza alimentando fra il 1854 e il 1859 una nuova stagione di conflitti, in cui non mancano d’inserirsi nemmeno gli indios araucani e ranqueles[68], definitivamente conclusa soltanto nel settembre del 1861 all’indomani della battaglia di Pavon quando il caudillo entrerriano viene inopinatamente sconfitto dai porteños e quando, un anno più tardi, Bartolomé Mitre ascende infine alla presidenza della repubblica. La concomitanza, nella sua ultima fase, del complicato processo di costruzione dello Stato nazionale in Argentina con quanto avveniva per analoghi fini, e sia pure con diversi problemi, in Italia fra il 1850 e il 1861[69], non poteva essere del tutto sfuggita, fin che visse, nemmeno a Ippolito Nievo il quale ne seguì e confusamente ne riecheggiò forse, nella chiusa delle Confessioni, alcune tappe avendo però presenti anche episodi e protagonisti degli eventi che si erano succeduti, al di là dell’Atlantico, quanto meno fra il 1852 e il 1857. Di qui la scelta di far morire Giulio Altoviti dopo 28 mesi di prigionia in una Saladilla di fantasia (in realtà probabilmente Saladillo) in mano ai cosiddetti “insorgenti”, nel febbraio del 1855.
Alejandro Patat ha messo bene in luce l’equivoco in cui cadde Nievo collocando Giulio Altoviti dalla parte “sbagliata” poiché gli “insorgenti”, nel 1855, non potevano che essere quelli portegni sollevatisi contro Urquiza e a fianco dei quali si mise la maggior parte degli italiani al Plata (non tutti però), e specie coloro che avevano dato vita a “legioni militari” famose come la “Legion Valiente” allestita con determinazione e competenza da Edoardo Clerici e da Silvino Olivieri[70], il già ricordato patriota chietino di Caramanico alla cui vicenda molto si interessò, non solo come abruzzese, anche Benedetto Croce[71]. La tribolata vicenda di questo ardente mazziniano, che a un certo punto l’Apostolo aveva pensato potesse sostituire addirittura Garibaldi nel ruolo ch’era stato suo in America Latina e poi in Italia, era passata, fra il 1852 e il 1853, attraverso alcune prove assai significative nella difesa in armi di Buenos Aires, allora minacciata dalle truppe del colonnello Hilario Lagos al servizio della Confederazione per il presidente Urquiza, con 300 volontari italiani emuli di coloro che, pochi anni prima, avevano combattuto agli ordini del generale nizzardo nel lungo assedio di Montevideo. Superata l’emergenza e sciolta la Legion Valiente, già nell’agosto del 1853, Olivieri profondamente convinto, come scrisse al suo luogotenente Pietro Hugony, che l’essersi battuto per “la causa della libertà nell’America del Sud”, fosse lo stesso che aver servito per la causa nazionale italiana, fece ritorno in patria e tradito da una delazione venne quasi subito arrestato a Roma dalla polizia pontificia. Condannato a morte per cospirazione venne salvato da una intensa azione diplomatica delle autorità del paese di cui aveva acquisito, a Buenos Aires, la cittadinanza e dove poté quindi rientrare incolume nel gennaio del 1855 assieme a Filippo Caronti, un altro esule repubblicano anch’egli scampato in Italia alla pena capitale. Dopo essersi unito in matrimonio a una Cambaceres, di ricca e influente famiglia franco argentina, Olivieri prese parte con lo stesso Caronti, sul finire di quell’anno, ai preparativi progettati dal governo portegno per inviare nei pressi della Fortaleza Protectora Argentina, in pratica a Bahia Blanca, una legione agricolo-militare pensata quale germe di future colonie rurali in quella zona, ma soprattutto, al momento, quale baluardo contro le scorrerie degli indios araucani che guidati da Piedra Azul, il gran Cacique (o lonco mapuche cileno) Calfucurà[72], proprio nel 1855 erano passati ovunque di vittoria in vittoria sulle truppe di Mitre e del suo Ejército de Operaciones del Sur. L’insediamento cominciò a prender forma nel febbraio del 1856 con l’arrivo dei primi “soldati-contadini”, un buon terzo dei quali, frammisti ad altri tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli, italiani e in parte reduci della Legion Valiente. Alla colonia, fondata ufficialmente il 1° luglio 1856, Olivieri, che la dirigeva e la “comandava”, aveva apposto il nome beneaugurante di Nueva Roma suscitando qualche speranza in Mazzini il quale ne aveva scritto in questi termini alla suffragista inglese e filo italiana Matilda Briggs e ad Adriano Lemmi − compagno di prigione a Roma, tre anni prima, dell’esule abruzzese − già tra il gennaio e il febbraio di quell’anno quando, dal canto suo, anche Giovan Battista Cuneo pensò di dover appoggiare l’iniziativa cominciando le pubblicazioni a Buenos Aires di un quindicinale in lingua italiana intitolato “La Legione Agricola”. In esso, però, si sposavano senza esitazione troppe vedute anti-indiane e, sostanzialmente, razziste[73] a causa dell’evoluzione che ormai stavano subendo (e date anche le conseguenze che presto o nel lungo periodo avrebbero avuto sul terreno dell’emigrazione popolare di massa) i rapporti più che cordiali intrattenuti dalle nuove élites liberali sudamericane e i previous migrants politicizzati, gli esuli garibaldini e gli altri proscritti repubblicani originari della penisola: tutti, assai spesso, seguaci o ammiratori di Mazzini ma in procinto di virare anch’essi, sulla scia peraltro del Maestro[74], già negli anni 1860-1870 e lungo l’intera decade seguente così decisiva per l’ascesa dei nostri flussi immigratori oltreoceanici, in direzioni alquanto diverse dal loro passato libertario[75].
La “Legione Agricola” concepita per dare sostegno pubblicistico e politico al progetto di “creare una colonia […] in grandissima maggioranza di italiani” ma anche di “proteggere”, grazie a loro “i confini della Repubblica Argentina dagli attacchi degli indiani”[76], continuò ad uscire fino all’ottobre del 1856, ossia fino a un mese dopo la morte violenta dell’Olivieri avvenuta per mano di un manipolo di legionari, alcuni italiani, ammutinatisi a causa della sua gestione troppo rigida e autoritaria della colonia, ma pose o almeno illuminò le basi dell’impegno personalmente assunto da Cuneo, seguito a ruota da Basilio Cittadini[77], per promuovere l’emigrazione italiana e indirizzarla verso sbocchi intanto di colonizzazione agricola assecondando in tal modo l’azione populazionista e incentivante avviata nei primi anni cinquanta dai governanti latinoamericani all’ombra e in nome di fratellanze, via via distorte o diversamente intese, tanto massoniche quanto d’ordine ideologico soltanto formalmente “progressista”[78].
Compressa in poche righe ma intrecciata anche così con una storia ben più complessa che non ci è dato qui nemmeno di accennare per sommi capi, la parabola argentina di Olivieri e le circostanze dolorose della sua uccisione furono subito conosciute in Italia dove ne parlarono, soprattutto a Genova, molti giornali e dove negli ambienti mazziniani e democratici si diffusero sulla sua morte e sui suoi propositi patriottici, per quanto frammentarie, informazioni e notizie improntate a una lettura semplificata del destino contraddittorio e luttuoso a cui egli era andato incontro dall’altra parte dell’oceano. Nievo, con ogni probabilità, ne venne al corrente a sua volta ma non ebbe né il tempo né il modo di realizzare in proposito quel tipo di riflessione che oggi, alla luce di tanti documenti e di alcuni studi, occorre compiere riguardo ad avvenimenti collegati in più maniere alla storia della nostra prima emigrazione in Sudamerica.
