Tra il 1955 e il 1969 l’Italia fu protagonista di un ciclo di sviluppo economico, sociale e culturale che ne trasformò il volto rurale sino ad inserirla nel novero dei Paesi industrializzati[1]. Quello che Stefano Musso ha definito il “lungo miracolo economico”[2] prese avvio sulla base delle scelte operate durante la ricostruzione postbellica, al termine della quale si diedero le condizioni necessarie perché l’economia italiana decollasse. Sebbene il “boom” sia identificato con gli anni tra il 1959 e il 1963, è opportuno tenere in considerazione un arco temporale più ampio, sia per tendenze sociali – le migrazioni interne, il conflitto di classe, l’evoluzione dei costumi – che per caratteristiche intrinseche a quel modello di sviluppo – la sostanziale assenza di una programmazione – che si ravvisarono prima e che continuarono oltre quel quinquennio. È condivisibile perciò la tesi per cui i primi segnali di una ripresa dei conflitti sociali nel tornante 1962-1963 furono la conseguenza delle scelte del decennio precedente ma anche una semina i cui frutti sarebbero stati raccolti a partire dall’“autunno caldo”. Parimenti accettabile è la posizione di chi evidenzia che la questione irrisolta fu la discrepanza tra la necessità di programmare lo sviluppo e sanare le distorsioni che con esso stavano aggravandosi e quelle che da esso erano prodotte e l’incapacità delle classi dirigenti di svolgere tale compito. In questo senso, gli anni della “congiuntura” sono da considerarsi come un momento in cui rimasero latenti processi già manifestatisi in precedenza e che giunsero a compimento non appena l’economia riprese a crescere.
Mobilità geografiche e sociali, sviluppo industriale, espansione delle città, ampliamento della partecipazione collettiva e politica furono processi interconnessi intorno ai quali si auto-ingenerò un tentativo di integrazione nazionale imperniato sulla ricerca di un complesso di condizioni e ambizioni trasversali alle differenziazioni geografiche e di classe. Migrazioni interne e movimento operaio sono i research site privilegiati da questo studio della modernizzazione dell’Italia in età repubblicana, esaminati seguendo le indicazioni di studiosi come Gian Mario Bravo ed Aldo Agosti[3], ossia a partire da un’angolazione regionale ma come declinazione di processi nazionali di cui i fenomeni locali sono parte fondante e conseguenza. La scelta di focalizzarsi su uno scenario distrettuale è dettata dall’esigenza di identificare i fattori trainanti dei processi nazionali, attraverso lo studio di realtà, quantitativamente minoritarie ma qualitativamente sostanziali per la costituzione dello scenario “italiano” negli anni dell’assestamento degli equilibri dell’Italia repubblicana. Pur senza voler cedere alla fascinazione della Torino-laboratorio di gramsciana memoria, si è voluto scegliere la città piemontese poiché lì l’insieme di fattori che ha caratterizzato il “lungo miracolo economico” assunse una visibilità e una radicalità particolari, che l’hanno resa motore e vittima di quel modello di sviluppo – e che la rendono oggi un oggetto di studio di peculiare interesse. L’evolversi del volto della città da capoluogo di provincia verso la morfologia di una grande metropoli industriale saldata con il suo hinterland è il panorama in cui operarono immigrati e istituzioni, ossia i protagonisti di questo studio, e un protagonista in se stesso della ricerca. La concentrazione dell’analisi su una scala ridotta ha facilitato anche il tentativo di integrare il piano umano con il piano politico. Si è scelto cioè di procedere ad una storia delle istituzioni politiche a partire dal focus sociale delle mobilità umane, inserendosi in quel mosaico di studi che propongono una visione olistica delle migrazioni, ma sottolineando la peculiarità di ciascun fenomeno di spostamento. Epoche, distanze, destinazioni, cause occasionali e profonde, individualità o collettività degli spostamenti definiscono, a nostro avviso, la qualità dei processi migratori e anche l’interesse da essi rivestiti al momento di cercare la comprensione di più ampi processi di sviluppo nazionali ed internazionali. In questo ambito locale, si è deciso perciò di privilegiare dei macro-fenomeni per rispondere all’idea che la portata di un evento sia in parte indicativa del suo rilievo storiografico. Perciò non tutte le migrazioni verso Torino, ma la migrazione dei meridionali. E non le difficoltà di tutti i meridionali, ma in particolare di quelli che, pur costituendo in termini numerici un’“élite fortunata”, riuscirono ad integrarsi nel sistema della Fiat, andando a sedimentare gli stereotipi dell’immigrato che operò il salto dal mondo rurale alla catena di montaggio. La Fiat, infine, e in particolare gli stabilimenti di Mirafiori e di Rivalta, per il rilievo che essi ebbero nel panorama dell’economia e della politica italiana in termini strutturali, per il loro impatto sull’immaginario collettivo e per la potente forza di attrazione e di mitizzazione che finirono per rivestire.
La direttrice principale è l’ampliarsi della partecipazione sindacale, politica e sociale come un prodotto delle trasformazioni nella composizione della classe operaia, causate dallo spostamento di popolazione nel territorio nazionale. Sindacati e partiti di diversa ispirazione ideologica – nelle loro organizzazioni locali ma nel contesto dell’evoluzione teorica e strategica delle strutture nazionali – sono i protagonisti in un racconto in cui l’immigrato è complementare ed interno a quegli stessi soggetti. Ci si è proposti di capire quanto e come essi si interessarono al fenomeno dell’immigrazione, quali misure presero al riguardo e dunque quale fu il loro ruolo nel processo di integrazione. Parallelamente, ci si è chiesti in che misura l’arrivo di uomini nuovi abbia contribuito al risveglio operaio, quanto le organizzazioni guidarono la combattività di queste nuove masse dando loro una “educazione” politico-sindacale o che cosa cambiarono del proprio panorama rivendicativo in funzione delle loro esigenze. Il percorso che si vuol ricostruire è quello che ha condotto il movimento operaio della città e della fabbrica dalle rivendicazioni sulle condizioni di lavoro alle rivendicazioni sulla condizione di vita. Sindacati e partiti non furono sempre il motore del processo rivendicativo, ma, da quando iniziarono a percepire quali fossero i temi che realmente interessavano la vita operaia, furono in fabbrica e fuori un notevole elemento di integrazione. Cgil, Cisl, Uil, Acli, Pci, Psi e Psiup trovarono nel rapporto con immigrazione, fabbrica e città l’occasione per avvicinare posizioni inizialmente dicotomiche. In fabbrica, l’attenzione alle condizioni di lavoro e la valutazione del “neocapitalismo” oltre le tradizionali impostazioni ideologiche stemperarono la diffidenza iniziale delle più anziane generazioni operaie rispetto ai nuovi arrivati e le differenze tra tradizioni sindacali socialiste, comuniste e cattoliche. In città, la questione della casa funse da catalizzatore del malcontento sommerso e diede luogo a forme di autopromozione politica da parte della società civile, in stretto contatto con le organizzazioni tradizionalmente amministratrici della conflittualità sociale.
