È in libreria il nuovo numero della rivista, qui l’introduzione scritta da Paolo Barcella e Michele Colucci.
Introduzione
Paolo Barcella e Michele Colucci
Il tema delle frontiere ha conosciuto negli ultimi anni una rinnovata attenzione storiografica. La declinazione continentale delle frontiere italiane, la collocazione europea dei flussi e dei movimenti hanno, però, avuto meno fortuna rispetto allo studio delle frontiere marittime, agli scambi e ai flussi in ambito mediterraneo che, probabilmente anche a seguito dell’impatto sull’opinione pubblica delle migrazioni per mare, sono stati riscoperti soprattutto in chiave di storia politica e storia economica.
La particolare posizione geografica dell’Italia ha determinato lo sviluppo di una pluralità di frontiere terrestri, coincidenti in larga misura con l’arco alpino. L’attraversamento, il pendolarismo, la sorveglianza, gli statuti particolari, il reclutamento, le condizioni di vita e di lavoro nell’arco alpino sono stati oggetto da diversi decenni di studi e ricerche, che partendo dall’età moderna per arrivare all’età contemporanea hanno disegnato un fitto sistema di continuità, di rotture, di mutamenti nel corso del tempo1.
L’obiettivo di questo fascicolo della rivista è quello di avviare un percorso di ricerca capace di restituire la profondità storica delle frontiere terrestri a partire dal modo con cui sono state attraversate per ragioni di lavoro o per ragioni politiche, concentrandoci sull’età contemporanea ma proponendo un inquadramento storiografico del tema capace di tenere conto dei precedenti in età moderna. In particolare vogliamo mettere in risalto le caratteristiche sociali ed economiche della figura del “lavoratore frontaliero”, le diverse definizioni che se ne possono dare nel corso del tempo, le dimensioni che assume la mobilità territoriale nelle diverse stagioni e nei differenti luoghi presi in esame, luoghi che hanno in comune la quasi generale appartenenza alpina ma sono notevolmente differenziati sul piano politico, geografico, economico2.
I contributi che presentiamo vogliono isolare singoli flussi e singoli aspetti legati alle diverse realtà del frontalierato. La figura del lavoratore frontaliero e le sue trasformazioni sono infatti emblematiche dei modi con cui gli stati nazionali definiscono e sorvegliano le proprie frontiere e dei modi di produzione tipici delle aree coinvolte, che in alcuni casi tendono a forzare le frontiere politiche. Le modalità di impiego, le condizioni abitative, la collocazione giuridica, i conflitti legati alla presenza dei frontalieri rappresentano i punti che vogliamo maggiormente indagare, consapevoli che i territori da noi selezionati rappresentano solo una piccola porzione di un fenomeno molto esteso.
In termini generali il frontalierato si può definire come una forma di mobilità internazionale di breve raggio. Cerchiamo di isolare una per una le tre componenti di tale definizione: mobilità – internazionale – breve raggio.
La prima componente – la mobilità – è essenziale per capire che stiamo parlando di un fenomeno sociale ed economico in cui avviene un trasferimento sul territorio di più persone, per ragioni legate prevalentemente, ma non solo, allo svolgimento di un lavoro salariato. La mobilità sul territorio è il punto di osservazione che ci permette di considerare il frontalierato come una esperienza migratoria, perché prevede l’esistenza di un’area di partenza (che a sua volta può rappresentare già di per sé una tappa di un’altra provenienza migratoria) e allo stesso tempo l’esistenza di un’area di arrivo. Non importa se tale esperienza migratoria è temporalmente limitata a una sola stagione di lavoro o anche a una sola giornata, ripetuta più volte nel corso del tempo. La dimensione della mobilità è essenziale perché ci permette di collegare l’esperienza frontaliera sia all’emigrazione verso l’estero sia all’emigrazione interna a un dato territorio nazionale. Il frontalierato si presenta come una terza variabile, né emigrazione internazionale né emigrazione interna, e proprio per questo ha delle sue caratteristiche determinanti, che lo riempiono di peculiarità di tipo politico, economico e culturale. Anche se spesso dotati di statuti particolari, i frontalieri devono inevitabilmente fare i conti con l’esistenza di un altro ordine amministrativo, economico, fiscale, sanitario, scolastico, addirittura monetario diverso da quello proprio del territorio da cui si muovono. E l’esistenza di questa diversità ha generato nel corso del tempo conflitti, polemiche, rivendicazioni, aperture e chiusure che hanno fatto della figura del lavoratore frontaliero un oggetto di contesa. Ma la diversità dei territori e anche la diversità dell’ordine statale spesso stanno proprio alla base dello sviluppo di migrazioni frontaliere: le persone partono perché cercano oltrefrontiera qualcosa che non trovano al di qua del confine e al di là della frontiera qualcuno le cerca perché hanno caratteristiche che evidentemente nessuno soddisfa nei luoghi di destinazione. Questo intreccio determina lo sviluppo delle migrazioni sul confine ma contemporaneamente scatena i conflitti cui abbiamo accennato.