Troppo lungo, di nuovo, sarebbe soffermarsi adesso sulle figure e sulle dinamiche al centro di vicende che comunque mettevano tutte a nudo il cambiamento di rotta, al Plata, dell’impegno politico mazziniano, ma che in genere davano prova dell’attuale commistione, in esse, dei motivi, alcuni prettamente economici come si desume dai contratti stipulati dagli assuntori con i governi locali, i quali già sul finire della decade 1850 presiedettero alla nascita di colonie come quella militare abbozzata nel 1856 a Bahia Blanca appunto da Olivieri o come l’altra tentata in provincia di Salta nel 1857 dal giovane Paolo Mantegazza. Il futuro “senatore erotico” ne avrebbe parlato nei suoi lavori “extrascientifici” degli anni 1860-1880 e persino in alcuni romanzi che al pari di quello “ermafrodito” di poco successivo di Antonio Marazzi[79] e d’una manciata di pochi altri testi contengono, a ben vedere, le prime notizie entrate in circolo in Italia, dopo l’unità, sui primordi della colonizzazione agricola perseguita dagli emigranti e dagli stessi esuli politici giunti in America dalla penisola e sui loro rapporti con le popolazioni indiane. In nessun caso, tuttavia, tornarono mai più a balenare quei dubbi che Nievo invece aveva almeno percepito e men che meno la consapevolezza, che da noi nessuno infatti ebbe, della sin troppo veloce americanizzazione di tanti propositi umanitari e cosmopolitici adattati ai nuovi contesti d’oltreoceano da molti campioni della libertà europea. Entrati in contatto con i concetti di “civiltà e barbarie” usati dai politici e dagli intellettuali soprattutto dell’Argentina antirosista essi non esitarono ad esempio, nemmeno se garibaldini o mazziniani, a far propria la nozione dell’ineluttabilità d’uno scontro fra le razze che implicava la liceità dello sterminio di una di esse, la più debole e la più “arretrata”. In questo, fatte salve le ragioni emergenziali ma non casuali dell’autodifesa dai ricorrenti “malones” indiani[80](che peraltro costituivano secondo annota giustamente David Viñas, “el saldo concreto, en ultima instancia, del avance civilizador sobre la barbarie: una civilización latifondista”[81]), Silvino Olivieri, che non fece in tempo a sperimentarne alcuna come invece era successo nel Mato Grosso della finzione romanzesca a Giulio Altoviti e ai suoi connazionali nieviani di Rio Ferreires, non differiva poi gran che da Carlo Camillo di Rudio, l’attentatore, con Orsini e Pieri, di Napoleone III, e dagli altri “italiani di Custer” alla battaglia del Little Bighorn a cui l’esule bellunese prese parte come ufficiale[82] o anche, fuori da un’ottica nostra risorgimentale, da tanti altri democratici e repubblicani di sinistra europei sul tipo del pubblicista e pedagogista francese Amédée Jacques, inviso in patria a Victor Cousin e fondatore a Parigi, nel 1847, del celebre “Liberté de penser” che emigrato a Montevideo con lettere commendatizie di Alexander von Humboldt si era trasferito a Entre Rios entrando in buoni rapporti con Urquiza sino a partecipare nel Chaco, fra il 1854 e il 1856, e sia pur con le credenziali e con l’alibi del fotografo/scienziato, a varie spedizioni “coloniali” in territorio indiano[83]. Né basta a controbilanciare la vasta casistica dei colonizzatori già avvezzi a sostenere in casa propria una nobile idea di nazione “quale premessa di un’umanità pacificata o, perlomeno, di un’Europa unita”[84] ma convertitisi velocemente, al nuovo mondo, alle ragioni di un nuovo tipo di esistenza in America, la voce isolata e coerente di pochi osservatori a cui ci piace immaginare che Nievo, se fosse sopravvissuto al suo ingrato destino, si sarebbe con buone ragioni potuto aggiungere[85].
[1] Rendo in forma più ampia alcune parti della conferenza L’ospite nemico tenuta al Festival della Letteratura di Mantova il 12 settembre 2010 e introdotta nell’occasione da Juri Meda. Dopo tale intervento, all’interno di Fahrenheit, la trasmissione di Radio3 a cui ero stato invitato da Marino Sinibaldi, mi fu data l’opportunità d’intrattenermi, sfogliando fra l’altro il manoscritto originale delle Confessioni di un Italiano, su vari temi nieviani tra i quali, oltre all’incipit celeberrimo del romanzo, mi parve giusto riprendere quello dei rapporti fra Nievo e l’emigrazione di metà Ottocento in America Latina. Ciò che dissi allora in diretta radiofonica e nello spazio obbligato di pochi minuti costituisce l’antefatto e un po’ anche l’ossatura o l’idea per la trama del presente saggio la cui parte iniziale ha già visto la luce anche in un contributo (Delle emigrazioni e della loro diversa indole nella storia antica e moderna. Storiografia e ricerca storica in movimento) per i 70 anni di Silvio Lanaro nel volume Pensare la nazione. Silvio Lanaro e l’Italia contemporanea, a cura di Mario Isnenghi , Roma, Donzelli Editore, 2012, pp. 49-63.
[2] Ester De Fort, Esuli in Piemonte nel Risorgimento. Riflessioni su di una fonte, “Rivista storica italiana”, 115, 1 (2003), pp. 648-688; Adolfo Bernardello, Vite spezzate e contrasti ideali. Esuli veneziani negli Stati italiani ed europei (1849-1858), in Fuori d’Italia. Manin e l’esilio, a cura di Michele Gottardi, Venezia, Ateneo Veneto 2009, pp. 191-222.
[3] Cfr. ora Agostino Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, Bologna, il Mulino 2011, ma per il ruolo che molti esuli già durante la prima metà dell’Ottocento ebbero nella costruzione all’estero (o dall’estero) di un immaginario patriottico italiano all’interno di un più vasto contesto transazionale anche Simon Levi Sullam, Conflitti dell’esilio e immaginazione della nazione alle origini del Risorgimento, in Gli Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni, diretto da Mario Isnenghi, I, Fare l’Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di Mario Isnenghi ed Eva Cecchinato, Torino, Utet, 2008, pp. 104-114 e, soprattutto, Maurizio Isabella, Risorgimento in esilio. L’internazionale liberale e l’età delle rivoluzioni, Roma Bari, Laterza, 2011.
[4] Vanni Blengino, Il Vallo della Patagonia. I nuovi conquistatori: militari, scienziati, sacerdoti, scrittori, Reggio Emilia, Diabasis, 2003, pp. 22-24 e passim. “L’espansione della frontiera interna – nota l’autore per l’Argentina (a p. 28), ma il discorso vale per l’America quasi intera – ha [comunque] a che fare con l’identità nazionale, in quanto coinvolge l’assetto territoriale, sociale ed economico: dalla soluzione del problema della frontiera [infatti] dipende anche la composizione etnica di una nazione che si dispone a ricevere immigranti europei a centinaia di migliaia, fra i quali ci sono anche coloro che dovranno colonizzare i territori che gli indios ancora occupano”.
[5] Chiara Vangelista, L’emigrazione ligure e piemontese nel Cono Sud all’inizio dell’Ottocento. Aspetti economici e sociali, in Fondazione Casa America, Migrazioni liguri e italiane in America Latina e loro influenze culturali, Roma, Aracne Editrice, 2005, pp. 37-52, e Matteo Sanfilippo, L’emigrazione italiana nelle Americhe in età pre-unitaria, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, XLII (2008), pp. 65-79; per il Canton Ticino e l’alta Lombardia, a parte i classici e monumentali studi di Giorgio Cheda sull’emigrazione dei ticinesi in Australia e in California (Locarno, Dadò, rispettivamente 1976 e 1981), si vedano altresì, sui “presupposti” antichi di un fenomeno nuovo, i rilievi di Luigi Lorenzetti e Raul Merzario, Il fuoco acceso. Famiglie e migrazioni alpine nell’Italia d’età moderna, Donzelli editore, Roma, 2005.