Tutto ciò ha condotto a definire una nuova periodizzazione in tre scansioni temporali, segnate ciascuna da una tornata elettorale. Dal 1955 il flusso immigratorio crebbe in proporzioni superiori a quanto non avesse mai fatto in precedenza, a ragione dell’accresciuta richiesta di manodopera da parte di un settore industriale in rapida ripresa. La sensibilità per il fenomeno, tuttavia, fu sino al 1958 alquanto blanda e solo con la campagna elettorale di quell’anno molte forze politiche iniziarono ad interessarsi alla questione. Il periodo 1959-1963 è il più denso di elementi da tenere in conto. “Boom economico”, centro-sinistra nazionale, abolizione delle leggi contro l’urbanesimo, centenario dell’Unità, impetuoso aumento dei flussi migratori, legge ponte sull’urbanistica, ripresa del movimento operaio, elezioni politiche: tutto ciò concorse all’aumento dell’attenzione da parte di sindacati e partiti per i fenomeni di trasformazione urbana e demografica di Torino e a rinvigorirne l’azione conoscitiva e politica lungo tali direttrici. L’ultima tappa comprende gli anni della “congiuntura”, la ripresa, la costruzione dei nuovi stabilimenti di Rivalta, l’edificazione di nuove aree di residenza popolare, la vertenza dei metalmeccanici del 1966, il movimento studentesco, il terremoto del Belice e infine l’“autunno caldo”, lasciato volutamente al margine come orizzonte ultimo di verifica del tragitto strategico e culturale del movimento operaio e del ruolo che in esso avrebbe avuto la componente immigratoria.
La volontà di questo studio è stata anche colmare una lacuna tanto della letteratura sulle migrazioni quanto di quelle di storia urbana e di storia politica. Benché si affermi spesso che l’attenzione sia stata in passato troppo concentrata sugli anni del boom, ci è sembrato invece che sia stato sopravvalutato il peso delle ricerche sui movimenti di popolazione negli anni dell’industrializzazione e che quegli studi non siano adeguati all’importanza del fenomeno. La migrazione interna è stata un’esperienza che ha riguardato tutta la collettività, ma non si è codificata un’“epopea” quale quella consolidatasi nella memoria collettiva intorno ai flussi internazionali e per quanto rimanga spesso affidata al tramandarsi individuale dei percorsi di mobilità nei singoli tracciati familiari. Gli studi che se ne sono occupati costituiscono un insieme dalla fisionomia autonoma, lontana da ricerche di taglio politico, sindacale od economico. Analogamente, le storie del sindacato hanno spesso assunto i toni di un racconto quasi autoreferenziale dello sviluppo di vicende di “resistenza” e di “ripresa”. Ne sono scaturiti studi poco integrati nel contesto delle analisi della società e che quasi mai hanno tenuto in conto il fenomeno migratorio come una variabile importante con cui valutare i mutamenti delle stesse istituzioni del movimento operaio[4].
Come tutti i lavori che si dedicano ad argomenti che han riguardato il percorso umano e civile di migliaia di persone, e che si coagulano nell’immaginario, anche all’atto di intraprendere questa ricerca il parallelismo con l’attualità è stato inevitabile. Pur volendo evitare i facili paragoni tra epoche e situazioni storiche incomparabili, varie sollecitazioni giungono dal presente per la ricerca di chiavi di lettura nella Torino del “miracolo economico”. Tra cui il tragitto nell’epoca post-industriale della città – e le valutazioni rispetto alle sue possibilità di ricoprire un ruolo internazionale con una vocazione diversa da quella taylorista; i processi di integrazione di immigrazione extracomunitaria – e la verifica del ripetersi di dinamiche simili al contatto tra realtà valoriali e sociali differenti; il persistere e l’accrescersi costante di flussi di mobilità interna dal Meridione verso il centro-Nord della penisola – e la necessità di soffermarsi ancora sul perdurante squilibrio del sistema peninsulare; l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro; l’espandersi continuo dei nostri sistemi urbani in un sostanziale vuoto programmatico; la crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni amministrative e politico-sociali – e la valutazione del ruolo che esse hanno avuto nel processo di integrazione nazionale e nell’indirizzo dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Per descrivere il panorama cittadino ci si è rivolti ad una produzione letteraria, frutto di decenni di studi provenienti da settori disciplinari differenti. La storiografia è arrivata ultima ad affrontare l’evoluzione di Torino, mutuando molte categorie ed analisi dalla sociologia, dall’urbanistica e dall’architettura. Parimenti dicasi per lo studio delle migrazioni interne, cui la storiografia italiana ha dedicato un’attenzione crescente solo in tempi recenti. Viceversa, moltissimo del panorama degli spostamenti e degli arrivi in città è ricostruibile dalle analisi sociologiche coeve – prodotto dello sgomento degli osservatori per fenomeni dei quali ancora non avevano chiavi di lettura valide e della necessità di dare un indirizzo agli sviluppi futuri – e da un filone di memorialistica e storia orale da cui emerge una descrizione vivida di quelle vicende, umanizzandole e permettendo all’osservatore odierno di percepirne tanto la drammaticità quanto la carica di entusiasmo che in esse si radicava. L’attenzione si è incentrata in primo luogo sul nesso tra ampliamento della struttura industriale e arrivo in città di nuova popolazione. Sebbene non ci si possa limitare a considerare un’espansione economica e demografica in funzione di una semplice catena causale, tuttavia risulta evidente il rapporto tra il rilancio della produzione e degli investimenti voluto dalla Fiat e la crescita dell’assetto industriale e urbano della città. Torino assistette a un’espansione “spontanea” nelle forme, ma non nelle cause, prodotto di precise scelte riconducibili ad una specifica direzione aziendale e alla sua predilezione per l’accentramento della produzione nel territorio torinese. Una forte componente di storia d’industria ha perciò caratterizzato parte della ricostruzione del quadro torinese. La prima diretta conseguenza di tale crescita – l’immigrazione appunto – è stata descritta tentando di fornirne una visione quantitativa e qualitativa. Da un lato, attraverso gli archivi comunali e gli studi coevi e non, si è tentato di definire quanto più precisamente