“Torno a casa in vacanza”. L’esperienza del ritorno temporaneo al paese di origine per i piemontesi ed i siciliani emigrati in Francia nel secondo dopoguerra

Il presente contributo intende, tramite l’analisi dei percorsi migratori di due gruppi di italiani, piemontesi e siciliani, insediati in Provenza (Francia) nel secondo dopoguerra, evidenziare le diverse forme di mobilità tra i luoghi d’origine e d’immigrazione[1]. La letteratura sulle migrazioni di ritorno, definitive o temporanee, ha spesso sottolineato l’ambivalenza delle relazioni che legano gli emigrati al luogo di origine[2]. Questi studi hanno anche rivelato l’impatto economico di questi movimenti[3]. Il presente articolo ha come scopo di evidenziare il ruolo e il significato del “ritornare al paese di origine” per gli emigrati, ma anche per i familiari e, più in generale, per gli abitanti del villaggio. Cosa rappresenta il viaggio di ritorno temporaneo per entrambi i gruppi di migranti? Il paese di origine è esclusivamente luogo di ricongiungimento con la famiglia oppure un altro uso è possibile? La seguente analisi del rapporto che i migranti hanno con i luoghi di origine rivela così la complessità dei legami e le diverse pratiche per i due gruppi studiati.

Gli studi sulle migrazioni italiane in Francia adottano spesso una dimensione di analisi nazionale[4]. Al contrario, il presente contributo ha cercato di descrivere e comprendere le differenze tra migranti di “prossimità” (piemontesi) e “di lunga distanza” (siciliani). L’approccio comparativo di questo studio ha cosi identificato le differenze all’interno dello stesso gruppo di migranti (“italiani”) ma provenienti da regioni diverse[5].

I risultati dell’analisi delle storie di vita qui riportate, non sono generalizzabili a tutti i “migranti” italiani. Il presente lavoro di ricerca non pretende l’esaustività: lo scopo è di trovare un modello processuale in grado di spiegare il comportamento dei migranti in contesti dati. Per far ciò, le storie di 25 famiglie piemontesi e 15 famiglie siciliane sono state ricostruite attraverso interviste in profondità, ripetute con diversi membri della stessa famiglia (migranti e non). Si tratta di narrazioni polifoniche sull’uso che gli emigrati fanno dello “spazio migratorio”.

 

 

  1. I soggiorni dei piemontesi nel villaggio di origine: il “ritrovarsi”[6] ed i rapporti con i “sedentari”[7]

La maggior parte delle famiglie piemontesi intervistate sono originarie della provincia di Cuneo, confinante con la Francia ed a forte vocazione migratoria[8]. I piemontesi compiono molto regolarmente il viaggio nel luogo di origine durante i mesi estivi, in occasione di ricorrenze familiari e di feste e sagre paesane[9]. Molti di loro possiedono una casa di villeggiatura, spesso ereditata, ma anche acquistata o costruita con i risparmi di una vita. Il viaggio di ritorno temporaneo è parte della vita di migranti e dei sedentari. I villaggi di origine talvolta sono organizzati secondo il tempo delle migrazioni: feste degli emigrati ed attività ludiche sono spesso concentrate nel periodo di presenza degli “ex-residenti permanenti”. La relazione di questi migranti al luogo di origine è molto complessa e caratterizzata da pratiche ambivalenti che alternano il mimetismo e la ricerca della differenza.

Gli emigrati provenienti dal Piemonte, ricostruendo il loro percorso e confrontandolo con quello dei sedentari, considerano che la mobilità sociale ascendente di questi ultimi è stata realizzata più rapidamente grazie alla loro partenza. Queste considerazioni non sono prive di amarezza e di un sentimento di delusione, ma sono spesso taciute ai parenti sedentari. Così Celeste[10], confrontando il suo percorso a quello di suo fratello e dei suoi cugini, considera le difficoltà che ha dovuto affrontare:

 

Ho avuto una vita diversa. Non ho studiato, ho lavorato tutta la mia vita per aiutare la famiglia. Mio fratello, ma anche le mie cugine più giovani, è andato a scuola, trovato un buon lavoro. Perché noi (gli emigrati), siamo andati via per trovare meglio, perché si pensava che in Francia era meglio. Ma in Italia, hanno avuto più progressi, comodità, vita facile. I miei parenti, ma non i vecchi, quelli nati dopo di me, hanno avuto tutto e senza sforzo. Mentre noi abbiamo dovuto ricostruire tutto, lavorare di più…Più che i francesi, per mostrare cosa valevamo, per avere un lavoro, per i documenti, per far vedere che eravamo onesti… Loro, hanno avuto tutto, ma grazie a noi. Perché così, si lasciava il lavoro a quelli che sono rimasti. Il progresso dell’Italia, sono gli emigrati che l’hanno fatto!