[6] Emilio Franzina, Gli italiani al nuovo mondo. L’emigrazione italiana in America, 1492-1942 Milano, Mondadori, 1995, pp. 137-140.
[7] Per essere ammesso alla laurea e alla discussione, che il suo conseguimento prevedeva, di un numero variabile di tesi (solo di rado comprensive d’una qualche dissertazione più corposa, in tal caso pensata a priori per le stampe), il candidato doveva aver superato in precedenza le cosiddette “prove rigorose” che a Padova erano quattro e vertevano ciascuna, rispettivamente, sull’intera materia dei quattro anni di studio svolgendosi dinanzi a una Commissione composta da tutti i docenti della Facoltà chiamati a esprimere su essa il proprio voto. Per ottenere la laurea in scienze politico-legali oltre a quelli normali, gli esami “rigorosi”, che si dovevano svolgevano nell’arco di due ore, implicavano la verifica delle conoscenze su diversi aspetti dei corsi impartiti e su differenti, ancorché affini, materie: il primo sul diritto naturale pubblico, sul diritto criminale e la statistica; il secondo sul diritto romano, il diritto canonico e il diritto feudale; il terzo sul diritto civile austriaco e il diritto di commercio cambiario; il quarto sulle scienze politiche, la dottrina legale e la procedura negli affari di litigio. Nievo li sostenne in successione il 27 marzo, il 29 maggio, il 30 luglio e il 15 novembre del 1855 senza eccessivo entusiasmo se a proposito del secondo di essi, dopo averlo appena superato, scrisse ad esempio in scherzosa confidenza ad Arnaldo Fusinato (da Padova, il 30 maggio 1855, in Ippolito Nievo, Opere, a cura di Sergio Romagnoli, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1952, p. 1110) “A proposito – il mio esame raccolse i pieni voti – immaginati se fui sbalordito di questo trionfo – e sì ci ho detto tali castronerie da far drizzare i capelli in capo fino a Cicogna [sc. Giovanni Cicogna, l’ordinario di Diritto civile generale austriaco]”. A differenza della laurea in teologia – segnala Giampietro Berti (autore del recentissimo L’Università di Padova dal 1814 al 1850, Padova, Antilia, 2011) – “quella in scienze politico-legali presentava per certi versi una maggior difficoltà di conseguimento, nel senso che il suo esito positivo non sempre era scontato.” Terminata la prova, consistente nella stesura di un breve saggio o come oggi diremmo di un tema il cui argomento era stato scelto dal candidato in accordo con il docente titolare della disciplina (nella veste, sempre come diremmo oggi, di tutor), seguiva la sua discussione e i professori abilitati al giudizio effettuavano la loro “segreta votazione” per decidere sulla ammissibilità o meno dello studente (ed era ammesso alla discussione di laurea colui che avesse ottenuto “la pluralità dei voti, [mentre] la parità dei suffragi decide[va] per il rifiuto”). Nella prova rigorosa sulle migrazioni nella storia antica e moderna, affrontata da Nievo col testo piuttosto sbrigativo e assai scolastico che s’è visto, il 15 novembre 1855 erano assenti, tra i professori, il preside Cicogna e il supplente di Statistica e titolare di Diritto Canonico Francesco Nardi, mentre diedero il loro assenso con “bene” Gianpaolo Tolomei, Giuseppe Dalluscheck, Filippo Salomoni e il decano della Facoltà Alessandro De Giorgi (del cui nome, semplificato dall’eliminazione del “de” gentilizio, Nievo si avvarrà per designare, nelle Confessioni di un italiano, il perfetto prototipo dell’esule “militare” italiano in Brasile, il maresciallo e Duca di Rio Vedras Alessandro Giorgi, da lui ritratto in azione nel Mato Grosso contro i “selvaggi” e fatto rientrare, alla vigilia del ’48, a Venezia). L’unico parere in controtendenza (“sufficiente”) venne espresso, nemmeno troppo sorprendentemente vista l’esilità dello svolgimento, dal professore di Scienze e Leggi politiche Barnaba Zambelli. Sull’Università di Padova a metà Ottocento ( ma cfr. anche infra nota 29 e Maria Cecilia Ghetti, L’Università, in Padova 1814-1866: istituzioni, protagonisti e vicende di una città, a cura di Piero Del Negro e Nino Agostinetti, Padova, Editoriale Programma, 1991, pp. 65-79 e M. Morandin, Aspetti istituzionali e culturali dell’Università di Padova dal 1814 al 1848, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 2003-2004, rel. G.P. Berti).
[8] La bibliografia sul tema, dominato attualmente dal confronto fra le ultime immigrazioni, studiate ormai da un numero impressionante di sociologi, economisti, antropologi ecc., ma esposte sovente ai rischi, oggi maggiorati, dell’ambiguità (cfr. Il “discorso” ambiguo sulle migrazioni, a cura di Salvatgore Palidda, Messina, Mesogea, 2010), e le migrazioni di massa dell’Otto e del primo Novecento in Europa o dall’Europa, nonché dall’Asia e dall’Africa, verso le Americhe, è molto vasta ed è stata ben riepilogata già da Giovanni Gozzini, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, Milano, Bruno Mondatori 2005. Essa comprende, va da sé, un’estrema varietà di approcci e di contributi volti a distinguere, all’interno dei più differenti fenomeni di mobilità da sempre fisiologici (ossia connaturati alla “normale” esistenza delle società umane d’ogni tempo e d’ogni luogo: cfr. Paola Corti, Storia delle migrazioni internazionali, Roma Bari Laterza, 2003; Michele Colucci e Matteo Sanfilippo, Le migrazioni. Introduzione storica, Roma, Carocci, 2009 e M. Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni, Bologna, il Mulino 2010), le peculiarità di fase, di caratteristiche e di struttura dei principali flussi di spostamento nello spazio (Migration, Migration History, History: Old Paradigms and New Perspectives, a cura di Jan Lucassen, Bern, Peter Lang, 1997; Migration History in World History. Multidisciplinary approaches, a cura di Id., Leo Lucassen e Paul Manning, Leiden, Brill, 2010). Tali peculiarità, ad ogni buon conto e almeno per l’Europa, individuano dal Medioevo in avanti proprio nella penisola italiana uno dei loro maggiori e più costanti “bacini” d’ininterrotto funzionamento (cfr. Klaus Bade, L’Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Roma Bari, Laterza 2001 e L’Italia in movimento: due secoli di migrazioni (XIX-XX), a cura di Ercole Sori e Anna Treves, Udine, Forum, 2008) e consentono per altri versi, secondo alcuni (cfr. anche solo Leo Lucassen, Migration and World History: reaching a new Frontier, “International Review of Social History, 52, 1 (2007), pp. 89-96), di ripensare la stessa storia del mondo in chiave più integrata, transnazionale e già, da tale punto di vista,“globale”.
[9] Moses I. Finley ed Ettore Lepore, Le colonie degli antichi e dei moderni, Roma, Donzelli 2000.
[10] Giovani e, dopo il 1848, anche esuli in Piemonte erano senz’altro, benché attivi da tempo con libri propri e interventi su riviste d’età risorgimentale, i primi due, nati rispettivamente nel 1815 e nel 1816, ed ancor più lo era Marco Minghetti (classe 1818), mentre più anziano di loro di alcuni anni e già docente nell’Università di Padova sino alla rivoluzione risultava Cristoforo Negri che avrebbe poi dedicato al tema delle migrazioni transatlantiche al Plata molta attenzione nel suo La grandezza italiana, studi, confronti e desideri, Torino, Tipografia Paravia e Comp., 1864.