La seconda condizione necessaria per poter parlare di frontalierato è il superamento di una frontiera nazionale e quindi la presenza di uno spostamento che, letteralmente, rappresenta una mobilità di tipo internazionale. Questa situazione sarebbe già di per sé delicata perché, come sappiamo, in tutta l’età moderna e contemporanea le frontiere si sono caricate di un valore e di un significato che ne hanno fatto dei luoghi critici dal punto di vista politico. La realtà è ancora più complessa se guardiamo ai tipi di frontiera che in questo volume hanno ricostruito gli autori dei saggi: si tratta delle frontiere tra l’Italia e la Francia, la Svizzera, l’Impero Austroungarico ieri, l’Austria, la Slovenia, la Jugoslavia nei tempi più vicini a noi. Frontiere che, negli anni che vanno dall’unità d’Italia a oggi, hanno visto scorrere moltissimo sangue, sono state spostate e riposizionate, hanno rappresentato un elemento di scontro politico durissimo in diversi periodi storici. Il superamento della frontiera, tra l’altro, ha significato nell’età contemporanea non solo il superamento di un confine nazionale, ma anche il superamento di un confine tra “blocchi contrapposti” (il confine con la Jugoslavia all’epoca della guerra fredda), il superamento di un confine dell’Unione europea (il confine con la Svizzera), il superamento – proibito ma nei fatti percorso – di un confine con uno Stato nemico (l’Impero austroungarico nella prima guerra mondiale e la Francia nella seconda guerra mondiale, solo per fare due esempi).
La terza condizione necessaria è la presenza di uno spostamento di breve raggio. Il frontaliero supera il confine, spesso tutti i giorni, ma proviene da una zona situata a ridosso del confine stesso. Qualora ciò avvenga quotidianamente, si potrebbe esser tentati di ricondurlo a una semplice forma di pendolarismo internazionale, ma il superamento della frontiera intercetta un così ampio numero di questioni politiche, economiche, culturali, istituzionali da richiedere una maggiore precisione sul piano della definizione. Inoltre il superamento della frontiera non è necessariamente un passaggio semplice, nel senso che a seconda delle tensioni tra gli Stati, e delle loro disposizioni, può richiedere molto tempo, comportando anche molti controlli e il disbrigo di formalità burocratiche. Il breve raggio degli spostamenti induce molti osservatori a soffermarsi sulla continuità territoriale tra luoghi separati da frontiere nazionali. Non dobbiamo infatti dimenticare che in molti casi analizzati in questo fascicolo il frontaliero diventa tale solo a seguito dello spostamento delle frontiere, nel senso che, precedentemente alla ridefinizione dei confini che li avevano contenuti per decenni, gli spostamenti avvenivano all’interno del medesimo territorio nazionale e non erano quindi configurabili come movimenti frontalieri.
Un’ultima questione sulla quale riteniamo opportuno soffermarci in sede di definizioni preliminari è quella che riguarda il ruolo che i frontalieri rivestono nelle economie e nei mercati del lavoro dei rispettivi paesi di residenza e di impiego, di cui costituiscono un frammento di forza lavoro del tutto particolare. Questi lavoratori svolgono normalmente una funzione utile dal punto di vista delle imprese dei paesi in cui trovano impiego per due ragioni principali, non necessariamente compresenti: provengono da regioni con un livello salariale inferiore e sono disposti a lavorare per salari ridotti; possiedono delle competenze o un mestiere di cui l’economia del paese di impiego ha bisogno, in ragione della scarsa disponibilità interna. I frontalieri possono diventare addirittura uno degli assi su cui sviluppare un distretto economico, con le sue regole e i suoi equilibri. E, in questo senso, possono costituire contemporaneamente un fattore di equilibrio, poiché forniscono la manodopera di cui un paese non dispone, e di squilibrio, dal momento che possono essere percepiti come concorrenziali dai lavoratori locali o usati come strumenti di pressione al ribasso sui salari.
