Ospiti: tre voci migranti in Italia

In un articolo del novembre 2009 sulla rivista Internazionale, la scrittrice italo-somala Cristina Ali Farah parlava di Geedi, un giovane migrante somalo, allievo della scuola di italiano per stranieri Asinitas, che aveva scritto una canzone intitolata “Istaranyieri baan ahai”, sono straniero[1]. Da tempo, nel Circolo Gianni Bosio (un’organizzazione romana indipendente di ricerca sulle culture popolari, la musica popolare, la storia orale) ci stavamo chiedendo se la musica dei migranti che ascoltavamo nelle strade, nei tram, nelle metropolitane di Roma, non fosse davvero la nuova musica popolare della città multietnica e multiculturale. La notizia su Geedi, insieme ad altri incontri avvenuti in quei giorni, ci convinse che si poteva fare. L’incontro con lui qualche tempo dopo grazie a Cristina Ali Farah fu l’inizio di un progetto che va avanti ormai da più di quattro anni e che,rovesciando il senso di una canzone romana del secondo dopoguerra, ha preso il titolo di “Roma forestiera”[2].

In questo intervento vorrei parlare di tre dei protagonisti di questa ricerca: Geedi Kuule Yusuf; Jagjit Rai Mehta, indiano del Punjab che vive e lavora come bracciante di stalla in una cascina vicino Piadena (provincia di Cremona); Camilo Cosmecio, che lavora come addetto alle pulizie in un hotel di Porto San Giorgio (provincia di Fermo). Quello che li rende significativi è il modo in cui attraverso la musica testimoniano criticamente dell’esperienza e della condizione migrante: Camilo nel modo osmotico e implicito che caratterizza quasi tutto il passaggio della musica dalle realtà d’origine al contesto italiano, Geedi e Jagjit componendo invece canti in cui descrivono esplicitamente, sia pure in modi quasi opposti fra loro, la loro esperienza di migranti.

Quando arrivai a Porto San Giorgio per una conferenza, e mi fermai a poggiare il bagaglio in albergo, Camilo stava lavando il pavimento della hall, e cantava. “Canta sempre mentre lavora”, mi dissero gli addetti della reception. Gli chiesi se potevo registrare le sue canzoni e lui mi diede appuntamento a un paio d’ore più tardi, a fine lavoro. Ci sedemmo nella sala ristorante, in quel momento vuota; i colleghi italiani di Camilo erano molto partecipi dell’evento e si davano molto da fare per chiudere le porte in modo che non venissero a disturbarci rumori dall’esterno. Tutto era pronto – ma Camilo non riuscì a cantare. A metà canzone, la voce gli si spezzava in pianto e non riusciva ad andare avanti. La canzone che cercava di cantare, e che poi cantò con più calma, insieme ad altre, la mattina dopo, era questa:

 

Noong isilang ka sa mundong ito,

Laking tuwa ng magulang mo.

At ang kamay nila ang iyong ilaw.

 

At ang nanay at tatay mo,

‘Di malaman ang gagawin.

Minamasdan pati pagtulog mo.

 

Sa gabi napupuyat ang iyong nanay

Sa pagtimpla ng gatas mo.

At sa umaga nama’y kalong

Ka ng iyong amang tuwang-tuwa sa iyo.

 

Quando nascesti in questo mondo

Tua madre e tua madre videro un sogno realizzato

Un sogno avverato, la risposta alle loro preghiere.

 

Per loro eri un bambino speciale

Gli davi gioia con ogni sorriso

Ogni volta che piangevi ti erano accanto.

 

Figlio, non sai di che cosa erano capaci

Per darti tutto quello che l’amore può dare

per aprirti la strada, come è vero Dio,

sarebbero pronti a morire, se serve, per averti qui

 

La canzone si intitola “Anak”, “figlio”, ed è un successo di Freddie Aguilar, una star internazionale filippina[3]. La scelta di Camilo Cosmecio e la sua commozione erano facili da interpretare: è in Italia da otto anni (sua moglie anche da prima) e da allora non hanno più visto il figlio che hanno dovuto lasciare nelle Filippine e con cui non riescono a ottenere il ricongiungimento familiare. L’originale lo rintracciai facilmente su YouTube, e mi accorsi che nel passaggio da Freddie Aguilar a Camilo Cosmecio era successo qualcosa di invisibile, ma cruciale. Così come l’ha scritta Fred Aguilar, la canzone infatti ha due parti. L’accento sull’amore dei genitori per il figlio, descritto nella prima parte, serve a rendere più bruciante la ferita descritta nella seconda: “sono passate le stagioni e gli anni, il tempo è passato veloce, adesso sei forte, e non capiamo che cosa ti è successo, sembri odiare i tuoi genitori, parla, dicci che cosa abbiamo sbagliato”. Ma “dimenticando” questa seconda strofa e ricordando solo la prima, Camilo trasforma una canzone sul conflitto generazionale, sull’ingratitudine filiale e l’incomprensione parentale, in una canzone sulla nostalgia di un emigrante per il figlio lontano. È la funzione creativa dell’oblio: semplicemente tagliando il finale, la stessa canzone è diventata un’altra.