[11] Dopo le premesse poste all’inizio dell’Ottocento dalla raccolta del Custodi (“Scrittori classici italiani di economia politica”, 1803-1816) e dagli interventi del ricordato Gioia o, sul milanese “Conciliatore” (e dal 1823 anche nel suo esilio inglese), di Giuseppe Pecchio, nel mondo “rinato” delle riviste, dei manuali e dell’editoria, la svolta più importante e forse decisiva si era avuta tra la metà degli anni quaranta e la metà della decade successiva quando a Torino dalle iniziative di Giuseppe Pomba, che avevano già tenuto a battesimo la nascita di testate come la rigenerata “Antologia italiana” o il “Mondo illustrato” e di collane come la prima serie, diretta da Francesco Ferrara, della “Biblioteca dell’economista”, era sorta a Torino nel 1854 l’Unione Tipografica Editrice Torinese (Utet) in cui si sarebbe compendiato il meglio della scienza economica del tempo (cfr. Roberto Romani, L’economia politica del Risorgimento italiano, Milano, Bollati Boringhieri 1994; Le riviste di economia in Italia (1700-1900). Dai giornali scientifico-letterari ai periodici specialistici, a cura di Massimo M. Augello, Marco Bianchini e Marco E.L. Guidi, Milano, Angeli, 1996; L’economia divulgata. Stili e percorsi italiani (1840-1922), a cura di Massimo M. Augello e Marco E.L. Guidi, Milano Angeli 2007).
[12] Delle emigrazioni e delle colonie. Dissertazione di Giovanni Scavia, Torino, Tipografia e Litografia Foa, 1869, pp. 49-56 e passim.
[13] Luigi Derla, Letteratura e politica tra la Restaurazione e l’Unità, Milano, Vita e pensiero, 1977.
[14] Emilio Franzina, Vicenza italiana (1848-1918). Intellettuali, notabili e popolo fra Risorgimento e prima guerra mondiale, Dueville, Agorà&Factory, 2011, p. 65.
[15] Opuscolo in nozze Thiene-Bollina, Padova, Bianchi, 1854.
[16] Cfr. le allusioni alla sua “noiosità” contenute in una lettera ad Arnaldo Fusinato (da Modena, l’11 novembre 1859, in Nievo, Opere, cit., p. 1169).
[17] Al Lampertico, tra il primo profilo tracciato di lui da Silvio Lanaro (Società e ideologie nel Veneto rurale (1866-1898), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1976, pp. 108-160) e gli ultimi realizzati da Giuseppe Monsagrati, ed anche, parzialmente, da Pier Angelo Passolunghi e da Alfredo Sensales (rispettivamente la voce Lampertico, Fedele, in Dizionario biografico degli italiani, Roma Istituto della Enciclopedia italiana, 2004, pp. 246-250; l’introduzione del curatore al Carteggio Luigi Luzzatti – Fedele Lampertico (1861-1905, Venezia IVSLA, 2010, pp. XI-XXXVI e il corposo volume − dedicato peraltro al pensiero economico, per dir così, del personaggio − su Fedele Lampertico. Economia, popolo e Stato nell’Italia liberale, con un saggio di Roberto Martucci, Lecce, Manni, 2011), ho avuto modo d’inserire anch’io − oltre ai volumi dei carteggi e diari lampertichiani curati, dopo di me, da Renato Camurri e da Giovanni Luigi Fontana (voll. I-III, Venezia, Marsilio, 1996-2012) − non pochi lavori fra cui, nato originariamente quale introduzione a una raccolta di studi storici e letterari del senatore vicentino, il saggio, a cui mi permetto qui di rinviare, Una Clio domestica e nazionale. Fedele Lampertico e la storiografia delle piccole patrie nel “nation building” italiano dell’Ottocento, Dueville, Agorà&Factory, 2006.
[18] Fedele Lampertico, Sulle conseguenze che si possono presagire pel commercio in generale e pel commercio veneto in particolare dall’apertura di un canale marittimo attraverso l’Istmo di Suez, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Serie III, vol. 4, 1859, pp. 679-708 e 713-922).
[19] Entrambi i brevi testi nieviani delle due prove in Verbali, cit. (ASUP, Facoltà Politico-Legale, Laureati dal 1847-48 al 1864-65; Fasc. 794-804) e poi in Giuseppe Solitro, Ippolito Nievo, Padova, Tipografia del Seminario, 1936, pp. 174-181.
[20] Tesi che Ippolito Nievo si propone difendere nella sua pubblica promozione al grado di Dottore in Ambe le Leggi nella Imp. Regia Università di Padova, [22] Novembre 1855, Padova, Dalla Tipografia Bianchi 1855, p. 5.
[21] Cesare De Michelis, Introduzione a I. Nievo, Le confessioni di un italiano, a cura di Sergio Romagnoli, Venezia, Marsilio, 2000, p. XIX.
[22] Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all’indomani del 1848, Milano, Franco Angeli, 2004 (ed. or. 1958).
[23] Arianna Arisi Rota, I piccoli cospiratori. Politica ed emozioni nei primi mazziniani, Bologna, il Mulino, 2010.
[24] Con l’eccezione di Carboni, che era nato nel 1817 e che, rimpatriato dall’Australia dov’era approdato dopo la difesa di Roma nel 1849, fu l’ultimo dei garibaldini a parlare in Palermo, a bordo dell’“Ercole” il 4 marzo del 1861, con Ippolito Nievo prima che questi annegasse inghiottito dai flutti nell’infausto naufragio della nave, si tratta di personaggi sui quali, tolto in parte Silvino Olivieri, non potrò intrattenermi in questa sede benché le loro biografie nel decennio 1850-1860 (ed oltre) gettino luce su un intero contesto “emigratorio” risorgimentale proprio di quegli anni -ed anche, se non soprattutto, precedente- a cui di recente ha fatto ampio e dettagliato riferimento Matteo Sanfilippo nella sua relazione su L’emigrazione negli scritti di Ippolito Nievo agli atti, in corso di stampa, del convegno Ippolito Nievo et le Risorgimento émancipateur (150e anniversaire de l’unité d’Italie 1861-2011). Colloque international historique et littéraire – 23-24-25 juin 2011, Nancy, Université Nancy 2, attraverso l’esame di tutti i passi delle Confessioni di un italiano dove l’esilio e il trasferimento all’estero di patrioti e di altri personaggi fanno la loro comparsa precedendo quelli “americani”, ben più ampi, pure presenti nell’ultimo capitolo del romanzo di cui si dirà più avanti.
[25] Secondo la definizione del medico/storico Albany Rezzaghi; cfr., assieme all’introduzione del curatore, pp. 13-62, il recente volume Dopo Belfiore. Le Memorie di Attilio Mori e monsignor Luigi Martini (edizione di Albany Rezzaghi e altri documenti inediti, a cura di Costantino Cipolla, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 65.
[26] La ricostruzione più ampia, dettagliata e recente delle vicende mantovane sta in due volumi ancora di (e a cura di) Costantino Cipolla: Belfiore. I. I Comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto (1852-1853 e il loro processo a Mantova del 1852-1853 e Belfiore. II. Costituti, documenti tradotti dal tedesco ed altri materiali inediti del processo ai Comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto (1852-1853), Milano, Franco Angeli, 2006.
[27] Giuseppe Solitro, Dopo Belfiore. La laurea di Luigi Castellazzo, “Rassegna storica del Risorgimento”, 23, 4 (1936), pp. 455-464 (la riproduzione integrale del testo della prova a pp. 461-462).
[28] C. Cipolla, Dopo Belfiore, cit., pp. 32-38.