Questa sommaria definizione del frontalierato ci permette di accedere ai temi più caldi della storiografia che se ne è occupata fin qui. Innanzitutto è una storiografia che si è confrontata con le migrazioni e la loro storia. Non solo perché, come abbiamo detto, lo spostamento può essere molto breve, pur configurandosi come un fenomeno migratorio, ma anche perché la presenza di lavoro oltrefrontiera ha generato flussi migratori provenienti da molto lontano e diretti verso quelle zone dove è possibile attraversare facilmente il confine. È il caso della frontiera italo-svizzera che, a partire dagli anni cinquanta del Novecento, ha visto crescere notevolmente il flusso di lavoro frontaliero, via via alimentato dagli arrivi di persone provenienti dall’Italia meridionale e da paesi stranieri, perché attirate dalla possibilità di vivere in Italia, pur lavorando in Svizzera, e in particolare nel Canton Ticino. Anche recentemente, sono emersi fatti di cronaca che hanno descritto la realtà talvolta drammatica di questo flusso. Il 9 novembre 2014 a Germignana, in provincia di Varese, a 3 Km dal confine con la Svizzera, in occasione di uno sfollamento dovuto al maltempo, è stato scoperto un capannone industriale riadattato ad abitazione abusiva, dove vivevano 12 operai provenienti dalla Basilicata, tre rumeni e un polacco, impiegati in Svizzera da un imprenditore italiano3.
Ma non è solo la storia delle migrazioni a interagire con la questione frontaliera. È anche, chiaramente, la storia dell’economia e del lavoro delle zone interessate, la storia politica, la storia sociale, la storia amministrativa delle istituzioni delle zone coinvolte. E in un contesto così suscettibile di trasformazioni e di discrezionalità non manca anche la questione del rapporto tra legalità e illegalità. In particolare, le zone alpine sono attraversate in tutta l’età contemporanea dal fenomeno del contrabbando, dedito principalmente al traffico illegale di merci, ma spesso intrecciato al passaggio illegale delle persone.
Gli autori si sono confrontati con l’insieme di questi problemi e crediamo che il risultato rappresenti l’apertura di un punto di osservazione che può avere significativi sviluppi in futuro.
Il saggio di Matteo Sanfilippo avvia una prima riflessione storiografica sulla fortuna del tema, concentrandosi soprattutto sulle opere dei contemporaneisti, pur sottolineando come esistano studi sulle medesime zone alpine che gettano le basi anche fino alla prima età moderna. Il tema è strettamente legato alla sua presenza nel dibattito pubblico e non è un caso che la zona di gran lunga più frequentata dagli studi storici è proprio quella del confine tra Italia e Svizzera, in particolare il Canton Ticino, dove periodicamente anche negli ultimi anni si riaccendono le polemiche sul lavoro frontaliero. Opportunamente, l’autore sottolinea come ci sia bisogno di capire anche ciò che succede nei territori di frontiera di altre zone dell’Europa e di altre zone del mondo, aprendo a una comparazione che potrà rappresentare un orizzonte importante per gli studi futuri.
Il saggio di Alessio Marzi è dedicato alla frontiera orientale, attraversata da una notevole pluralità di flussi nell’Ottocento e nel Novecento. Flussi di diversa natura: di origine economica, legati a sfollamento ed esilio, conseguenza del riposizionamento delle frontiere nazionali e dei diversi regimi che si sono alternati al di qua e al di là del confine. Flussi che hanno comportato un continuo travaso di popolazioni e una grande quantità di conflitti, sociali e nazionali soprattutto. Ma accanto ai percorsi più famosi sono continuati nel corso del tempo anche movimenti di continuità legati al lavoro e al territorio, che hanno attraversato la frontiera mettendo tra l’altro in crisi le stesse letture “mainstream” degli esodi. La frontiera orientale rappresenta indubbiamente un laboratorio anche per lo studio delle politiche della memoria e l’uso della storia delle frontiere.
Stefano Gallo si concentra non su un territorio specifico, ma su un periodo in particolare, gli anni che vanno dal 1938 al 1944. Il fascismo, attraverso i suoi uffici legati all’amministrazione della politica migratoria (gestiti dal Commissariato per le migrazioni interne e la colonizzazione), si serve dei movimenti di frontiera per sostenere lo sforzo bellico e per gestire gli inevitabili contraccolpi legati al rimpatrio e al ritorno di italiani dopo l’avvio del conflitto. Le frontiere e lo spostamento pianificato delle popolazioni poste sul confine rappresentano uno strumento di politica migratoria legato allo sviluppo della seconda guerra mondiale, ma strettamente connesso anche alle politiche di contrasto all’urbanizzazione e di contenimento della mobilità territoriale, culminate nella legge contro l’urbanesimo del 1939.