La trasformazione di “Anak” è un esempio del processo di cambiamento dei materiali culturali che i migranti portano con sé: i testi restano apparentemente gli stessi ma cambiano di senso per il solo fatto di cambiare di luogo (o di fonte: quando un chitarrista di strada romeno su un tram a Roma canta “Vagabondo”, la canzone di Nicola Di Bari sulle labbra di un “vagabondo” vero diventa infinitamente più seria).[4] È relativamente meno frequente il caso in cui l’esperienza della migrazione sia narrata esplicitamente in nuove composizioni. Per questo l’articolo di Cristina Ali Farah su Geedi ci parve un segnale importante.

Non fu facile rintracciare Geedi, che come molti migranti ha una vita precaria e mobile, ma infine ci vedemmo alla scuola Asinitas e registrammo la sua canzone.

 

Istaranyeeri baan ahayoo

Istaranyeeri baan ahayoo

 

Italiya osbitaan u ahay

 

Afrikan aan ahayoo

Afrikan aan ahayoo

Animal armi qaataan ka ordeynaa

 

Afrikana ma ahin

eoropana ma ahin

Imminka intee nahay innagu?

 

Sono straniero

Sono straniero

Sono ospite dell’Italia

 

Sono africano

Sono africano

Fuggo dagli animali che portano armi

 

Non siamo africani

Non siamo europei

Ora dove siamo noi tutti?

 

Spiega Geedi:

 

Nessuno mi ha chiesto perché l’ho scritta. Quando sono arrivato non capivo niente e continuavo a sentire questa parola, stanier, stranier, e non capivo che cosa voleva dire perché mi si rivolgeva questa parola, mi chiedevo che cosa vorrà dire, sarà un insulto, vorrà dire stupido, qualche cosa così. Dopo tre mesi che ero qua e sono venuto a scuola ho capito che cosa significava, che la gente non accettava questi stranieri, appena sentivano questa parola si giravano dall’altra parte, come in segno di disapprovazione. A quel punto ho capito che era una parola che si usava per i rifugiati, per le persone che venivano da fuori, per indicare le persone che non facevano parte di questo paese, di questo luogo. Difatti nel primo verso dico anche “ospite”, ho imparato questa parola quando ho preso il permesso di soggiorno. Permesso di soggiorno – permesso di stare per dei giorni. I somali non hanno un passaporto riconosciuto, gli hanno chiesto dei soldi per avere un titolo di viaggio, per muoversi. Ma non serve a nulla perché puoi solo viaggiare all’interno dell’Italia, è come un abbonamento della metro. Tutto qui, permesso soggiorno e titolo  viaggio. Queste tre cose, la parola straniero, il permesso di soggiorno, il titolo di viaggio mi hanno fatto capire che io non ho una legge che mi renda legale qui, ma sono soltanto un ospite[5].

 

Il cuore sovversivo della canzone di Geedi è la parola osbitaan, una parola che non esiste nella sua lingua ma è la sua maniera di pronunciare ospite, nel ritornello ripetuto dopo ogni strofa. “Ospite” è una delle ipocrite parole dei buoni sentimenti autoctoni: ci sentiamo generosi perché “ospitiamo” i migranti nel nostro paese (e nei nostri centri di “accoglienza”, veri e propri lager in cui tuttavia i rinchiusi vengono chiamati gentilmente “ospiti”. Come erano e continuano a essere gastarbeiter gli emigranti italiani a Dusseldorf o Zurigo). Ma chiamare qualcuno ospite, come spiega bene Geedi, significa dirgli che può soggiornare, stare – come lui spiega – “per dei giorni”, ma non per sempre, perché questa è casa nostra, e non sarà mai casa sua. Il soggiorno non è la stessa cosa della residenza, deve essere rinnovato periodicamente e dipende spesso dall’arbitrio delle autorità o dal clima politico del momento. È una concessione, non un diritto: “Quando venivo ero convinto che l’Italia sarebbe diventata il mio secondo paese e gli avrebbero riconosciuto dei documenti per cui potevo essere uguale alle altre persone che vivono qui”, commenta. Ecco allora parole – soggiorno, ospite – che cambiano non solo di suono ma soprattutto di senso sulle labbra di un migrante, che per di più porta con sé anche la di un’altra cultura (“In Somalia l’ospitalità ha un significato diverso, gli ospiti vengono trattati meglio”) e del colonialismo, “in Somalia gli italiani non erano ospiti – gli ospiti erano gli altri”. In inglese la nostra parola ospite si sdoppia in due: host per l’ospitante e guest per l’ospitato. Una sintetica definizione di colonialismo potrebbe essere: una relazione in cui i ruoli fra ospitante e ospitato si rovesciano.