[29] Sugli anni trascorsi a Padova da Nievo come studente cfr. in particolare G. Solitro, Ippolito Nievo, cit. pp. 85-143 e 157-188, ma si vedano anche per l’ambiente studentesco locale nel Risorgimento David Laven, Liberals or libertines? Staff, students and government policy at the University of Padua, 1814-1835, in History of University, XI, a cura di Laurence Brockliss, Oxford University Press, 1992, vol. IX, pp. 123-164; D. Zotto, Studenti a Padova. Vita universitaria e rapporti con la città, Tesi di Laurea, Dipartimento di Studi Storici, Università Ca’ Foscari, Venezia, a.a. 1996-97, rel. Piero Brunello; Piero Del Negro, La partecipazione degli studenti dell’Università di Padova alla rivoluzione e alla guerra del 1848-49, in Universitari italiani nel Risorgimento, a cura di Luigi Pepe, Bologna, Clueb, 2002, pp. 109-137; Giampietro Berti, Gli studenti durante il Risorgimento, in Gli studenti nella storia dell’Università di Padova. Cinque conferenze, a cura di Francesco Piovan, Padova, Università degli studi, 2002, pp. 53-64 e soprattutto Id., L’Università di Padova dal 1814, cit., pp. 372-454.
[30] Cfr. Ippolito Nievo, Scritti giornalistici, a cura di Ugo Maria Olivieri, Palermo, Sellerio, 1996, pp. 43-52 e Ermanno Paccagnini, Letteratura e cultura a Brescia tra Otto e Novecento, in Istituzione letteraria e drammaturgia: Mario Apollonio (1901-1971), i giorni e le opere, a cura di Carlo Annoni, Milano, Vita e pensiero, 2003, pp. 119-120.
[31] I. Nievo, Scritti giornalistici, cit., pp. 55-97.
[32] Maurizio Bertolotti, Le complicazioni della vita: storie del Risorgimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 161-168.
[33] Vale la pena di richiamare, en passant, questa particolarità, peraltro abbastanza nota, di un Nievo “seriamente interessato alla condizione contadina (ma continentale e settentrionale, lombardo-veneto-friulana) e alla promozione civile del mondo rurale” che solo nel corso dell’Impresa dei Mille si sarebbe dovuto misurare, ad esempio, con “la radicalità delle richieste dei contadini siciliani” (Marcella Gorra, Introduzione a Tutte le opere di Ippolito Nievo, a cura di Ead., VI, Lettere, Milano, Mondadori, 1981, pp. XLIII-XLIV) così diverse in effetti da quelle dei veneti per lo più tenuti a bada nelle campagne dal clero cattolico (non necessariamente austriacante, cfr. Letterio Briguglio, Correnti politiche nel Veneto dopo Villafranca (1859-1866), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1965, pp. 81-82), magari in ossequio a vedute assai scettiche sulle possibilità, in generale, di emancipazione degli agricoltori (anche se modesti possidenti) su cui nella Padova degli anni 1850-1860 circolavano idee abbastanza conformi, un po’ dappertutto e negli stessi ambienti meno reazionari, tanto che si ritrovavano sovente fra le pagine di molta narrativa borghese moraleggiante di quel tempo. Per un esempio che Nievo potrebbe aver conosciuto o letto nei mesi in cui attendeva fra esami normali e “rigorosi” alla conclusione dei propri studi, ma soprattutto per la sua trama imperniata sul tentativo (fallito) di ascesa sociale, del protagonista, il figlio di piccolo proprietario veneto, tramite l’iscrizione all’Università patavina si veda, nella “pubblicazione annuale” della “Società d’incoraggiamento nella provincia di Padova” (destinata più tardi a trasformarsi nella prima serie del celebre “Giornale degli Economisti”), l’eloquente prosa “educativa” d’autore anonimo intitolata Il racconto del Paroco, “Il Raccoglitore”, IV (1855), pp. 129-181.
[34] Su cui cfr. almeno Ippolito Nievo, Due scritti politici,a cura di Marcella Gorra, Padova, Liviana Editrice, 1981, pp. 1-30 e 63-86; Franco Della Peruta, Nievo “politico” e la questione contadina, in Ippolito Nievo e il Mantovano, a cura di Gabriele Grimaldi, Venezia, Marsilio, 2001, pp. 361-406.
[35] Iginio De Luca, Ippolito Nievo collaboratore della “Rivista veneta” di Venezia e della “Rivista euganea” di Padova, “Atti e memorie della Accademia patavina di scienze lettere ed arti”, LXXVII (1964-1965), p. 85-183.
[36] Marcella Gorra, Per una “rivoluzione nazionale”, in Ead., Nievo e Venezia, Venezia, Comune di Venezia, 1981, p. 102. Le responsive di Nievo al bellunese Saverio Scolari (1831-1893), suo compagno d’Università laureatosi anch’egli nel 1856, ruotando in quell’anno attorno alla collaborazione con la “Rivista Veneta”, videro poi la luce, primo esempio di edizione di lettere nieviane, a cura del destinatario in un opuscolo per nozze Praga-Parenzo sub Saverio Scolari, Otto lettere di IppolitoNievo, Pisa, Nistri 1891 (cfr. la ripresa integrale e annotata da Marcella Gorra del piccolo epistolario in Nievo, Tutte le opere, VI, Lettere, cit., ad nomen).
[37] Un altro intellettuale di estrazione quarantottesca anche per altri versi assai noto (cfr. la recente tesi di dottorato in Storia dell’Italia contemporanea di Federica Cianfriglia, Paolo Mantegazza “poligamo di molte scienze” (1831-1910): animazione e organizzazione culturale, divulgazione scientifica e attività politico istituzionale nell’Italia postunitaria, Università Roma 3, tutor Carlo Felice Casula, aa. 2006-2007) il quale s’interessò a metà degli anni 1850 d’emigrazione e d’insediamenti agricoli in Argentina dove giovanissimo si era recato di persona intrecciandovi indicative relazioni, elaborando progetti e stipulando eloquenti contratti “coloniali” (cfr. Monica Boni, L’erotico senatore. Vita e studi di Paolo Mantegazza, Genova, Name, 2002) per poi adombrare le proprie esperienze di allora, compresa l’amicizia stretta a Buenos Aires con Lucio Mansilla (il nipote di Rosas, famoso autore di Una excursión a los indios ranqueles), già fra il 1867 e il 1868 in articoli divulgati dalla “Nuova Antologia”e in popolari libri di viaggio (come Rio de la Plata e Tenerife), ma soprattutto in un romanzo, Il Dio ignoto, in larga parte giocato sugli indios della Pampa da lui conosciuti o incrociati e uscito senza particolare risonanza in Italia nel 1876 (cfr. Emilio Franzina, Dall’Arcadia in America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia (1850-1940), Torino, Edizioni della Fondazione G. Agnelli, 1996, pp. 66-67 e Francesco Surdich, Gli indigeni dell’America meridionale nel resoconto dei viaggi di Paolo Mantegazza, in Gli indiani d’America e l’Italia, a cura di Fedora Giordano, III, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 75-87, e Sandra Puccini, I viaggi di Paolo Mantegazza. Tra divulgazione, letteratura e antropologia, in Paolo Mantegazza e l’evoluzionismo in Italia, a cura di Cosimo Chiarelli e Walter Pasini, Firenze, Firenze University Press 2010, pp. 53-78). Antonio Maria Gemma invece, più o meno nello stesso torno di tempo, pubblicava a Padova uno studio espressamente dedicato alla Fisiologia ed igiene del contadino di Lombardia e del Veneto (Padova, Tip. Sacchetto, 1874).