possibile la mole e la composizione dei flussi immigratori. Dall’altro, attraverso testimonianze e letteratura, si sono descritte le caratteristiche principali dell’arrivo in città di nuova popolazione, gli ostacoli da essi incontrati e i settori che più furono interessati da tale impatto. Pregiudizi culturali; segregazione lavorativa, urbana e sociale; mobilità geografica e professionale orizzontale – parallela ad una scarsa mobilità ascendente; schemi di networking e perpetuarsi di modelli mutuati dalle società di partenza; inserimento nel mercato del lavoro ed impatto con la realtà di fabbrica; scarsa qualificazione professionale sono tutti temi che, in misura diversa, non è stato possibile non includere nella trattazione. In particolar modo, l’attenzione è stata dedicata alla crescita di nuove periferie, al degrado del centro storico, all’inserimento di aree residenziali e industriali in settori precedentemente destinati a verde, alla fusione dei territori del capoluogo e dei comuni dell’hinterland, al tentativo infruttuoso di pianificazione territoriale[5]. A ragione della pervasività del sistema impiantato dalla Fiat, Torino è stata spesso descritta come la “Detroit del Piemonte”. è opportuno moderare alcune delle descrizioni più monolitiche[6] e mantenere una prospettiva più lucida rispetto alla sua articolazione produttiva e sociale. Anche per quanto riguarda l’inserimento degli immigrati nel tessuto produttivo torinese, è opportuno non perdere di vista che il passaggio dalle zone rurali alla città non si rifletteva in uno slittamento dal settore primario all’occupazione industriale. Questo percorso, sebbene evocativo, interessò una quota minoritaria della nuova popolazione. Presa questa precauzione, non è fuori luogo osservare che Torino rimaneva una città industriale, in cui anche la mobilità sociale era regolata dai ritmi imposti dall’industria automobilistica. Le scelte della Fiat rispetto alla tipologia di personale da assumere e i caratteri dei flussi migratori ebbero un nesso di causa-effetto bidirezionale: le preferenze dell’industria automobilistica stimolarono un determinato tipo di lavoratore meridionale a cercare la via del Nord e la prevalenza di giovani adulti maschi, indotta dai modelli sociali e familiari del Sud, mise a disposizione della Fiat una manodopera già selezionata. Differenze generazionali e regionali causate dall’ingresso repentino e massiccio in fabbrica di questa manodopera meridionale ed agricola provocarono uno smottamento culturale e linguistico, ma le ragioni di frizione erano ridimensionate dalla collocazione nel processo produttivo nello scaglione più basso e dalle ridotte differenze retributive tra le varie categorie[7]. I pregiudizi esistevano in entrambe le direzioni, ma se il meridionale cercava di accantonare gli aspetti più negativi dell’immagine che aveva del Piemontese, poiché portatore di una maggiore propensione all’assimilazione, l’autoctono radicava la propria condotta sulla base di un complesso di più giudizi che solo lentamente l’evidenza riusciva a scuotere[8]. La fabbrica diventava il luogo di superamento di tutte quelle differenze che rimanevano invece insolute nel tessuto urbano[9].
Sindacati e partiti di differente matrice ideologica si interessarono al fenomeno migratorio e alle trasformazioni che esso induceva nelle fabbriche e nei quartieri. L’attenzione – e l’attività – crescente che essi dedicarono nel corso del decennio ai problemi scaturiti dall’arrivo di nuova popolazione li rese a tutti gli effetti dei potenti canali di integrazione in una società cittadina che rimaneva sostanzialmente ostile all’immigrazione. Pur partendo anch’essi, soprattutto nelle proprie strutture di base, da posizioni alquanto chiuse che inducevano una difficoltà di comprensione reciproca tra militanti provenienti da aree regionali diverse, quasi tutte le sigle sindacali e partitiche adeguarono il proprio panorama ermeneutico e la propria strategia d’azione alle esigenze che l’immigrazione sollecitava. Tutte si attivarono con un tempo di risposta lento, in cui il tema migratorio assunse prima una vocazione organizzativa, poi elettorale e solo in ultimo di contenuti. Il momento di svolta fu il 1962-1963. Da un lato, per l’esplosione quantitativa del fenomeno immigratorio e dall’altro per il ruolo che si ritenne avevano giocato gli immigrati nelle vicende di lotta del 1962. Dopo il ritorno degli operai Fiat allo sciopero e i cosiddetti “fatti di Piazza Statuto” del luglio di quell’anno, la difficoltà di comprendere chi ne fosse stato protagonista e che cosa fosse successo, il dubbio che si trattasse di un importante malcontento − radicato non solo nelle condizioni di lavoro ma soprattutto in quelle di vita − la certezza che il nodo della questione potesse essere l’apparire sulla scena di una nuova generazione della quale non s’era compreso il disagio e la mentalità indussero le forze politiche e sindacali ad interrogarsi sulle trasformazioni in città e in fabbrica. Un’attività che mostrò tutta la propria efficacia in occasione delle elezioni politiche del 1963, quando i partiti che più si erano occupati di temi connessi con l’immigrazione ottennero un numero di preferenze persino inaspettate. Una seconda tappa importante, che segnò un passaggio non solo nella storia sindacale ma anche nel rapporto tra sindacati e immigrazione, fu la vertenza contrattuale del 1966. L’accordo tra le tre centrali sulle forme della vertenza contrattuale, e l’anelito unitario che ne scaturì, fu il riflesso del ritrovato rapporto verticale tra base dei lavoratori e struttura dell’organizzazione. In tutte le organizzazioni sindacali cresceva la necessità di conoscere la classe sociale di riferimento e le trasformazioni delle loro caratteristiche socio-professionali. L’inchiesta operaia divenne un punto di incontro importante tra i sindacalisti torinesi, anche in relazione ai fermenti che venivano dalle aree dell’operaismo e sempre più dagli studenti. Unità sindacale, programmazione economica, partecipazione alle scelte produttive, conoscenza del territorio e delle condizioni di vita e di lavoro degli operai, contatto tra base e organizzazioni, vocazione politica erano gli assi su cui si stavano collocando le tre principali sigle sindacali nel 1967 e che sarebbero arrivate a completa maturazione col ciclo rivendicativo del biennio successivo.