L’esperienza di Geedi è probabilmente condivisa dalla maggioranza dei migranti in Italia. Questo rende ancora più interessante la terza delle voci a cui è dedicato questo intervento, quella di Jagjit Rai Mehta, bracciante di stalla indiano in un’azienda agricola di Piadena, in provincia di Cremona: la voce di un’esperienza quasi utopica di condivisione e integrazione senz’altro insolita ma anche per questo segno di una possibilità alternativa. Tanto per cominciare, Jagjit, figlio di un cantore sacro Punjabi, canta su una specie di monodia affine a quelle del padre, ma in italiano:

 

Vengo da lontano

non vado via

nato sulla terra

dove vive mamma mia

siamo otto fratelli

tutti andati via

uno vive Canada

tre l’Inghilterra

quattro in Italia

tutti andati via

vengo da lontano

non sento nostalgia

faccio lavori duri

faccio lavoro un po’ sporco

lavoro in stalla

abito in cascina

dove urlano vitelli, mucche

cantano galline, civette

quella è casa mia

tutta questa bella gente

è l’anima mia

vengo da lontano

non vado via

non sento nostalgia

anima mia

tutto questo bella vita mia.[6]

 

Jagjit ha composto questa canzone (che di volta in volta improvvisa aggiungendo altri versi) in occasione della Festa della Lega di Cultura di Piadena a Pontirolo di Drizzona. Si tratta di un evento annuale al quale partecipano centinaia di persone venute letteralmente da tutta Europa, per cantare, chiacchierare, mangiare insieme sull’aia e nel prato della casa contadina di Gianfranco Azzali detto “Micio” e della sua famiglia.[7] Canta Jagjit:

 

Benvenuti

festa di Pontirolo

dove si unisce

tutto il mondo

lingue diverse

costumi diversi

canzoni diverse

strumenti diversi

benvenuti

festa di marzo

qui il mangiare e bere

non è scarso.

 

Jagjit dunque capovolge il tema dell’ospitalità: è lui, immigrante indiano, che dà il benvenuto a italiani e stranieri in un luogo che adesso è casa sua. D’altra parte, in un altro verso della canzone, Jagjit ricorda che il fondatore della Lega di Cultura è spesso letteralmente ospite suo: “Ma Giuseppe Morandi \ quasi sempre mangia a casa mia”…

Ci sono molte differenze rivelatrici rispetto a Geedi. In primo luogo, Jagjit è cittadino italiano ed è da anni membro a pieno titolo di una delle più importanti esperienze di cultura e di lavoro politico-culturale di base, la Lega di Cultura di Piadena. L’idea di cantare gli deriva anche dal fatto che attorno alla Lega di Cultura si sono formate a partire dagli anni 1960 (e continuano tuttora) alcune delle esperienze più importanti del canto popolare in Italia, e che alla festa della Lega partecipano musicisti e cori da tutta l’Italia, e da Francia, Spagna, Portogallo. Negli splendidi libri fotografici di Giuseppe Morandi, i ritratti di Jagjit e della sua famiglia occupano molte pagine, e il film di Giuseppe Morandi, I colori della Bassa (presentato al festival di Venezia nel 2008) comincia proprio con le immagini di Jagjit al lavoro in stalla[8].