[38] L’espressione, contenuta in una lettera di Nievo ad Attilio Magri (da Colloredo il 14 ottobre 1854, in I. Nievo, Tutte le opere, VI, Lettere, cit., p. 303) è stata opportunamente messa in rilievo da Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo, Macerata, Quodlibet, 2009, p. 17.
[39] Piero Brunello, Ribelli, questuanti e banditi. Proteste contadine in Veneto e in Friuli, 1814-1866, Verona, Cierre edizioni, 2011 (ed. or., Venezia, Marsilio,1981).
[40] E intrecciato peraltro con le forme abituali degli spostamenti dalla montagna o interne all’Impero asburgico già da ben prima del 1860 allorché l’emigrazione, “sia propria che temporanea, si accentuò” e cominciò ad assumere “qua e là forma e importanza di fenomeno di massa” (Manlio Fracca, La forza di espansione della popolazione veneta, “Quaderno mensile [dell’Istituto Federale di Credito per il Risorgimento delle Venezie]”, II, 3, 1924, p. 19).
[41] Sulla discreta modernità e sulle caute aperture, tolta la statistica, dei programmi di studio in vigore nella Facoltà legale patavina cfr. Alessandra Magro, La parificazione dell’Università di Padova dopo l’Unità (1866) e la sua facoltà di Giurisprudenza (1866-1880), “Annali di storia delle Università italiane”, 3 (1999), pp. 143-168.
[42] A. Patat, Patria e psiche, cit., pp. 20-21.
[43] Tra le letture giovanili di Nievo non mancano, com’è noto, quelle di autori come James Fenimore Cooper, l’autore de L’ultimo dei Mohicani – richiamato ad esempio nel passo di una lettera sua ad Arnaldo Fusinato da Palestrina, il 23 luglio 1854 febbraio dove il mittente riferisce d’essere ospite nell’isola lagunare di un vecchio marinaio “ che coi suoi lunghi racconti mi torna a mente tutte le semplici bellezze e le ineffabili noie dei romanzi di Cooper” (I. Nievo, Opere, cit., p.1102). In un suo saggio in corso di stampa (Garibaldi e Cortes. Seconda nota sugli scritti garibaldini di Ippolito Nievo), Maurizio Bertolotti, che ringrazio per avermelo fatto leggere in anteprima, ipotizza con argomentazioni tanto suggestive quanto plausibili che Nievo avesse conosciuto, ispirandosi poi alle loro descrizioni, anche le opere sulla “Conquista” e sulla colonizzazione delle Americhe di Guillame Raynal e di William Prescott o direttamente o attraverso citazioni dell’VIII libro della Storia Universale di Cesare Cantù.
[44] È noto, ad esempio, che alla lettura di Alexander von Humboldt, il grande naturalista ed esploratore tedesco che aveva visitato e poi ritratto tante parti di un’America del Sud ai primi dell’Ottocento ancora sconosciute, Nievo si accostò più volte recensendo anche, nel 1858 su “L’Uomo di Pietra”, i primi tre volumi in francese di Cosmos, il grande “saggio di una descrizione fisica del mondo” già comparso in lingua originale a Stoccarda a partire dal 1845 e tradotto in italiano fra il 1850 e il 1851 da Vincenzo degli Uberti a Napoli presso Del Vaglio. Un’altra traduzione italiana dell’opera completa sarebbe seguita a cura di Giulio Gallini e Vincenzo Lazai a Venezia, da Grimaldo, nel 1860, ma da tali particolari ciò che più importa ricavare sembra essere il fatto che Nievo per molti temi si documentasse con ogni probabilità attingendo di preferenza a fonti straniere come ad esempio la prestigiosa “Revue des deux Mondes”.
[45] Nella stragrande maggioranza dei casi gli indiani in questione sono però solo quelli del Nord America, i “pellirosse”: cfr. Gilberto Scuderi, Indiani d’America sulle riviste milanesi della Restaurazione e del Risorgimento, “Archivio Trimestrale”, 9, 1 (1983), pp. 159-174: Fedora Giordano, Italian Images of the American Indians, in Native American Literature, a cura di Laura Coltelli, Pisa, Seu, 1989, pp. 197-210; Daniele Fiorentino, Viaggiatori italiani e indiani d’America, in The American West. L’arte della frontiera americana, 1830-1980, Venezia, Marsilio, 1993, pp. 87-95; Naila Clerici, I “selvaggi d’America” sui giornali italiani dell’Ottocento, Gli indiani d’America e l’Italia, a cura di Fedora Giordano, I, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1997, pp. 103-111; Matteo Sanfilippo, “Figurinelle”: variazioni italiane sugli indiani nordamericani (1497-1997), “Miscellanea di storia delle esplorazioni”, XXVI (2001), pp. 101-124.
[46] Su cui si è soffermato necessariamente in forma stringata A. Patat in Patria e psiche, cit., pp. 16-25 e in alcuni convegni recenti a Padova e a São Paulo (nel quale ultimo – “Os 150 anos da unificação italiana e as questões da identidade no Brasil e na Itália”, FFLCH-USP 8-11 de novembro de 2011 – abbiamo avuto l’opportunità di discuterne ampiamente assieme come risulterà, se saranno pubblicati, dagli atti della giornata conclusiva dei lavori).
[47] Tema comunque vasto ed esposto a letture ora mitizzanti ed ora colpevolizzanti, ma poco studiato nella sua fase finale tra l’inizio e la metà dell’Ottocento, cfr. Synesio Sampaio Goes Filho, Navegantes, bandeirantes, diplomatas. Un ensajo sobre a formação das fronteiras do Brasil, São Paulo, Martins Fontes, 2011, pp. 89-128.
[48] Salvatore Candido, Appunti sull’apporto italiano alla storia delle emigrazioni politiche dall’Italia ai paesi iberoamericani durante il Risorgimento, in L’apporto italiano alla tradizione degli studi ispanici, Roma, Istituto Cervantes, 1993, pp. 187-202.
[49] Specialmente per l’età del Risorgimento a cui avevo riservato sin dal 1995 molte pagine (87-140) del mio Gli italiani al nuovo mondo, cit., dov’erano appena accennate le già indicative e prefiguranti parabole degli ex ufficiali napoleonici alla Codazzi (su cui, per l’America meridionale, s’intrattiene ora in prospettiva ampliata l’opera di Walter Bruyère-Ostells, La Grande Armée de la Liberté, Paris, Tallandier, 2009, pp. 39-76), ma dove non avevo potuto d’altro canto soffermarmi più a lungo, come avrei fatto in seguito e tuttora sto facendo, sulla dimensione politica e militare del profugato politico italiano venuto in contatto, al cono sud, da un lato con le impostazioni ideali, le culture e le strategie dei maggiori leader liberaleggianti creoli e da un altro, in modo conseguentemente più marziale, con le stesse popolazioni indigene del subcontinente (cfr. Aldo Albonico, Tra padri della patria italiana e “próceres” locali: l’ambigua complessità dell’America Latina, “Il Risorgimento”, 47, 1-2 (1995), pp. 400-436).
[50] Mario Vargas Llosa, La verità delle menzogne, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 8-9.
[51] L’ultima volta in una intervista concessa a Sebastiano Triulzi: L’incontro / Indignados: Eduardo Galeano, “La Repubblica”, 29 gennaio 2012.
[52] Anche perché intenzionato, da vero emigrante “economico”, a cercare nell’America un mezzo da accumulare alle spicce una piccola fortuna e ridursi poi a viver d’essa o a Genova o a Nizza o in qualche altra città del Piemonte” (I. Nievo, Opere, cit. p. 869).
[53] Cfr. E. Franzina, Dall’Arcadia in America, cit., pp. 42-45.