Per ricostruire questa traiettoria ci si è rivolti in primo luogo agli archivi degli stessi sindacati e partiti, ed in particolare a quelli delle rispettive federazioni torinesi[10]. A fronte tuttavia di un materiale alquanto lacunoso – laddove spesso anche scarse sono le opere storiche che già vi si sono dedicate e dunque non potendocisi rivolgere ad una letteratura di adeguata densità interpretativa ma piuttosto memorialistica o “di parte” – è stato necessario integrare queste fonti con quelle prodotte da altri soggetti, in primo luogo i Prefetti, e con le fonti secondarie di matrice interna al movimento operaio. Da tutto ciò è risultato possibile seguire il percorso di Pci, Psi e Psiup, Cgil, Cisl, Uil e Acli in rapporto alle tematiche di fabbrica e urbane.
Per quanto riguarda il Pci[11], è importante sottolineare l’oggettiva debolezza in cui versava al momento dell’arrivo dei primi immigrati per leggere l’atteggiamento che il Pci assunse nei loro confronti, per lo più improntato ad una certa discontinuità e vaghezza, tutt’altro che incisivo per lo meno nei primi due anni e per delineare le ragioni di una mancata crescita organizzativa come conseguenza dell’afflusso di nuova popolazione, e dunque sui motivi di uno scarso fascino che le sue strutture esercitavano sui nuovi arrivati. Considerata la migrazione come intrinseca ad un modello di sviluppo distorto, essa era anche un ostacolo per il movimento operaio: superare i pregiudizi anti-meridionalisti presenti anche nello stesso partito ed unificare la classe operaia di diversa estrazione regionale erano i leit-motiv del discorso dei comunisti alla fine degli anni Cinquanta. Solo poche voci si levavano per segnalare la necessità di considerare le peculiarità degli immigrati, che non erano direttamente assimilabili agli operai del Nord, anche adattando il partito e il suo linguaggio a loro e non puntare ad uniformarli. I primi veri approcci alla popolazione immigrata si ebbero dal 1957, quando fu approvato un Piano di lavoro e iniziative politiche verso l’immigrazione. Era un discorso ancora solo impostato, ma in esso già si vedevano tutti i tratti salienti dell’azione del Pci negli anni successivi: un’azione frammentaria, intensificata in occasioni elettorali, in ritardo rispetto all’evoluzione degli eventi ma collegata positivamente con la presa di coscienza del Pci del proprio ruolo nei territori. La campagna elettorale del 1958, anno dell’abolizione del foglio di via, fu la prima rivolta agli immigrati, con la pubblicazione anche di un giornale apposito: “L’immigrato”. Chefinì, però, per essere un numero unico, senza distribuzione nelle fabbriche, e vittima di non infondate accuse di elettoralismo. I suoi contenuti erano analoghi a quelli dettati dal centro, con aspetti pietistici ed una semplice vocazione informativa. Nonostante ciò, fu la prima iniziativa mirata agli immigrati, che smentiva così implicitamente l’equiparabilità degli immigrati con l’altra classe operaia. Segnava, cioè, lo slittamento verso la percezione dell’immigrato come un gruppo sociale a sé stante. La lettura del Pci era imperniata su una denuncia degli squilibri prodotti da un modello di sviluppo che acuiva le distorsioni; una critica della politica migratoria della Dc, segnalando che la migrazione non poteva essere considerata uno strumento di riequilibrio demografico e economico; del modo in cui stava avvenendo, ossia nel sostanziale abbandono; proposta di un modello di sviluppo alternativo che creasse posti di lavoro al Sud, sanando alla radice le cause della migrazione; tutela dei diritti degli immigrati in termini legislativi ed assistenziali. Nel 1962 il Pci aveva elaborato una visione organica del fenomeno migratorio, riconoscendo che le proprie possibilità di espansione erano proporzionali all’influenza che riusciva ad ottenere tra gli immigrati. Il Pci operava anche un’autocritica, di chi, cioè, non aveva compreso che i giovani meridionali avevano un differente approccio alla politica e perciò non era stato in grado di comprenderne l’indole e la concezione del partito – visto spesso come un’organizzazione assistenziale. Le elezioni del 1963, le prime in cui gli immigrati votavano in città da residenti, abolite nel 1961 le leggi contro l’urbanesimo, diedero prova della validità di questa politica, raccogliendo il Pci anche il malcontento di quanti erano arrivati da tempo in città. La questione diventava trovare la via di tradurre in organizzazione il successo elettorale. Questione su cui gli stessi dirigenti federali si divisero. Alcuni, pur riconoscendo l’utilità sotto il profilo del proselitismo delle iniziative per gli immigrati, erano poco propensi ad allargare quelle attività temendo di trasformare il partito in un partito di immigrati, perdendo così le simpatie del resto della cittadinanza. La presenza di pregiudizi antimeridionali diffusi anche nelle istituzioni del movimento operaio trovava riscontro in moltissimi resoconti e provocava l’allontanamento dal partito di quanti erano stati militanti nelle zone d’origine, oltre che il mancato coinvolgimento degli immigrati in posizioni di responsabilità. Da allora il Pci torinese divenne un partito inquieto, in cui alcune anime dalla peculiare sensibilità tentarono di accrescere l’interesse e l’attività verso gli immigrati con alterni successi. Dal 1964 spiccò in particolare la figura di Giuseppe Rizzo, che organizzò un “Gruppo di lavoro per gli immigrati meridionali”. Le elezioni del 1968 videro una campagna elettorale rivolta tutta agli immigrati e con un innesto “pop” nel registro stilistico della propaganda. Il Pci intendeva presentarsi come alfiere della tutela delle varie culture, mirando a scardinare la prassi che aveva reso gli immigrati una maggioranza nel processo produttivo ma una minoranza nei processi sociali. La campagna diede i suoi frutti e il Pci divenne il primo partito in città, dovendo riconoscere che il voto degli immigrati era stato indispensabile. Una parte della Federazione era riuscita a costringere l’intera organizzazione ad arrivare, con dieci anni di ritardo rispetto all’evoluzione della società, ad elaborare una visione complessiva del fenomeno immigratorio e delle sue implicazioni socio-antropologiche. Alcuni, come Rizzo, si spingevano sino a ritenere che l’intero partito dovesse adeguarsi al più basso livello culturale degli immigrati, puntare sulla comprensione dei loro valori d’origine, su cui si radicava la loro rabbia, e ammettere che l’individuo fosse oggetto di integrazioni multiple. Il resto della Federazione non arrivò a tanto, ma l’ammissione di dover considerare gli immigrati un gruppo sociale era declinato in maniera da non essere in contrasto col permanere dell’idea iniziale di integrare gli immigrati nella lotta generale della classe operaia, ma si operò una distinzione tra settori. Nelle fabbriche si continuava a prospettare l’unità e a minimizzare le differenze, in città le peculiarità dell’inserimento dei nuovi arrivati erano la leva su cui ampliare il proprio radicamento.