 

I “sedentari”, che spesso sono ex-emigrati, ritornati definitivamente al paese di origine, interpretano il loro percorso come coronato da successo rispetto ai parenti rimasti vivere all’estero, poiché, a differenza di quest’ultimi, essi sono stati in grado di ritornare in modo permanente. Visite e soggiorni frequenti degli emigranti li confortano nella loro convinzione che la qualità della vita in Italia sia migliore che all’estero; il fratello di un migrante, egli stesso un ex emigrante, afferma:

 

È vero che si guadagna bene in Francia, ma tutto costa più caro. Alla fine, qui viviamo meglio guadagnando un po’ meno, ma viviamo bene. Se non perché tutti questi piemontesi ritornano? Perché si sta bene qui. La vita è più facile. Abbiamo tutto quello che ci serve!

 

Un altro piemontese presente all’intervista ha aggiunto:

 

Ho dei parenti in Argentina. Sono stato lì anch’io. Ma sono tornato. Quella non è una vita possibile (in Argentina). L’America è qui! Si pensava che si doveva andare via, ma è qui che si vive meglio.

 

È vero che nel secondo dopoguerra, l’Italia ha raggiunto una situazione di generale benessere economico, talvolta sorprendente per coloro che sono tornati definitivamente dopo lunghi anni di emigrazione, ma anche per i numerosi emigrati che vi fanno ritorno durante le vacanze. Inoltre, i “sedentari” sono spesso convinti di aver beneficiato di migliori opportunità professionali.

Sebbene i migranti esprimano un profondo attaccamento nei confronti dei familiari, degli amici ed al luogo di origine, vorrebbero, in compenso, che i sedentari riconoscessero il loro contributo allo sviluppo locale (e nazionale), così anche al successo personale degli abitanti del villaggio. Giovanni riassume la sua scelta di acquistare casa nel villaggio:

 

Io ho condiviso la mia fortuna con il villaggio, perché avrei potuto comprare in Francia o altrove, ma ho voluto investire qui. I soldi è qui che li ho spesi. Poi i lavori (di costruzione della casa), la stessa cosa. È denaro guadagnato in Francia che ho speso qui. Non dico che avrebbero dovuto farmi una statua, ma non lo so. È come se tutti quelli che sono andati via e che hanno aiutato la famiglia e investito nel villaggio, tutto questo è dovuto. Non una parola o un complimento. C’è quasi della gelosia. Si, proprio della gelosia! Mentre è l’amore per gli altri, per questi luoghi che ci ha fatto andar via, per dare di più alle nostre famiglie. Dovrei essere arrabbiato perché non ci hanno dato la possibilità di restare qui! No, ma a me, non interessa, ho la mia famiglia e miei amici che, come me, vengono in estate. Gli altri, tanto peggio per loro!

 

Ma in occasione di questi soggiorni temporanei, come sono considerati questi migranti dagli abitanti del paese? Questi ex residenti sono forse assimilati agli abitanti sedentari, ai turisti o visti come gli artefici dello sviluppo economico?

 

  1. La presenza di immigrati piemontesi nel villaggio di origine: “veri residenti” oppure una categoria intermedia tra cittadini e turisti?

Gli emigrati non cercano necessariamente di far riconoscere il loro successo economico, ma piuttosto, vorrebbero essere considerati come dei sedentari.

La partecipazione dei migranti nell’economia locale ed al successo delle loro famiglie, che si concretizza attraverso investimenti o aiuti economici ai familiari, riflette il loro desiderio di essere considerati come attori della loro società di origine: sono migranti[11] e non emigrati.

Se è vero che questi ultimi non sono assimilati ai turisti, tuttavia, sono spesso definiti come “i francesi” dagli abitanti sedentari[12], anche quando trascorrono metà dell’anno nel villaggio. Ciò è percepito dai migranti come una stigmatizzazione, un rifiuto, una marginalizzazione. Pertanto, quando tornano nel paese d’origine, questi piemontesi d’altrove si frequentano molto: organizzano pranzi e gite, senza necessariamente la presenza dei parenti sedentari e, così facendo, si escludono essi stessi dal gruppo degli abitanti[13]. Altri sedentari attribuiscono agli emigranti stessi il volersi distinguere dagli abitanti, sottolineando così la differenza che essi stessi stabiliscono[14]. Così il proprietario del bar di un villaggio della Valle Stura descrive i migranti :

 

I “francesi” frequentano i “francesi”. Vedi al bar, stanno sempre tra loro. A volte, c’è un parente di qui. Se no, non si mischiano troppo. Sono qui senza essere davvero qui. Come spiegare? Sono come i turisti, ma hanno famiglia qui, quindi… È un po’ diverso.