[54] Cfr. Alessandro Baragona, Gaetano Osculati: immagini degli indios dell’America meridionale, “Miscellanea di storia delle esplorazioni”, VI (1981), pp. 95-101. Anche di altri testi comparsi dopo il 1850 Nievo avrebbe potuto, in teoria, avere notizia come ad esempio, sempre nell’anno della sua laurea, delle Memorie postume del Cav. Costante Ferrari Capitano delle Guardie Reali del Regno Italico, Tenente Colonnello nelle Americhe e Colonnello effettivo in Italia, Rocca San Casciano, Tip. Federigo Cappelli 1855, ma è altamente improbabile che ciò sia accaduto anche se vale la pena di rilevare, di sfuggita, come incontri/scontri con tribù indiane riferite al 1820/21 e di qualche interesse figurino già qui (a pp. 451-452), nell’opera autobiografica di questo ex ufficiale napoleonico e patriota liberale (Reggio Emilia 1785 – Massa Lombarda 1851) finito per alcuni anni con Agostino Codazzi, suo intimo amico, in America centrale al servizio della Repubblica del Venezuela e del libertador Simon Bolívar.
[55] Roberta Marx Delson, Novas Vilas para o Brasil: planejamento espacial e social no seculo XVIII, Brasilia, Alva Ciord, 1997, pp. 31-36, e Marcelo Almeida Oliveira, Regularidade e civilidade nas vilas e nas civades luso-brasileiras: uma contribuição ao estudo dos espaços públicos, “População e sociedade”, 11 (2011), pp. 64-65.
[56] Per il Mato Grosso, teatro nel romanzo delle prime avventure sudamericane di Giulio Altoviti e (anche nella realtà dei fatti) di molti episodi costellati da abbozzi di colonizzazione e di minerazione, di elementi d’evangelizzazione politica “missionaria”, di scontri sanguinosi con gli indios “selvaggi” (Bororo Coroado e Paresìs si potrebbe azzardare) ecc. si possono trovare intanto dei riscontri abbastanza puntuali nella più recente storiografia indigenista brasiliana. Cfr. ad es. Odemar Leotti, A Encruzilhada dos Sentidos. Política Indigenista em Mato Grosso (1831-1845), “Coletâneas do nosso tempo”, 7 (2008), pp. 82-83; Marli Auxiliadora de Almeida, Os Bororo Coroado e a política indigenista na Província de Mato Grosso (1845-1887), in O lugar do Índios na História, Actas do XVII Encontro Regional de História, Campinas SP 2004, a cura di John Manuel Monteiro, http://www.anpuhsp.org.br/sp/downloads/CD%20XVII/ST%20XXVI/Marli%20Auxiliadora%20de%20Almeida.pdf, e A “pacificação” dos Bororo Coroado na Província de Mato Grosso. Guerra e alianças (1845-1887), in Actas de XXIII Simpósio Nacional de História, Londrina PR 2005, http://www.ifch.unicamp.br/ihb/Textos/MAAlmeida.pdf; Chiara Vangelista, Os Bororo do Rio São Lourenço: analise territoriale e sazonalduma guerra de fronteira étnica (1817-1886), in Actas de XI Congreso Internacional de AHILA, a cura di John R. Fisher, Liverpool, The Institute of Latin American Studies – University of Liverpool, 1998, pp. 301-315, e Politica tribale. Storia dei Bororo del Mato Grosso, Brasile, I, L’invasione (sec. XVIII-XIX), Torino, Il Segnalibro Editore, 2008, pp. 97-159.
[57] Beatriz Curia , Ippolito Nievo y un malón en el Mato Grosso, “Hispanista – Primera Revista Electronica de los Hispanistas de Brasil”, V, 19 (2004), http:// www.hispanista.com.br/revista/artigo 180.htm.
[58] Piero Brunello, Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Roma, Donzelli Editore, 1994, pp. 66-68.
[59] Anche se con alcune anticipazioni di rilievo registrate proprio nel Mato Grosso di fine Ottocento su cui cfr. Chiara Vangelista, Colonias militares y misiones católicas en Mato Grosso (siglos XIX-XX): dos estrategias politicas y culturales para la consolidación de una frontera nacional, in Lo que duele es el olvido. Recuperando la memoria de Anérica Latina. VI Encuentro-Debate América Latina ayer y hoi, a cura di Pilar García Jordán e al., Barcelona, Publicacions de la Universitat de Barcelona, 1998, pp. 245-256.
[60] P. Brunello, Pionieri, cit., p. 67.
[61] Pisacane lamentava l’amara sorte possibile per tanti uomini che avevano “consacrato la loro vita alla bella patria […] nell’esilio, sul campo di battaglia e dinanzi al giudice” e che in virtù della deportazione oltreoceano sarebbero stati sbalzati ad un tratto distante “otto mila miglia, agli antipodi dell’Italia, in una terra dove troveranno tutto in opposizione coi costumi, col linguaggio, colle abitudini e perfino colle stagioni della loro patria. Si lusingavano di morire combattendo l’austriaco e lo svizzero [sc. i soldati pontifici] , nemici del loro paese, e saranno condannati a contendere al povero gaucho il suolo natio.” (Carlo Pisacane, Gli italiani deportandi in America. Genova, 20 marzo 1857, in Id., Scritti varii, inediti o rari, a cura di Aldo. Romano, III, Milano, EdizioniAvanti, 1964, p. 344).
[62] Emilio Franzina, Introduzione a Alessandra Vannucci, Un baritono ai Tropici. Diario di Giuseppe Banfi dal Paraná,1858, Reggio Emilia, Diabasis, 2008, pp. 11-23.
[63] Su cui esiste ovviamente un’assai vasta letteratura inaugurata in certo modo, nel 1914, da Juan Álvarez (autore de Las guerras civiles argentinas y el problema de Buenos Aires en la República, riedito con un Estudio preliminar di Roberto Cortés Conde, Buenos Aires, Taurus, 2001, pp. 145-217) per la quale cfr. almeno James R. Scobie, La lucha por la consolidación de la nacionalidad argentina, 1852-1862, Buenos Aires, Hachette, 1965, Tulio Halperin Donghi, Revolución y guerra. Formación de una elite dirigente en la Argentina criolla, Buenos Aires, Siglo XXI, 1972 e i documenti raccolti ora da Gustavo L. Paz, Las guerras civiles (1820-1870), Buenos Aires, Eudeba, 2007, pp. 251-365. Per la posizione occupata dagli esuli e dagli immigrati italiani in tutte le fasi delle guerre civili platensi e particolarmente fra il 1856 e il 1862 rimane ancora imprescindibile e per di più di affascinante lettura il nono capitolo di Niccolò Cuneo, Storia dell’emigrazione italiana in Argentina, 1810-1870, Milano Garzanti, 1940, pp. 242-266.
[64] Pier Luigi Crovetto, Tracce dei risorgimentali italiani nel pensiero dei giovani liberali della generazione del ’37, in Il Risorgimento italiano in America Latina. Atti del Convegno internazionale. Genova 24-26 Novembre 2005, Ancona, affinità elettive, 2006, pp. 161-172.
[65] Eduardo Scheidt, A “Nação Mazziniana” chega à Região Platina: jornalistas italianos e os debates no Prata em meados do século XIX, “Revista de História”, 156 (2007), pp. 227-259.
[66] José Carlos Chiaramonte, La formazione degli Stati nazionali in Iberoamerica, “900”, 4 (2001), pp. 77-82, e El Resurgimiento en el Rio de la Plata y el problema de la unidad nacional, in Il Risorgimento italiano in America Latina, cit., pp. 173-182.
[67] Historia general de las relaciones exteriores de la República Argentina, a cura di Carlos Escudé e Andrés Cisneros, IV, Juan Manuel De Rosas y sus conflictos con estrado provinciales y extranjeros, Buenos Aires, Grupo Editor Latinoamericano, 1998, pp. 229-247.