Per quanto riguarda il Psi, vi è anzitutto da precisare un problema metodologico. Le continue scissioni e ricomposizioni dell’organizzazione socialista han prodotto una notevole dispersione del suo patrimonio archivistico, i cui fondi risultano così spesso discontinui. Identica ragione ha fatto sì che il partito stesso si occupasse in maniera frammentaria dell’argomento “immigrazione”, spesso interessato a tematiche più politiche e alla propria organizzazione interna. Infine, v’è da dire che la questione stava a cuore soprattutto ai militanti più vicini alla corrente sindacale socialista, i quali, fuoriusciti dal Psi nel 1964, portarono con sé nel Psiup quella tradizione analitica. Il primo spunto venne proprio da Gianni Alasia, Mario Giovana e Andrea Dosio che già nel 1959 segnalavano come le migrazioni facessero parte del disegno padronale di integrazione di classe e ciò spiegava le difficoltà del sindacato e del partito nella nuova fabbrica. La mancata comprensione di questi mutamenti e la necessità di non limitarsi ai problemi salariali e di categoria erano i punti su cui doveva radicarsi un’autocritica del sindacato. Fu necessario attendere le elezioni comunali affinché questa emergente consapevolezza potesse affiorare nei piani d’azione della Federazione. Allora, il Psi pose l’immigrazione al centro della propaganda in termini di assistenza, studio, utilizzo razionale delle forze di lavoro. Le elezioni assunsero dunque un connotato politico, nella volontà di attrarre le simpatie dei nuovi arrivati con un programma che ammiccava alle loro esigenze e li assumeva come interlocutori diretti del partito. Occorreva, si diceva, inserire gli immigrati, farli diventare elementi di propulsione della vita locale, non lasciarli come profughi assistiti. Dopo questo momento di interesse, gli immigrati uscirono dall’attenzione del Psi, tanto da non nominarli neppure nelle analisi dei risultati elettorali. Era un atteggiamento tutto segnato da un palese elettoralismo, svincolato da un’indagine radicata e continuativa e da una prospettiva organizzativa di ampio respiro. Queste caratteristiche si mostrarono in tutta la propria evidenza nel 1962 intorno alla vicenda dell’organizzazione di un convegno sul tema immigratorio promosso dalla Sezione di Chieri. Le difficoltà di mediazione tra una Federazione vicina alla corrente di sinistra e la Sezione autonomista ritardò l’organizzazione del convegno – che si tenne non a caso in concomitanza della Conferenza nazionale del Pci – e impose una visione che voleva il problema immigratorio subordinato alla ricerca della presenza politica nelle fabbriche. Il Psi torinese era “politico”, persino “operaista”, ma quanto mai lontano dalla consapevolezza del proprio ruolo nella società in quanto partito di massa. Il convegno fu un fugace innalzamento del livello di analisi, mentre dal luglio ’62 il partito retrocedeva a grandi passi su un percorso che aveva solo timidamente intrapreso. La fuoriuscita del Psiup nel 1964, la convergenza con lo Psdi e la partecipazione alla prima giunta di centro-sinistra del sindaco Giuseppe Grosso imposero una riflessione sui nuovi compiti del partito, che decise di definire il proprio ruolo in relazione alle riforme urbanistiche e alla sburocratizzazione della struttura amministrativa. Era scomparso dalle iniziative del partito qualsiasi riferimento alle fabbriche, agli operai, alle modificazioni sociologiche prodotte dall’immigrazione. Il Psu atrofizzava il suo discorso su direttrici più amministrative che rivendicative, rimanendo fumoso a livello di base. Il Psiup, frattanto, andava cercando una propria identità come “partito di fabbrica”, a partire dalla lettura organica che dell’evoluzione economico-sociale avevano dato i suoi più noti esponenti, come Vittorio Foa e Lucio Libertini. L’immigrazione era considerata in questo ambito con una chiara declinazione organizzativa: si trattava di considerare la peculiare composizione dei nuovi quartieri e della cintura in espansione per ampliare la propria base militante. La stessa rivista del partito, “Mondo nuovo”, si occupò sin da subito del tema – in funzione della peculiare sensibilità di Giovana per i riflessi che essa aveva in termini di crisi della struttura urbana. In tutto il discorso del Psiup, l’immigrazione è presente come un tema centrale e ricorrente. Non era mai affrontata da sola, ma sempre come parte integrante del discorso – densissimo peraltro di contenuti mutuati dall’urbanistica – sull’espansione urbana e sulla condizione operaia nelle fabbriche. La situazione cominciò a cambiare solo nel 1968-1969 a ragione delle analisi portate avanti da Lucio Libertini riguardo al rapporto tra Nord e Sud, che codificò anche la posizione del partito riguardo al tema migratorio. Era interesse dei lavoratori del Nord, diceva, che si risollevasse l’economia meridionale: l’immigrazione creava disoccupazione, deprimeva i salari e abbatteva il potere contrattuale. Occorreva perciò creare l’unità dei lavoratori indipendentemente dall’origine – attestandosi così sulla stessa linea originale del Pci. Le elezioni furono una prova soddisfacente per il Psiup, che raccolse anche consensi tra gli immigrati di più recente arrivo. Il che indusse a stilare un primo programma specifico per gli immigrati, con cui si voleva da un lato coinvolgerli organizzativamente e dall’altro educarli politicamente, in parallelo con una ancor più serrata critica a modelli di sviluppo e pianificazione che non tenevano sufficientemente in conto il costo sociale delle migrazioni.