Questo lavoro, “un po’ duro… un po’ sporco”, peraltro, connette Jagjit e la sua storia alla storia stessa della collettività in cui vive: una delle cose che rendono straordinaria la Lega di Cultura di Piadena è appunto che è stata fondata proprio da “bergamini”, da braccianti di stalla: “La casa Azzali, dove ha sede la Lega di Cultura di Piadena”, spiega Giuseppe Morandi, “secondo me è l’università popolare più famosa della Lombardia. E i docenti di questa università sono stati: è stato Pierino Azzali, suo padre, bergamino analfabeta; è stata sua madre, la Genia, casalinga, e che ha svegliato per tutta la vita il marito e i figli alle tre e mezza di notte. Quando abbiamo fondato la Lega di Cultura di Piadena, il fondatore è stato Pierino Azzali, analfabeta. Il notaio non l’ha voluto perché non sapeva scrivere il suo nome. Mentre invece Pierino Azzali aveva capito tutto”[9]. Per Pierino Azzali, “cultura” significa un’altra cosa, e in questa cosa c’è spazio anche per Jagjit Rai Mehta e i suoi pari.

Ora, il lavoro che svolgevano Pierino Azzali e i suoi figli lo continuano gli immigrati indiani – tanto che a pochi chilometri di distanza, a Pessina Cremonese, sorge il più grande tempio Sikh d’Europa. Questi migranti, però, aggiungono alla tradizione locale un dato della loro cultura: il rapporto profondo con gli animali. Non a caso, Jagjit definisce la sua casa attraverso le voci di vitelli, galline, mucche, civette. Racconta: “Poi lavorare con gli animali, come sto girando con la famiglia. Poi, quando do latte ai vitelli è come quando do latte ai miei figli. Poi le mucche vengono vicino a me, c’è una mucca addirittura che delle volte mi apre il grembiule da dietro. Numero 305. Quella cosa mi piace tanto, che delle volte mette il suo muso sulla spalla…”. Nella cascina moderna, gli animali sono macchine seriali da latte; per Jagjit, sono individui, anche se hanno solo un numero e non un nome.

Certo, il contesto semirurale e di piccola città di Piadena può essere meno alienante della metropoli romana di Geedi. Ma il contesto e la comunità non sono tutto. A Piadena, per esempio, vive un altro musicista migrante, Roullah Taqavi, rifugiato afgano. È relativamente integrato: è sposato con una ragazza del luogo, vive con la famiglia di lei. Ma le canzoni che compone nella sua lingua e che suona con uno strumento che si costruito da solo, parlano dell’esilio, della nostalgia del padre e della famiglia che ha dovuto lasciare quando è fuggito dall’Afghanistan per non essere ucciso[10]. Jagjit, invece, a differenza di Camilo Cosmecio, di Roullah e di Geedi, ha la famiglia con sé: “E poi di solito gli indiani dicono, qualcuno dice anche balle, che facciamo soldi e andiamo via, invece io ho radici adesso qua, infatti ho casa qua a Piadena, poi i figli studiano qua, la figlia quarto anno di liceo, maschio secondo anno di elettrotecnica”. Sua moglie lavora e ha la patente; suo figlio ha cominciato a lavorare con lui. E, ancora a differenza di Camilo, di Roullah e di Geedi, Jagjit “non sente nostalgia” anche perché può tornare quando vuole a trovare la sua famiglia in India (e lo ha fatto, portando con sé Morandi e il Micio, che quindi sono stati a loro volta ospiti dei suoi genitori a casa sua in India).

Quando Violeta Joana, cantatrice rom romena che canta canzoni italiane, inglesi e spagnole sul metro A di Roma, ha infine accettato di cantarci qualche canzone romena, ha scelto per prima una canzone che parla di solitudini: “Tutti i soldi che ho nella borsa te li do se mi canti di nostalgia, e se i soldi non bastano cantami e ti sarò indebitato. Non c’è nessuno sulla strada per vedere i miei occhi tristi, per vedere che piango; solamente un guardiano di notte è venuto ad accendere una sigaretta e mi ha visto sospirare” (fra l’altro, il solitario lavoro di guardiano di notte è proprio quello che fa Geedi, quando riesce trovarlo)[11]. La solitudine dei migranti è correlativa alla separazione dalla famiglia, e al senso di risentimento di chi resta e si sente abbandonato da chi parte.[12] La seconda canzone composta da Geedi, che registrammo qualche tempo dopo, una dialogo fra l’emigrato e la moglie rimasta a casa, parla precisamente di questo:

 

Dhulkii hooyo iyo hilmihii aad dhashiyo waxaad dhaafsatay

Italiya dhex joog

Dhabbo jiifsi iyo dhalo alkool ah ayaad dhaafsatay

Dhawrasaney i maqal dhibaato aa jirtaa Itaaliyaa dhex taal

Haddaad dhawri lahayd dhayda saari lahayd dhalaad dhafsan lahayd

 

