Non è semplice recensire un libro, che volutamente si pone in una categoria letteraria tutta sua: un memoriale, come asserisce l’autrice, che racconta una vicenda realmente accaduta (vedi l’intervista a cura di Paola Corti qui pubblicata). La storia è drammatica ed è una Götterdämmerung migratoria, nella quale una famiglia di origine piemontese, inseritasi nella borghesia argentina, viene fatta massacrare ed è depredata da un ammiraglio golpista di lontana origine dalla Svizzera italiana. Come recita il sottotitolo stesso del libro, questa è la storia di El secuestro, la desaparición y el robo millonario que el almirante Massera cometió contra la familia Cerutti. Dunque è una testimonianza particolarmente vivida di quello che passarono gli argentini durante la dittatura e di quello che soffrì anche la parte più integrata dell’immigrazione italiana. Analogamente vivido è il quadro della reazione e/o dell’adattamento alla dittatura. Le più giovani generazioni davanti alla scomparsa delle più vecchie, distrutte dalla repressione o più semplicemente dall’avidità di una giunta militare interessata soprattutto ad arricchirsi, reagiscono lottando, oppure si lasciano affogare nella disperazione, o infine riemigrano iniziando una diaspora fatta di continui va e vieni che prosegue ancora oggi.
La maggiore difficoltà del recensore è nel valutare le qualità letterarie di un racconto autobiografico che narra di ferite troppo recenti e troppo profonde per essere cancellate o comunque assorbite nello e dallo stesso atto letterario. Soprattutto perché non c’è lieto fine: non soltanto i morti sono morti, vittime della dittatura o della propria incapacità di reagire, ma i vivi non riescono più a trovare un proprio equilibrio e continuano a vagare per il continente americano o a ritornare nel Vecchio Mondo. In sostanza non vi è una catarsi finale: i cattivi non sono puniti, i buoni non sono premiati, la vita non ritrova un porto sicuro. Il lettore non riesce di conseguenza a trovare la tradizionale consolazione dell’atto di leggere, anche perché lo scrittrice o quantomeno la scrittrice che è protagonista del testo non trova liberazione nello scrivere e continua a protestare la propria rabbia verso quanto accaduto. La lettura è di conseguenza malaisée e spinge a interrogarsi sui guasti della dittatura, ma anche su quello che essa fa venire a galla nella famiglia vittima della violenza.
In effetti l’aspetto déroutant del libro è dato non tanto dalla vicenda macrostorica e dalla difficoltà (impossibilità?) dell’Argentina di recuperare e di superare il dramma vissuto, ma anche da quella microstorica, in questo caso dalla dissoluzione della famiglia immigrata. Questa è alla fine del racconto divisa, perché l’emigrazione ha ripreso e perché uno solo è riuscito a farsi rimborsare dal governo democratico per le perdite economiche familiari e ha cercato e in gran parte ottenuto di non dividere tale rimborso con gli altri parenti. Però, essa è percorsa da sotterranee tensioni centrifughe già prima della tragedia: alla riuscita di un’emigrazione contadina, che si inserisce nel luogo di immigrazione e si arricchisce, corrisponde il perdersi della seconda generazione tra gioco, alcol e aspirazioni politiche e quindi la protesta di una terza, che scopre soprattutto le differenze di genere e di età non accettando più o comunque accettando di meno la posizione asservita dei giovani e soprattutto delle donne. Tutto questo non avviene, però, pacificamente, perché alla violenza che permea la società argentina e che esplode nella guerra civile e nella dittatura corrisponde la violenza dei costumi familiari.
Nel racconto autobiografico le mogli e le figlie, protagonista compresa, sono ripetutamente e violentemente picchiate, mentre la nazione si avvia verso il baratro. L’esplosione della violenza politica, gestita dalla dittatura per derubare i connazionali, non fa che magnificare quello che già succede nelle singole famiglie argentine: amiche e amici delle donne picchiate non sembrano infatti stupirsi dell’accaduto, testimoniando così della brutalità endemica almeno di quell’ambiente. Tutto ciò fa pensare che l’Italia degli anni 1970, almeno quella settentrionale si stava invece allontanando da quei modelli comportamentali e qui pare di cogliere, oltre all’influenza della società argentina con i suoi miti machisti e violenti, anche una sorta di congelamento di costumi comuni agli ambienti rurali dai quali sono partiti gli emigrati. In conclusione la lettura di questo libro è difficoltosa e aspra, come indubbiamente è stato pure lo scriverlo. In compenso dalle pieghe del racconto scivolano fuori elementi troppo spesso nascosti in una storia dell’emigrazione tradizionalmente tesa a far risaltare gli aspetti positivi di quell’esperienza e dei suoi protagonisti. Il parto difficile di Maria Josefina Cerutti ci ricorda dunque di quanta violenza, anche sui propri cari, è intrisa tutta la storia umana e di quanto sia sbagliato aver cercato di nasconderlo.