Intervista ad Alessandro Ferrara

Antonio Ferrara collabora con l’università degli studi di Napoli “Federico II” e con l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR). Ha svolto incarichi di ricerca in Stati Uniti, Francia ed Austria e ha pubblicato articoli su “Storica”, “Contemporanea” e sul “Journal of Contemporary History”. Con Niccolò Pianciola è autore di L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in Europa, 1853-1953 (Bologna, il Mulino 2012), una ricostruzione degli eventi in seguito ai quali, tra la guerra di Crimea e la morte di Stalin, in tutta l’area compresa tra il Baltico, l’Adriatico e il Caspio oltre 30 milioni di persone vennero costrette ad emigrare a causa di decisioni politiche prese da stati o loro succedanei (es. movimenti di guerriglia). Questi spostamenti avevano come obiettivo la rimozione di intere categorie di popolazione identificate secondo criteri di vario genere (etnici, linguistici, sociali, religiosi, politici e così via) e possono quindi essere definiti come episodi di “chirurgia demografica”.

Nel volume scritto assieme a Pianciola suggerisce che nell’ambito delle migrazioni forzate quelle dei giuliano dalmati durante e dopo la seconda guerra mondiale possono essere inquadrate sotto la voce esodo. Gli domandiamo dunque se potrebbe, per favore, spiegarci in cosa consiste questa voce e perché è quella che meglio si attaglia alla vicenda presa in esame.

Abbiamo chiamato esodi i casi in cui un gruppo di abitanti fu indotto a migrare a causa di pressioni esercitate dal governo che lo controllava, sia in termini di violenza diretta sia in termini di privazione di diritti, soprattutto in corrispondenza di guerre, crolli e costruzioni di stati. In tali circostanze la migrazione forzata non era il chiaro obiettivo iniziale del governo in questione, ma il risultato finale fu comunque l’emigrazione quasi totale del gruppo. Questi casi vanno senza dubbio compresi nel novero delle migrazioni forzate, anche se furono gli unici in cui la scelta individuale, giunta ad acquisire una dimensione di massa, ebbe un ruolo nel causare lo spostamento.

La vicenda istriana rientra perfettamente in questa definizione, in quanto non vi sono prove dell’intento di espellere gli italiani dell’Istria e della Dalmazia da parte del governo jugoslavo: per quanto sappiamo non vi fu un decreto di espulsione paragonabile a quello emesso nei confronti dei tedeschi della Jugoslavia. Tuttavia, il trattamento riservato alla popolazione di lingua italiana fu tale da spingerla ad emigrare in massa, man mano che si consolidò il controllo jugoslavo sulle regioni perdute in seguito al trattato di pace.

 

Nel vostro libro inserite la vicenda nel quadro della dissoluzione dell’Europa di mezzo fra il 1943 e il 1953. Ai tuoi occhi in cosa consisteva questa Mitteleuropa e in che modo l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia avrebbe contribuito alla sua sparizione?

Per “Europa di mezzo” intendiamo un concetto storico più che geografico, l’insieme delle regioni sottoposte nel XIX secolo ai quattro grandi imperi dinastici (asburgico, Hohenzollern, zarista e ottomano) e caratterizzate dalla compresenza di gruppi linguistici e religiosi differenti, spesso concentrati ciascuno su un livello diverso della scala sociale. Queste società “multiculturali” (per usare un termine anacronistico), sopravvissute in parte al cambiamento politico seguito alla Grande Guerra, vennero liquidate da regimi rivoluzionari di varia estrazione politica durante e dopo la seconda guerra mondiale. È esattamente quanto accadde in Istria e Dalmazia dopo la seconda guerra mondiale, allorché un regime rivoluzionario (in questo caso quello comunista jugoslavo) prese di mira alcune categorie di popolazione in cui l’elemento italiano era sovra-rappresentato (appunto a causa della suddetta coincidenza tra divisioni sociali e nazionali), operando di fatto una “chirurgia demografica” su base sociale e politica che però ebbe effetti anche sulla composizione nazionale delle regioni interessate. Altrove, processi simili avvennero su base apertamente etnico-nazionalista, ma dappertutto il risultato finale fu quello di creare società etnicamente “omogenee” (sottoposte a regimi socialisti). L’esodo istriano rappresenta quindi un piccolo (ma essenziale) tassello di un fenomeno ben più vasto che interessò anche, in modo molto simile, l’Ucraina occidentale, le regioni baltiche, le aree al confine tra Germania, Polonia e Cecoslovacchia e altre ancora.

 

Infine come autore del capitolo sulla fine della Mitteleuropa mi sembri voler sottolineare che comunque l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia ha avuto caratteristiche specifiche, abbastanza diverse dagli altri fenomeni concomitanti e coevi. Potresti spiegarci meglio perché evidenzi questa specificità?

L’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia non può essere accomunato tout court alle espulsioni verificatesi nel resto dell’Europa di mezzo, e questo per vari motivi. Primo, come detto, non vi fu un decreto di espulsione degli “italiani” in quanto tali (mentre ve ne fu uno contro i tedeschi della Jugoslavia); fu disposto invece di “epurare sulla base del fascismo” (secondo l’espressione di Kardelj), anche se in tal modo, come detto, venne colpita prevalentemente la popolazione italiana. Secondo, il processo fu molto più lento: le espulsioni di tedeschi e polacchi potevano dirsi concluse nel 1948, ma l’esodo istriano invece proseguì ancora per vari anni man mano che i confini venivano “aggiustati”. Terzo, in ultima analisi i livelli di violenza furono inferiori a quelli che si registrarono in episodi analoghi di “chirurgia demografica” coevi. Quarto, l’esodo non venne sanzionato a livello internazionale, diversamente da quanto accadde con le espulsioni dei tedeschi da Polonia e Cecoslovacchia (de facto approvate dalla conferenza di Potsdam) e con gli scambi di popolazione polacco-sovietici, che avvennero nel quadro di un trattato internazionale.