Dhowrasanow i maqal dhibaato way dhacdaa

caqli dhawacmoo alkool dhaqdaa

Dhab uma soo noqdee

 

Dhowrsaney i maqal Ruux dhoofayoo, ilmaha oo dhaliyoo

Dhowrsan jaclaa waxaan  dhib iyo dhuuniga u waa

Caqli dhaawacmiyo dhimashaa ka roon

 

Hai scambiato la tua terra madre e i tuoi figli con la vita in Italia

Li hai barattati con una bottiglia di alcol e un giaciglio sulla strada

 

Ascoltami mia virtuosa, ci sono difficoltà in Italia

Se le avessi viste anche tu avresti scambiato il latte fresco con la bottiglia

 

Ascoltami mio virtuoso le difficoltà ci sono

il cervello ferito e lavato dall’alcol non torna indietro realmente

 

Ascoltami mia virtuosa, la persona che parte

Che incontra difficoltà e non trova il nutrimento per l’amata e i suoi figli

Di una mente ferita è meglio la morte[13].

 

Il titolo di questa canzone è Dhudhummada aan jaraa”, “mi taglio le braccia”. Nell’articolo in cui parlava per la prima volta di Geedi, Cristina Ali Farah scriveva:

 

Qualche giorno fa a scuola sono arrivati tre ragazzi somali a chiedere informazioni. Sono aperti, hanno voglia di parlare. Nuruddin sa diverse parole in italiano. “Mio padre l’ha studiato”, dice. Nimco e Faduma sono giù di morale. Le ragazze erano riuscite a raggiungere la Svezia, dove avevano alloggio e sussidi garantiti. Nimco, 21 anni, si era perfino sposata. Ma dopo qualche mese, controllando le loro impronte digitali, le autorità hanno stabilito che venivano dall’Italia e le hanno rispedite qui.

 

Impronte digitali, frammenti significanti di essere umano. In un racconto di Cristiana Caldas Brito, scrittrice brasiliana che vive in Italia e scrive in italiano, si immagina che “cinquemila quattrocento ventidue polpastrelli, tutti imbrattati di inchiostro” si presentano un giorno alla Questura di Roma: “siamo entrati in questura in modo assolutamente pacifico e in ordinata fila, come si usa dalle nostre parti. Se proprio devo dire la verità, erano loro, i poliziotti, ad essere nervosi. Forse ne avevano ragione. Non tutti i giorni un poliziotto trova davanti a sé seimila polpastrelli separati dalle mani, seimila polpastrelli allontanati dai corpi a cui appartenevano”.[14]

La riduzione dell’essere umano e della sua identità a una parte “allontanata dal corpo a cui appartiene” è sia una metafora del modo in ci le autorità percepiscono i migranti, sia una metafora della frattura profonda di una migrazione che separa il migrante da tutto il suo mondo di provenienza. E infatti anche la canzone di Geedi ricorre alla stessa metafora, di un’identità scritta su una parte del corpo che è l’unica che le istituzioni riconoscano ma che basta a impedirgli di tornare a casa e rientrare in Italia:

 

Dhowrsaney i maqal dhibaato aa jirtoo

Sooma dhoofi karo kumana dhigi karee

Dhudhummada aan jaraa

 

Ascoltami  mia virtuosa, ci sono delle difficoltà

Non posso tornare non posso lasciarti

Mi taglio le braccia

 

Il personaggio di Geedi si taglia le braccia anche per dire che una parte di lui è rimasta laggiù. Geedi canta di una condizione spezzata, sospesa, precaria, insostenibile, sul piano dell’identità e sul piano dei rapporti: non sono africano, non sono europeo; non posso tornare, non posso lasciarti. Se pensiamo alla musica popolare come l’espressione di soggetti non egemoni, oppressi e marginali, la musica popolare in Italia oggi è anche, forse soprattutto, questa. È portatrice di bellezza ma non è un ornamento, un intrattenimento, una spezia esotica, il vagheggiamento romantico del “vagabondo”. La canzone popolare “forestiera”, come tutta la canzone popolare, è vita e storia, carne e sangue di persone concrete come Geedi Yusuf Kuule, Camilo Cosmecio, Jagjit Rai Mehta, Roullah Taqavi, Violeta Joana. E parla (come già le nostre canzoni di emigrazione) di ferite, di solitudine, di abbandono – e almeno in un caso di una possibilità alternativa fondata non sulla benevola “accoglienza” verso gli “ospiti” ma sulla condivisione di un progetto di lavoro, di cultura, e soprattutto di politica fra cittadini ed eguali.