Per quanto riguarda i sindacati, in primo luogo è da osservare che l’abitudine di conservare i propri materiali in forme archivistiche organizzate è stata adottata solo di recente e che dunque molto spesso la disponibilità di fonti primarie per lo studio di queste organizzazioni è ben inferiore a quella che si riferisce ai partiti – portatori di una visione più storicizzante della propria azione.
Al momento dell’arrivo dei primi immigrati, la Cgil stava tentando di riprendersi dalla sconfitta subita alla Fiat, imperniando il proprio discorso sul “ritorno alla fabbrica”, ossia con la volontà di impostare le scelte rivendicative sulla conoscenza delle reali condizioni di lavoro e sul dialogo con gli operai – oltre che sull’autonomia del sindacato dai partiti e sulla convergenza con le altre sigle. La questione organizzativa di raggiungere i nuovi lavoratori Fiat fuori dalla fabbrica, quando si disperdevano nelle proprie abitazioni, implicò affrontare l’immigrazione e le trasformazioni della città. La Cgil fu sostanzialmente lenta e poco costante in questo ambito e collegò il tema immigratorio con il rinnovamento generazionale della classe operaia e con la crisi del sistema delle qualifiche. Neanche la crescita organizzativa successiva alla ripresa del 1962, prodotta dall’iscrizione di molti immigrati, significò una stabile attenzione per il tema, tanto più quando con la “congiuntura” la Fiom ripiegò su una linea strategica aggressiva ma arroccata sulla fabbrica e la Camera del Lavoro propose rivendicazioni che avrebbero migliorato in generale la condizione operaia ma ricollocando nell’ombra il tema dell’immigrazione, tanto in termini conoscitivi che di propaganda. Dalla seconda metà del decennio iniziò tuttavia un’alacre attività di inchiesta sociale nella base operaia, tentando di avvicinare quanti non s’erano interessati alla militanza e di conoscere le reali condizioni degli operai sui luoghi di lavoro e fuori di essi. Questa attività permise di avvicinarsi alla base e di trovare un punto di contatto con le altre organizzazioni sindacali, altrettanto interessate a questo lavoro di studio. Nel 1967 nel Convegno della Commissione Fiat della Fiom si parlò infine apertamente dell’immigrazione e delle conseguenze che essa aveva avuto nel trasformare la base di riferimento del sindacato. Il sindacato riconosceva di dover far conto con una mutata classe operaia: fuori dalle rivendicazioni contrattuali, il sindacato si proponeva come l’unico soggetto a poterne interpretare le esigenze. La coscienza delle mutazioni sociali e del rapporto tra queste e il sindacato diventò da allora parte integrante dell’analisi della Fiom. La questione dell’immigrazione non sembrava comunque letta dalla Cgil piemontese come fenomeno autonomo, ma inserita o nel quadro di una proposta per uno sviluppo alternativo dell’economia del Paese, o nel complesso di politiche sociali – per la casa, i trasporti, i servizi sanitari, le politiche educative – che da un lato miravano ad alleviare la situazione del capoluogo piemontese e dall’altro puntavano ad accrescere i propri consensi.
La Cisl fu l’organizzazione sindacale che più sensibilità mostrò al tema dell’immigrazione. E fu quella che più cambiò la propria posizione al riguardo, passando da una netta ostilità nei confronti dei nuovi arrivati ad una azione sempre più incisiva per alleviarne le condizioni di vita e per favorirne l’inserimento in città. Nel 1958, il Convegno socioeconomico della locale Unione Sindacale identificava nell’immigrazione la ragione di una saturazione e distorsione del mercato del lavoro, ma già nel 1962, recependo il dibattito proposto dalla Confederazione nazionale, il Congresso dell’Unione Provinciale varava una commissione di studio per gli immigrati. Una forte volontà conoscitiva divenne sin da allora caratteristica dell’avvicinamento della Cisl alle migrazioni, cui si associò un aspetto organizzativo dopo i fatti di Piazza Statuto e un’ambizione di contribuire alla pacificazione sociale sanando le distorsioni date dall’immigrazione selvaggia. Nel 1963 fu organizzato un congresso dal titolo Torino, gli immigrati e il movimento operaio, in cui la Cisl torinese cambiò sostanzialmente il proprio paradigma interpretativo. Se sino ad allora si era tenuta prudentemente in linea con l’interpretazione liberale, ossia ritenendo il fenomeno positivo in sé ma da indirizzare secondo criteri razionali, da allora si avvicinò alla posizione sostenuta dai comunisti. Durante l’anno l’Usp si dedicò alle iniziative per gli immigrati: centri sociali di assistenza e sussidio; collocamento; supporto alle famiglie; schedatura degli analfabeti e organizzazione di corsi; centri educativi e ricreativi per i bambini; assistenti sociali sui treni; raduni popolari, cineforum e altre attività analoghe. Partecipò inoltre attivamente alla costruzione di un Centro per la formazione professionale degli immigrati, che avrebbe avuto sede alle vallette e che, proposto dal ministro Pastore, avrebbe goduto dei finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. L’attenzione per le questioni migratorie, connesse tanto con le trasformazioni sulla manodopera quanto con la mutazione della città, assunse protagonismo nel discorso della Cisl di pari passo con l’evoluzione che stava avvenendo in seno alla Confederazione e nel suo ramo metalmeccanico. L’arrivo in posizioni dirigenti di militanti provenienti da esperienze nelle catene di montaggio ed educatisi alla scuola sindacale di Firenze portò un’iniezione di nuove esigenze e sensibilità. Nel 1967 il Convegno dei Quadri Fiat della Cisl diede ampio spazio al tema dell’immigrazione, definendola una questione organizzativa e formativa. Da un lato, implicava la necessità di trovare militanti immigrati e di inserire a livello di quadri quelli già attivi. Dall’altro occorreva dare loro una cultura del sindacato sin dagli elementi basilari e spiegare le analogie nell’esperienza umana di tutti i lavoratori indipendentemente dalla provenienza regionale. L’intensificazione del lavoro sindacale nei quartieri degli immigrati era al primo posto della lista di priorità. Nei due anni successivi, l’Unione Provinciale e la Fim inserirono in tutta la loro propaganda sui temi della casa la questione dell’immigrazione, anche con toni molto polemici che ricordavano quelli usati da Pci e Cgil all’inizio del decennio precedente, additando nel distorto sviluppo voluto dalla Fiat la causa di tutti i mali. Anche chi aveva inizialmente difeso quel modello di sviluppo e le scelte della classe dirigente nazionale e locale si trovò a cambiare opinione, anche in consonanza con le sempre più diffuse e radicate critiche nel mondo cattolico. L’immigrazione era ormai letta nient’altro che come causa di lacerazioni e casi paradossali di concentrazione urbanistica.
