Per ammissione della stessa autrice, il libro non è un “trattato di storia o di sociologia”, troppo rapsodici sono, infatti, tanto gli impianti disciplinari quanto la contestualizzazione storica. Il libro è dichiaratamente “un omaggio al paese di Lindeman, alla miniera di Zolder e agli uomini e alle donne che vi hanno trascorso la propria esistenza”. L’antropologa Sonia Salsi, figlia, nipote e sorella di minatori italiani in Limburgo, non ha adottato neppure il consueto distacco soggettivo che caratterizza le opere scientifiche. Tuttavia ciò non ne diminuisce affatto l’interesse poiché, da protagonista, l’autrice racconta come quegli italiani e i loro figli percepirono e come oggi ricordano quella vicenda. Ad esempio, nella parte iniziale del libro, riesuma il mito popolare secondo cui gli immigrati dalla Penisola furono inviati per “…“scambiare” forza-lavoro di italiani con il carbone belga”. In realtà quello “scambio” non caratterizzò solo l’emigrazione in Belgio dato che era già stato attuato con la Francia tra le due guerre, con l’accordo migratorio Mussolini-Hitler del ‘37 e ribadito nel 1947 con la Cecoslovacchia e con la Francia. L’autrice sfugge, in compenso, alla ricorrente retorica, ispirata dalle autorità del tempo, secondo cui i minatori italiani sarebbero stati gli “eroi” che permisero di vincere la “battaglia del carbone”, e coglie che furono chiamati colà per evitare di concedere quelle migliori condizioni di lavoro che avrebbero trattenuto il proletariato autoctono dal disertare le miniere.
Dopo l’illustrazione della nascita e del declino delle sette miniere del Limburgo, le otto interviste conclusive offrono i dati più interessanti tanto della storia che della sua rielaborazione nel ricordo dei protagonisti. Innanzitutto, emerge insospettatamente forte il ruolo dei “fogli rosa” nel reclutare, a riprova del grande potere mediatico che conservavano al tempo le affissioni murali, ed emerge soprattutto la meno nota onnipresenza in Italia dei comizi pubblici di propaganda da parte degli ingegneri minerari belgi. Non molto era cambiato, insomma, da quando gli agenti delle compagnie di navigazione e delle imprese estere battevano le campagne italiane a caccia di braccia.
Il viaggio risulta, inoltre, come un ricordo incancellabile poiché percepito come una cesura irrevocabile tra la vita precedente e quella nuova. Del viaggio si ricorda l’angosciosa incertezza e lo spaesamento, i reclutati, infatti, erano generalmente inconsapevoli delle località e delle condizioni di vita e lavoro a cui erano destinati, a conferma della voluta reticenza della propaganda migratoria governativa. Si ricordano il trauma della selezione medica, l’ossessione per i documenti, le rudi tradotte ferroviarie, il trovarsi confusi, negli immensi dormitori sotterranei della stazione centrale di Milano, tra masse di sconosciuti in una babele di dialetti incomprensibili. Tutti aspetti che ci ricordano quanto quelle modalità d’espatrio derivassero dalla recente consuetudine con le tradotte militari e le deportazioni dei lavoratori.
Le condizioni abitative a destinazione confutano, invece, il consueto racconto dell’emigrazione italiana in Belgio: al contrario che in Vallonia, in Limburgo molti italiani furono accolti immediatamente in case in muratura più che in baracche. I ricordi delle condizioni di lavoro confermano, invece, quanto è già noto: il terrore e la “diserzione” di massa dalla miniera, l’insospettata durezza del lavoro, gli incidenti, la silicosi, la morte. Le interviste riesumano anche l’esperienza delle donne: l’impresa familiare della migrazione struttura fortemente i ruoli di genere distinguendoli, sì, ma rendendoli complementari. Le donne emergono, dunque, come protagoniste: sono spesso loro a decidere la partenza definitiva del nucleo familiare, sono loro che raggiungendo il coniuge ne scongiurano il rimpatrio, sono loro che, da un lato, tramandano la lingua, la cucina e i culti delle zone d’origine ma, dall’altro, costruiscono i rapporti con la società d’accoglienza. Eppure emerge come specialmente le donne, e in generale tutta la prima generazione migrante, rimanesse un corpo estraneo alla società di destinazione: nessuna delle intervistate di prima generazione ha appreso il fiammingo se non in modo rudimentale, e ognuna ritiene di non averne avuto quasi mai bisogno, vuoi perché la loro vita si svolgeva quasi esclusivamente tra i connazionali, vuoi perché nei pochi e burocratici contatti con gli autoctoni, erano piuttosto questi ultimi a masticare qualche parola di italiano.