[1]           Cristina Ali Farah, Essere somali a Roma, “Internazionale”, 6 novembre 2009, http://www.internazionale.it/essere-somali–roma/ visto il 30.8.2013.Sulla scuola di italiano per stranieri dell’associazione Asinitas, cfr. http://www.asinitas.org/home.html, visto il 30.8.2013.

 

[2]           Sul Circolo Gianni Bosio, www.circologiannibosio.it. Un primo risultato per progetto”Roma forestiera” è il CD Istaraniyeri. Musiche migranti a Roma, a cura di Enrico Grammaroli e Alessandro Portelli, edito dalla Provincia di Roma e dal Circolo Gianni Bosio, 2011. Il CD prende il titolo appunto dalla canzone di Geedi, che ne è il brano di apertura. Per relazioni più ampie sul progetto, rinvio ad Alessandro Portelli, “Roma Forestiera”: A Project on Migrant Music in Rome, in Post-Colonial Italy, a cura di Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo, New York, Palgrave, 2012, pp. 263-74; e Memorie urbane oltre i confini: musiche migranti a Roma, Vicenza, Guaraldi, in corso di pubblicazione nella serie Lectures on Memory dell’Università di San Marino.

 

[3]           Registrato a Porto San Giorgio (Fermo) , 23 e 24 novembre 2011. Tutti i brani musicali discussi in questo articolo sono stati registrati da Alessandro Portelli e sono consultabili presso il fondo Musiche Migranti dell’Archivio Sonoro “Franco Coggiola” del Circolo Gianni Bosio presso la Casa della Memoria e della Storia di Roma. La versione originale di “Anak” cantata da Fred Aguilar è in www.youtube.com/watch?v=-n-2lPzH7D, visto il 26.8.2013.

 

[4]           Registrato a Roma, 9 marzo 2007. Il cantore ha dato solo il suo nome, Michele.

 

[5]           Registrato a Roma, scuola di italiano per stranieri Asinitas, 16 febbraio 2010. La registrazione è inclusa nel CD Istaraniyeri. Musiche migranti a Roma, cui dà anche il titolo. La trascrizione e la traduzione sono di Cristina Ali Farah, che ha funto anche da interprete nell’intervista.

 

[6]           Registrato a Pontirolo di Drizzona (Cr), 23 marzo 2013.

 

[7]           Sulla Lega di Cultura di Piadena, si veda www.legadicultura.it.

 

[8]           Fotografie di Jagjit Mehta e la sua famiglia sono in La mia Africa. Fotografie di Giuseppe Morandi, Milano, Mazzotta, 2001, pp. 21-25 e 36; Giuseppe Morandi, Vecchi e nuovi volti della Bassa padana, Milano, Mazzotta, 2011, pp. 68-94 e copertina.

 

[9]           Intervento di Giuseppe Morandi, Roma, Circolo Gianni Bosio, febbraio 1983. Gianfranco “Micio” Azzali e sua madre Genia appaiono anche nel film Novecento di Bernardo Bertolucci (1976).

 

[10]          Registrato a Piadena (Cr), 6 ottobre 2011

 

[11]          Registrato a Roma, Campo Rom Magliana, 11 marzo 2010. La registrazione è inclusa nel CD Istaraniyeri. La traduzione è di Sorina Ene.

 

[12]          È il tema di tante canzoni italiane di emigrazione: basta pensare a “Mamma mia dammi 100 lire”, in cui la madre maledice la figlia che, emigrando, la abbandona e, con la sua maledizione, la condanna alla morte in mare – un destino condiviso da molto migranti attraverso il Mediterraneo.

 

[13]          Registrato a Roma, San Lorenzo, 5 luglio 2011; trascrizione e traduzione di Cristina Ali Farah.

 

[14]          Cristiana Caldas Brito, “Io, polpastrello 5423”, http://digilander.libero.it/vocidalsilenzio/polpastrello.htm, visto il 19.9.2013. Per una discussione più ampia, rinvio al mio Fingertips stained with ink. Notes on new “migrant writing” in Italy, nel  numero monografico La letteratura della migrazione, a cura di Giuseppe Nava, “Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura”, XII, 1 (2010), pp. 49-58.