Questo notevolissimo lavoro non tratta soltanto di questioni italiane, cioè dei profughi istriani o dalmati o di chi dovette abbandonare la Tunisia e la Libia, ma compara il loro caso e quello dei tedeschi espulsi dall’area danubiana e dei francesi espulsi dalle loro colonie divenute indipendenti. Tenta dunque di elaborare una fenomenologia del profugato nell’immediato secondo dopoguerra e nella più tarda fase della decolonizzazione. Abbiamo infatti due casi legati alla ridefinizione dei confini dopo la seconda guerra mondiale (l’espulsione degli italofoni dalla Jugoslavia e quella dei tedescofoni del Danubio da Ungheria, Serbia e Romania) e due legati alle lotte di liberazione coloniali (i francesi cacciati dall’Algeria e gli italiani dalla Tunisia e dalla Libia). Ovviamente l’equipollenza delle varie situazione non è rigida: la Libia, per esempio, non era più una colonia italiana e la Tunisia non lo era mai stata. Tuttavia i quattro casi sono per tanti aspetti speculari e meritano di essere confrontati. Inoltre il tema più importante di questo libro non è tanto la cacciata, quanto il modo con cui i vari gruppi hanno conservato, preservato e riproposto, talvolta anche reinventando, la memoria dell’accaduto. Il volume ci restituisce dunque un tassello importante per comprendere l’impatto del Novecento su tante popolazioni obbligate a muoversi, ad abbandonare quelle che erano terre realmente avite o che ormai erano considerate tali, a vedersi amputare, come dice l’autrice, una parte del proprio passato e della propria identità.