[68] Meinrado Hux, Caciques Pampa-Ranqueles, Buenos Aires, El Elefante Blanco, 2003, pp. 142-145; ma per la lunga storia precedente dei rapporti fra gli indios e la lotta politica in età coloniale cfr. Abelardo Levaggi, Paz en la frontera. Historia de las relaciones diplomáticas con las comunidades indígenas en la Argentina (Siglos XVI-XIX), Buenos Aires, Universidad del Museo Social Argentino, 2000 e più in particolare per il periodo rosista Jorge Oscar Sulé, Rosas y sus relaciones con los indios, Buenos Aires, Ediciones Corregidor, 2007.
[69] Miguel Angel De Marco, Los italianos en las luchas por la organización nacional argentina, “Affari sociali internazionali”, 15, 2 (1987), pp. 75-92 e più in generale Antonio Serrano, Origen y formación del pueblo argentino, Paraná, Editorial Entre Rios, 2005, pp. 89-99.
[70] Una ricostruzione molto accurata della figura e dell’impegno politico e militare dell’Olivieri, è ora in A. Bistarelli, Gli esuli del Risorgimento, cit., pp. 236-240.
[71] Prefazione a Gaetano Bernardi, Un patriota italiano nella Repubblica Argentina (Silvino Olivieri), nuova edizione a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1946, pp. 5-9 (ed. or. Napoli, Stamperia e cartiere del Fibreno, 1861).
[72] Su Calfucurà cfr. almeno Luis Franco, Los grandes caciques de la Pampa, Buenos Aires, Ediciones del Candil, 1967, pp. 47-68 e Carlos Martínez Sarasola, Nuestros paisanos los Indios. Vida, historia y destino de las comunidades indígenas en la Argentina, Buenos Aires, Enecé Editores, 2000, pp. 221-274. In via generale cfr. altresì Raúl J. Mandrini, La Argentina aborigen: de los primeros pobladores a 1910, Buenos Aires, Siglo XXI, 2008.
[73] Ricorrenti, negli articoli del nuovo foglio mazziniano, erano le recriminazioni per “i danni causati dagli indii contro le proprietà private, e le persone di que’ dintorni” che apparivano tutti “di grave importanza” e causa prima della mancanza di una vera “pace” che, lamentava Cuneo, “non può essere durevole per la nota perfidia dei selvaggi, e che d’altronde non può essere accettata dal governo di Buenos Aires, che deve ad ogni costo adoperarsi onde togliersi dinanzi questa perpetua minaccia delle invasioni, che tanti danni arrecano agli stabilimenti rurali, alle vite dagli abitanti di quella parte della campagna e allo spirito d’intrapresa” (cfr. “La Legione Agricola”, 3, 26 febbraio 1856, p. 4).
[74] Cfr. Stefano Recchia e Nadia Urbinati, Giuseppe Mazzini’s International Political Thought, in A Cosmopolitanism of Nations: Giuseppe Mazzinis’ Writings on Democracy, Nation Building and International Relations, a cura di Idd., Princeton, Princeton University Press, 2009, pp. VII-XXIX.
[75] Cfr. Eduardo Scheidt, Carbonários no Rio da Prata: jornalistas italianos e a circulação de idéias na Região platina (1827-1860), Rio de Janeiro, Scriptum, 2008 e Jorge Myers, Giuseppe Mazzini and the Emergence of Liberal Nationalism in the River Plate and LatinAmerica, in Giuseppe Mazzini and the Globalisation of Denocratic Nationalism, 1830-1920, a cura di C. A. Bayly ed E.F. Biagini, Oxford-New York, Oxford University Press, 2008, pp. 323-346.
[76] Vittore Briani, La stampa italiana all’estero dalle origini ai nostri giorni, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1977, p. 21.
[77] Emilio Franzina e Matteo Sanfilippo, Garibaldi, i Garibaldi, i garibaldini e l’emigrazione, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 4, 1 (2008), pp. 23-52.
[78] Sulle cui “rosee” prospettive già rimbalzavano in Europa echi e notizie trasmesse da alcuni viaggiatori come William MacCann, Two Thousand Mile’s Ride Through the Argentine Provinces, London, Smit Elder, 1853, I, pp. 227-228.
[79] Emilio Franzina, L’immaginario degli emigranti. Miti e raffigurazioni dell’esperienza italiana all’estero fra due secoli, Paese, Pagus Edizioni, 1992, pp. 139-141.
[80] Come avvenne, dopo l’uccisione di Olivieri, proprio a Bahia Blanca dove il 19 maggio del 1859 un imponente attacco portato, come già nel 1852, da migliaia di indiani guidati ancora una volta da Calfucurà venne respinto vittoriosamente dai legionari italiani rimastivi agli ordini dell’ex garibaldino sardo Antonio Susini Millelire (futuro console d’Argentina in Italia) e dai suoi ufficiali dal pedigree chiaramente risorgimentale Rodino, Ciarlone e Caronti (destinato, questi, a diventare negli anni successivi l’ideatore dei principali piani di sviluppo urbanistico e portuale della città). Nel sanguinoso combattimento persero la vita circa 200 indiani e solo tre “bianchi”, anche se nelle file italo argentine numerosi furono i feriti: “La battaglia di Bahia Blanca – è stato opportunamente sottolineato da Ludovico Incisa di Camerana (L’Argentina, gli italiani, l’Italia. Un altro destino, Milano, Ispi-SPAI 1998, p. 148) – [fu] un fatto d’armi più serio di tante scaramucce della conquista del West, l’unica battaglia italiana o quasi italiana contro gli indios, [ma] non è mai entrata nella storia grande o piccola”.
[81] David Viñas, Indios, ejército y frontera, Buenos Aires, Santiago Arcos Editor 2003 (ed. or. Mexico, Siglo XXI Editores, 1982), p. 109.
[82] Cesare Marino, Dal Piave al Little Bighorn. La straordinaria storia del conte Carlo Camillo Di Rudio, Belluno, Tarantola Alessandro Editore, 1996 (Di Rudio, sia detto en passant, era nato nel 1832 in una famiglia della piccola nobiltà bellunese di saldi sentimenti patriottici e liberali tanto che suo padre Ercole Placido e sua sorella Luigia furono coinvolti nella cospirazione mazziniana stroncata nel 1851 a Mantova dove essi furono anche processati e imprigionati dagli austriaci).
[83] Patrice Vermeren, Le rêve démocratique de la philosophie d’une rive à l’autre de l’Atlantique, suivi de Essai de philosophie populaire, par Amédée Jacques, postface de Arturo Andres Roig, Paris, L’Harmattan, 2001.
[84] Giuliano Gaeta, Giornalismo e Risorgimento italiano, in Atti del XXXI Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Mantova, 21-25 settembre !952, Roma, Vittoriano, 1956, pp. 105-106.
[85] In una lettura “fatta nella sala delle conferenze all’Esposizione generale italiana di Torino” il 2 novembre del 1884, ma basata sui viaggi da lui compiuti nel Mato Grosso quindici anni prima, Alessandro Palma di Cesnola (fratello del più celebre Luigi, patriota risorgimentale emigrato negli Stati Uniti dopo il 1860, battutosi con i nordisti nella guerra di secessione, generale della riserva e più tardi, per meriti archeologici, direttore del Metropolitan Museum di New York) osservava che delle terre assegnate agli emigranti in Brasile “i veri proprietari sono i selvaggi detti Indiani” (Viaggio nelle terre vergini dell’America meridionale ossia l’emigrazione italiana in quelle contrade, Torino, G. Derossi, 1884, cit. in P. Brunello, Pionieri, cit., p. 68).