Contigue alla Cisl ma differenti v’erano anche le Acli ad interrogarsi sul come affrontare l’arrivo di nuova popolazione in città. Dopo la successione alla presidenza nazionale di Livio Labor, le Associazioni cattoliche mostrarono l’intenzione di agire come soggetti politici che potessero anche definire gli indirizzi futuri del Paese. L’organizzazione piemontese si stava avvantaggiando anche numericamente dell’arrivo di immigrati in città, essendo ben più forte nelle campagne che nei settori urbani tradizionali. Sin dal 1959 inserì il tema nei propri dibattiti, collegato alla questione delle periferie urbane come luoghi in cui potenziare l’azione sociale delle Acli, in termini assistenziali e formativi. L’attenzione avrebbe dovuto essere incentrata sulle esigenze particolari degli immigrati, sulla base di una valutazione positiva del fenomeno migratorio e dei suoi possibili vantaggi per la città. Religione, casa e famiglia erano i punti critici del processo di inserimento su cui le Acli agirono attivamente e da cui ottennero anche risultati organizzativi importanti. Nel 1963, proprio a tal fine, organizzarono l’“Operazione Torino”, un’inchiesta con cui, unici nel movimento operaio, riuscirono a tradurre in realtà il desiderio di collegare le strutture del Nord e del Sud e reperire così i militanti che, trasferitisi, avevano perso il contatto con l’attività associativa. La seconda metà del decennio vide le Acli allontanarsi dal collateralismo con la Dc, manifestando dubbi crescenti rispetto alla praticabilità di una soluzione interclassista dei conflitti e criticando il modello di sviluppo che sin lì era stato seguito. L’analisi della realtà torinese era dunque molto dura, definendola una crisi di ogni struttura sociale sull’altare della società del benessere. Gli immigrati erano da re-inserire in circuiti sociali e non erano solo da considerarsi elettori o potenziali tesserati. In nome di un tentativo di costruire una nuova vita sociale in cui prevalesse il bene comune, le tematiche della casa e degli affitti diventavano prevalenti nel discorso delle Acli torinesi. L’immigrazione era trattata di riflesso, connessa alla congestione urbana e al caro-alloggi, collocandosi così le Acli nella stessa lunghezza d’onda del resto del movimento operaio.
Per quanto riguarda la Uil il patrimonio archivistico è particolarmente lacunoso, il che impone di prendere con le dovute precauzioni quello che sembra un tragitto fatto di un interesse precoce per le migrazioni e di un successivo sostanziale disinteresse. Nel 1957 il Congresso della Camera sindacale torinese, nella volontà di esprimere le trasformazioni produttive e sociali avvenute in città, inserì la questione migratoria tra i propri temi di analisi, attestandosi su un’interpretazione analga a quella del gruppo della rivista “Nord e Sud”. Occorreva cioè sanare le maggiori distorsioni del processo migratorio, preparando ad esempio la manodopera nei luoghi di partenza rispetto alle condizioni di arrivo. Tuttavia l’elaborazione della Uil sul tema sembra fermarsi dopo questo approccio, tanto da non occuparsene più sino al 1963, anno in cui il successivo Congresso della Camera sindacale gli dedicò ampio spazio nella relazione introduttiva. Un’attenzione che era anche prodotto del percorso rinnovatore iniziato dalla Uil dopo i fatti di Piazza Statuto, che imposero alla Confederazione un ripensamento che la spinse su posizioni unitarie. Tanto da cambiare anche l’interpretazione complessiva del fenomeno immigratorio: occorreva creare le condizioni per le quali non fosse più necessario migrare, e non più solo orientare i flussi. Pur senza prevedere azioni precise, la Uil pensava di poter concretamente agire nel settore dell’aggiornamento professionale, colmando l’abbassamento del livello tecnico della manodopera prodotto dall’immigrazione, e nella tutela degli immigrati in quanto lavoratori. Una visione estensivamente politica del ruolo sindacale permeava dunque la rinnovata Uil e la avvicinava alle altre federazioni nel momento in cui tutte si proponevano come agenti attivi nel processo di programmazione dello sviluppo, con un ruolo decisionale non solo consultivo. Il Congresso del 1969 definiva il lavoro sindacale come un’attività organica intorno alla programmazione urbanistica, cavallo di battaglia dei socialisti nel governo cittadino e nazionale. Tuttavia la Uil si manteneva in un precario equilibrio tra la necessità di dichiarare il proprio favore ai governi di centro-sinistra (presentandosi come l’interlocutore privilegiato del Partito socialista unificato) e le sempre più palesi critiche che si trovava a muovere al loro operato.