Paolo Barcella si sofferma sulla peculiare realtà del Ticino, dove fin dall’Ottocento un flusso costante di lavoratori provenienti dalle aree italiane prossime al confine si dirige per lavorare, approfittando di un mercato del lavoro stimolato da un complesso processo di industrializzazione. Ma chi trae vantaggio dall’emigrazione frontaliera sono anzitutto i datori di lavoro presenti nel Cantone – talvolta provenienti dalla Svizzera Interna proprio in ragione della presenza di questa manodopera – che impiegano gli italiani con paghe basse e condizioni più scadenti rispetto ai lavoratori svizzeri. Barcella analizza su un lungo periodo, fino agli Ottanta del Novecento, le reazioni, l’iniziativa, l’organizzazione delle strutture sindacali che nelle diverse stagioni (sia in Italia sia in Svizzera) si trovano di fronte a una situazione particolarmente difficile da gestire. Il sindacato cerca di volta in volta le strade più percorribili per dare una risposta alle differenti esigenze in campo: l’aspirazione a salari più equi degli italiani, la necessità da parte dei lavoratori svizzeri di non abbassare il costo del lavoro attraverso l’uso della manodopera italiana in funzione regressiva. In mezzo, le politiche adottate dalla Confederazione e le ripercussioni sul piano sindacale delle scelte governative.
Giulia Fassio, a partire da una prospettiva storico-antropologica, si sofferma invece sulla frontiera italo-francese, concentrandosi sulla storia dell’emigrazione italiana a Grenoble, lungo un percorso che inizia nell’Ottocento e si spinge fino ai giorni nostri. Il senso della frontiera, il modo con cui essa viene percepita dai migranti nelle diverse fasi, l’autorappresentazione della comunità italiana, le stagioni diversissime in cui si svolge l’emigrazione a Grenoble sono i punti-chiave della sua analisi. Tra l’altro, Fassio mette in comunicazione vecchie e nuove migrazioni italiane, confrontando la presenza costante della frontiera nei flussi fino agli anni Sessanta-Settanta del Novecento e la sua apparente scomparsa nella mobilità più vicina a noi, che riguarda una nuova corrente migratoria.
Nel saggio di Garufo i frontalieri francesi in Svizzera sono presentati come la soluzione ideale per rispondere a esigenze economiche specifiche ma, contemporaneamente, come la causa di tensioni sociali rilevanti e come l’obiettivo cui si indirizza l’astio di un’ampia fascia di popolazione, sui due lati della frontiera. Se in Svizzera gli atteggiamenti xenofobi riguardano principalmente i lavoratori svizzeri, in Francia i frontalieri sono percepiti in modo problematico anche da sezioni della classe dirigente. Garufo si concentra in particolare sulla frontiera di nord-ovest, che attraversa un’area considerata come un distretto industriale economicamente coerente, i cui settori forti sono l’orologeria, la piccola meccanica di precisione e l’elettronica. In questo quadro, i frontalieri francesi hanno finito per costituire un frammento di forza lavoro integrato, dove gli stessi imprenditori svizzeri investono sulla formazione professionale nelle scuole francesi. La creazione della Comunità di lavoro del Giura, ribattezzata Conferenza Transjurassiana nel 2011, conferma come la dimensione transfrontaliera della regione, al di là delle tensioni a cui si è accennato, corrisponda alla volontà politica di chi la amministra.
Rolandi, infine, analizza i flussi di frontalieri jugoslavi sul confine orientale, con particolare attenzione al periodo successivo alla metà anni settanta. Se nei venticinque anni successivi alla IIGM il confine in questione era stato caratterizzato da una notevole “porosità” – sintomo dei buoni rapporti di vicinato tra Italia e Jugoslavia – a partire dagli anni Settanta il flusso si sviluppa come conseguenza della scelta da parte della Jugoslavia di Tito di aprire, unico tra i paesi socialisti, all’emigrazione economica. Il frontalierato jugoslavo si presenta così come forza lavoro non concorrenziale con quella italiana – perché occupata in impieghi vacanti –, meno problematica per il governo Jugoslavo rispetto alla normale emigrazione – perché quei lavoratori guadagnavano in Italia ma vivevano in Jugoslavia, e quindi erano meno soggetti a influenze politiche altre – e, quindi, strumento di una maggiore integrazione tra i sistemi economici dei due paesi. Nel saggio si sottolinea come una fase critica si è vissuta a seguito del Trattato di Osimo (1975), con il quale si intendeva costituire una zona franca di produzione industriale sul confine, vista da alcuni come un pericolo di penetrazione economica e di invasione da parte della forza lavoro jugoslava.