Se i rapporti della prima generazione con gli autoctoni rimanevano dunque cordiali, ma superficiali, la condizione di uguaglianza professionale e lo stato di bisogno paiono aver suscitato una forte integrazione reciproca tra gli italiani delle diverse regioni, testimoniata soprattutto dai molti matrimoni misti, ma anche dal piacere di scambiarsi i rispettivi piatti regionali e dal condividere feste e rituali. Quanto all’iniziale disagio di comunicare tra dialetti reciprocamente quasi incomprensibili, questo portava al ricorso alla lingua italiana, inconsueta prima dell’espatrio. Si direbbe, dunque, che, almeno nel caso delle miniere belghe, le migrazioni estere siano state una grande occasione di nazionalizzazione delle masse italiane, a somiglianza delle coeve migrazioni interne.
Quello che però emerge come il ricordo che più di ogni altro illumina l’auto-percezione della propria intera esistenza, il ricordo che pare consapevolmente darle un senso, è la fortissima solidarietà, l’amicizia immediata e profonda, la fiducia reciproca che regnava, una solidarietà che gli intervistati di prima e di seconda generazione fanno derivare dal fatto di trovarsi in condizione di uguaglianza professionale e dunque sociale, senza distinzioni di rango, e dalla situazione di acuto bisogno. Il soccorso reciproco nelle viscere della terra non sorprende, ma che dire delle case sempre aperte alla visita improvvisata di chiunque, di giorno e di notte? E dell’eccitazione di trovarsi tutti insieme in treno nel rituale viaggio di andata e di ritorno per le vacanze in Italia, tra scambi di cibi regionali, giochi, ascolto collettivo della musica, cura indistinta dei propri come degli altrui bimbi? Forse, per gli anni Sessanta e Settanta, anche il clima dell’epoca e le sue utopie comunitarie non erano estranei all’atmosfera di quei viaggi. Con la chiusura delle miniere, quello spirito di solidarietà interpersonale se ne va per sempre, mentre declina radicalmente anche la solidarietà istituzionalizzata, il welfare. Ed entrambi lasciano vuoto, incertezza e nostalgia.
Infine, le interviste danno voce anche alla seconda generazione dove soprattutto i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza cementificano la comunità e vanno a costituire le identità, ben più legate al Limburgo che ai borghi italiani dei genitori e delle vacanze estive. I luoghi identitari sono in parte i medesimi dei minatori, specialmente i bar, le sale da festa e da ballo e, dunque, in parte legano per sempre i figli al vissuto dei genitori. La lingua, invece, rivela le differenze generazionali: non solo i figli parlano perfettamente il “flamano” e, molto meno, l’italiano, ma è delle seconde generazioni quel tipico linguaggio che distingue ancora ogni cité mineraria da qualunque altra. Il legame dei figli con il ruolo di eterno ospite dei genitori, però, non si cancella e perciò gli intervistati di seconda generazione si sentono stranieri in Italia, ma differenti dai belgi in Limburgo. L’autrice specialmente: a ventun anni corona il sogno di andare a vivere in Italia, ma dopo oltre un ventennio di permanenza si rende conto “che alla fine siamo quello che siamo per dove siamo nati e cresciuti”, e conta dunque “di ritornare in Belgio per completare la mia ricerca di identità mista da italo-belga”.