Torino si affacciava al 1968 in una situazione caotica, aggravata nell’ultimo anno dall’apertura degli stabilimenti di Rivalta e dalla conseguente ripresa dei flussi immigratori. I nuovi quartieri di espansione videro un’ulteriore saturazione degli spazi abitativi. Scarsità di alloggi, collasso dei servizi sociali, inadeguatezza del sistema dei trasporti, speculazioni sulla distribuzione dei generi di prima necessità pesavano in primo luogo sui nuovi arrivati. Il 1968-1969 fu non tanto e non solo l’inizio di una nuova fase, quanto la conclusione − e ciò era evidente soprattutto a Torino − di un processo che aveva avuto origine nel “miracolo economico” e che aveva dato prime avvisaglie nelle lotte del 1962[12]. Segnò la fusione delle mutate caratteristiche socio-economiche della popolazione lavoratrice, di una crescente disaffezione al lavoro dovuta a mansioni parcellizzate, dell’evoluzione culturale dei bisogni e delle aspettative di una classe operaia giovane e dello sclerotizzarsi delle distorsioni nella distribuzione del benessere e nelle condizioni di vita all’interno del territorio urbano[13]. In assenza di una modernizzazione socio-culturale che permettesse di integrare le ingenti masse di popolazione coinvolte nell’accelerato sviluppo economico dando loro accesso a condizioni materiali e culturali adeguate e permettendo loro di esprimersi e di partecipare con la creazione di strumenti idonei[14], l’insoddisfazione di quanti ambivano a determinati modelli ma se ne sentivano esclusi andò a fondersi con la tradizionale carica oppositiva dei militanti del movimento operaio. Un generico malcontento per le condizioni di vita e di lavoro si fuse con le questioni di potere e di controllo su tali condizioni e con la critica ai modelli di consumo e di produzione diffusi in ambito sindacale cattolico[15]. I meccanismi di integrazione che erano riusciti in passato a fare presa sulle prime generazioni di immigrati – la certezza di un lavoro sicuro, l’uscita dalla miseria contadina, l’influenza dei mass media e il desiderio di integrazione – smisero di funzionare. In questo quadro di crescente tensione, con il traguardo delle elezioni politiche, con le richieste di manodopera della Fiat e con il terremoto Belice che riattivarono con urgenza il problema dell’accoglienza delle strutture urbane di nuova popolazione, le iniziative dell’amministrazione per dare sollievo alla situazione erano del tutto insufficienti e le prospettive proposte dalla Fiat e dalle altre aziende risultavano sproporzionate alle esigenze e riconducibili ad una logica caritativa.
Organizzazioni sindacali e partiti stimolarono la ricerca di soluzioni per tutti questi problemi che riconoscevano essere ormai i punti attorno ai quali più era possibile coagulare l’interesse e la partecipazione dei lavoratori e dei cittadini, affiancandosi anche a tutti quei movimenti che spontaneamente avevano preso forma nelle fabbriche e nei quartieri. Dover fare i conti con l’immigrazione e con le trasformazioni sociali che essa aveva implicato nella base di riferimento delle proprie organizzazioni fu, se non il principale, uno dei fattori che le obbligarono a ripensare se stesse in funzione di un ruolo politico e sociale che le condusse su posizioni sostanzialmente unitarie, permettendo così anche l’apertura del successivo decennio di conflittualità ma anche conquiste.
[1] Questo articolo, ed è questa una premessa indispensabile per comprendere la “genericità” di alcuni suoi aspetti, è la presentazione del lavoro svolto per una tesi di dottorato: Michela Di Giacomo, Alla prova dell’immigrazione. Movimento operaio e immigrazione meridionale nella Torino degli anni Sessanta, Università di Siena, Scuola di Dottorato in Scienze Storiche in età contemporanea, 2011.
[2] Stefano Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società (1950-1970), in Storia di Torino, a cura di Nicola Tranfaglia, IX, Torino, Einaudi, 1999, pp. 49-100.
[3] Aldo Agosti e Gian Mario Bravo, Storia regionale e storia del movimento operaio, in Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, a cura di Idd., IV, Bari, De Donato, 1981, pp. 11-22.
[4] Mi permetto di rimandare a Michela Di Giacomo, Migrazioni, industrializzazione e trasformazioni sociali nella Torino del “miracolo”. Uno stato degli studi, “Storia e Futuro”, 21, 2009, http://www.storiaefuturo.com/it/numero_21/percorsi/7_migrazioni-industrializzazione-trasformazioni-~1274.html, e Le migrazioni interne. Rassegna degli studi italiani (1958-2009), “Bollettino di storiografia”, allegato a “Storiografia”, 13, 2009, pp. 29-53. Vedi anche Bruno Bonomo, Il dibattito storiografico sulle migrazioni interne italiane del secondo dopoguerra, “Studi Emigrazione”, 155 (2004), pp. 679-691.
[5] Sull’espansione dei singoli quartieri, cfr. Valerio Castronovo, Il Piemonte, Torino, Einaudi, 1977, p. 693; Annuari Statistici della Città di Torino; Pci, Verbale della riunione del Cf e della Cfc 9 febbraio 1961, in Fondazione Istituto Piemontese A. Gramsci (Fipag), Pci/To, b. 52, f. 2, 1961.
[6] V. Adalberto Minucci e Saverio Vertone, Il grattacielo nel deserto, Roma, Editori Riuniti, 1960. Cfr. la critica che ne fa Giuseppe Berta, Uomini e organizzazione, in Mirafiori, 1936-1962, a cura di Carlo Olmo, Torino, Allemandi, 1997, pp. 104-107.
[7] Cfr. Goffredo Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 158.
[8] Ibid.; Francesco Alberoni e Guido Baglioni, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Bologna, Il Mulino,1965.
[9] Marco Revelli, Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti, Milano, Garzanti, 1989, pp. 29-31.
[10] Si rimanda all’elenco dei fondi visionati nella tesi di dottorato.
[11] Sul Pci, Fiammetta Balestracci, Immigrati e Pci a Torino 1950-1970, in La città e lo sviluppo. Crescita e sviluppo a Torino 1945-1970, a cura di Fabio Levi e Bruno Maida, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004, pp. 120-184. Mi permetto di rimandare anche a Michela Di Giacomo, Pci e migrazioni interne nella Torino del “miracolo”, “Diacronie. Studi di Storia Contemporanea”, 9 (2012), http://www.studistorici.com/2012/02/13/di-giacomo_numero_9/.
[12] Cfr. Bruno Bongiovanni, Il Sessantotto studentesco e operaio, in Storia di Torino, IX, cit., pp. 787-788.
[13] Cfr. S. Musso, Il lungo miracolo economico, cit., pp. 98-100; V. Castronovo, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 423 e ss.; Fabio Levi, Torino o cara… Dove va la città della Fiat, “Meridiana”, 16 (1993), pp. 135-158.
[14] Cfr. Ettore Passerin d’Entreves, L’area metropolitana torinese di fronte alle lotte del lavoro ed ai problemi dell’immigrazione, in Movimento operaio e sviluppo economico in Piemonte negli ultimi cinquant’anni, a cura di Id., Torino, CRT, 1978, pp. 11 e sgg.
[15] Cfr. Charles F. Sabel, Works and Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1982.