1 Per un quadro generale sul fenomeno del frontalierato in Europa si vedano: Faire frontière(s), Raisons politiques et usages symboliques, a cura di Carine Chavarochette, Magali Demanget e Olivier Givre, Paris, Karthala, 2015; Raffaele Iaria, I frontalieri italiani nell’attuale periodo di crisi, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel mondo 2010, Roma, Edizioni Idos, 2010, pp. 91-94; Philippe Hamman, Les travailleurs frontaliers en Europe. Mobilités et mobilisations transnationales, Paris, L’Harmattan, 2005; Véronique Soutif, L’intégration européenne et les travailleurs frontaliers de l’Europe occidentale, Paris, Harmattan, 1999; Parlament Européen, Les travailleurs frontaliers dans l’Union européenne, document de travail, 1997, http://www.europarl.europa.eu/workingpapers/soci/w16/summary_fr.htm; Bjørn Thomassen, Border studies in Europe: symbolic and political boundaries, anthropological perspectives, “Europaea”, 2, 1 (1996), pp. 37-48; Conseil de l’Europe, Rapport sur la coopération transfrontalière en Europe, Quinzième session, Strasbourg, 10-12 juin 1980.
2 Per un approccio alle varie questioni di cui occorre tenere conto per comprendere il fenomeno nella sua complessità storica, sociale, economica, antropologica, geografica si vedano almeno: Philippe Hamman, Sociologie des espaces-frontières. Les relations transfrontalières autour des frontières françaises de l’Est, Strasbourg, Presses universitaires de Strasbourg, 2013; Pier Paolo Viazzo, Frontiere e confini: prospettive antropologiche, in Confini e frontiere nell’età moderna. Un confronto tra discipline, a cura di Alessandro Pastore, Milano, Franco Angeli, 2007, pp. 21-44; Paola Corti, I movimenti frontalieri al femminile. Percorsi tradizionali ed emigrazione di mestiere dalle valli cuneesi alla Francia meridionale, https://www.departement06.fr/documents/Import/decouvrir-les-am/rr132-1995-04.pdf; Franco Pittau, Regioni nordorientali minoranze e migrazioni, Pordenone, Istituto Regionale Studi Europei del Friuli Venezia Giulia, 1987, e La collettività italiana in Austria. Indagine socio-statistica, “Affari Sociali Internazionali”, 10, 3 (1982), pp. 73-80; Regione Liguria, Il frontalierato in Liguria. Analisi delle problematiche sociali e territoriali nel comprensorio ventimigliese, Genova, Istituto Santi, 1977; Bruno Gozzi, I frontalieri della Liguria occidentale: analisi sociologica del fenomeno frontaliero nelle aree occidentali della Liguria, Roma, Abete, 1974; Louis Bauvir, Les travailleurs frontaliers des régions wallonnes: Synthèse historique, juridique et statistique. Analyse d’une enquête socio-économique. Étude exécutée à la demande du Ministère de l’Emploi et du Travail, Liège, Impr. H. & M. Schaumans, 1967.
3 Il frontalierato diretto verso la Svizzera è quello più studiato. Per intenderne le ragioni, e quindi la rilevanza, si vedano: Martin Kunder, Italia e Svizzera dal 1945 al 1970. Commercio, emigrazione, finanza e trasporti, Milano, Franco Angeli, 2012; Oscar Mazzoleni e Remigio Ratti, Vivere e capire le frontiere in Svizzera. Vecchi e nuovi significati nel mondo globale, Locarno/Bellinzona, Dadò/Coscienza svizzera, 2014; Franco Narducci, I lavoratori transfrontalieri in Svizzera, in Fondazione Migrantes, Rapporto italiani nel mondo 2008, Roma, Edizioni Idos, 2008, pp. 349-359; La Suisse et la coopération transfrontalière: repli ou redéploiement?, a cura di Jean-Philippe Leresche e René Levy, Zurich, Seismo, 1995; La main-d’œuvre frontalière en Suisse, a cura di Charles Ricq, Genève, Institut universitaire d’études européennes, 1990; Basilio Biucchi e Gaston Gaudard, Régions frontalières – Grenzregionen – Regioni di frontiera, Saint-Saphorin, Georgi, 1981; Dossier de l’Institut universitaire d’études européennes, Genève et l’Europe: un exemple de coopeération régionale transfrontalière, Givevra, 1979.