 

La vicina (di 70 anni) di un migrante piemontese descrive così i soggiorni dei “Francesi” nel paese:

 

Noi siamo molto riservati, facciamo la nostra vita, tranquillamente. In primavera e soprattutto l’estate, il villaggio è pieno di volti sconosciuti, parenti, figli, nipoti dei francesi. C’è tanta gente, rumore, di notte c’è tanto rumore nelle strade. Per noi tutto cambia, ma è anche una buona cosa per il villaggio. Ci sono più persone, c’è più vita. Ma a volte ci cambia le abitudini. Se vai a prender il pane un po’ tardi, non ne trovi più. Alla messa, bisogna andarci al mattino, se no, non trovi più posto. Questo è tutto, è così! È solo per poche settimane.

 

Questa signora descrive delle abitudini “cambiate”, ma sottolinea che questa situazione è solo temporanea, il tempo della vacanza. La presenza dei migranti/turisti non è biasimata, come sottolinea questa testimonianza, ciò riempie il villaggio di vita, suoni, volti “sconosciuti”. Se la presenza dei migranti non dà luogo a critiche eccessive, è perché è temporanea, ma questi ex-residenti del villaggio non sono più identificati come abitanti. Altri sedentari hanno anche descritto la vita del villaggio come “risvegliarsi” in estate grazie all’organizzazione delle attività culturali – visite guidate, mostre e spettacoli – spesso per soddisfare le aspettative dei turisti e dei “residenti temporanei”. La differenza sta quindi nei termini utilizzati per riferirsi ai migranti, ma nelle pratiche di quest’ultimi.

Alcune descrizioni del comportamento di migranti ricordano l’analisi di Jean-Didier Urbain il quale rileva quanto gli autoctoni considerino a volte i villeggianti come un presenza invasiva, boriosa e perturbatrice della vita locale[15]. Naturalmente, non è una considerazione condivisa da tutta la popolazione. Sono spesso le persone anziane che rivolgono queste critiche ai migranti con i quali hanno “dei conti in sospeso”.

Le parole scelte per definire la condizione del migrante ritornato temporaneamente nel paese di origine, rivelano la differenza, non necessariamente conflittuale, tra abitanti e “residenti temporanei”. Una condizione che sembra caratterizzare l’esistenza di questi ultimi: essere qui e non esservi permanentemente[16]. Testimonianze simili confermano questo punto. Tuttavia, per gli abitanti permanenti, sono i migranti che non cercano la loro compagnia. Ruth Mandel analizza lo stesso fenomeno per un gruppo di migranti turchi ritornati al luogo d’origine e l’analizza in termini di risposta dei migranti ai sedentari, incapaci di considerarli altro che emigrati. Ciò causerebbe un ripiego del gruppo su se stesso, al fine di ritrovarsi tra “simili”[17]. Nel caso dei piemontesi, si tratta in realtà di un processo reciproco, attribuito all’altro su cui graverebbe la responsabilità dell’esclusione[18]. Un altro elemento da analizzare riguarda l’uso che i migranti fanno dei viaggi di ritorno.

 

  1. Ritornare in Italia: la costruzione di una filiazione identitaria

Il “ritornare” temporaneamente al paese di origine determina anche altre forme di mobilità. I migranti effettuano spesso dei viaggi turistici in altre regioni italiane durante la loro permanenza in Italia. Il ruolo di questi soggiorni è duplice: rinsaldare il legame con la storia e la cultura italiana, riaffermare una maggiore capacità economica rispetto ai sedentari.

Un gruppo di migranti piemontesi (residente in Provenza) ha così trascorso un soggiorno di 15 giorni in Sicilia e poi una settimana a Roma. Altri hanno visitato le Cinque Terre, Firenze e Pompei. I viaggi in altre regioni d’Italia rafforzano il senso di appartenenza alla madre patria, alla sua storia e cultura. Questo è anche il modo per appropriarsi di segni di italianità: conoscere il patrimonio storico e culturale nazionale sviluppa il senso di filiazione diretta con il proprio paese d’origine. Un migrante tornato dal soggiorno romano ha descritto così l’atteggiamento dei suoi familiari sedentari:

 

I miei parenti al paese non sono mai venuti a vedere come è bella! Restano nella loro valle, aggrappati alle montagne! Non sanno nulla dell’Italia. Quando si va a trovarli, ci dicono che siamo diventati francesi, ma sono loro che non sono veramente italiani. Non sanno nulla del loro paese. Io volevo che i miei figli conoscessero l’Italia e la sua storia. Non ho molto da trasmettere (tramandare), ma almeno sanno da dove vengono!

 

Il turismo diventa così il mezzo per creare dei nuovi legami, storici e culturali, importanti per la storia personale e familiare[19]: non si è solo parte di un villaggio, ma di un’intera nazione. Questi viaggi sono anche l’occasione per acquistare i segni fisici di italianità, come l’abbigliamento, le calzature, oggetti che si possono mostrare una volta tornati in Francia.

Molti migranti denunciano l’attaccamento esagerato dei sedentari alla loro frazione di comune. Flora[20] descrive sua cognata, che non è mai emigrata:

 

Per lei, partire è andare in città, a Cuneo, non ha mai voluto venire a trovarci, è troppo lontano e complicato. Anche con la sua famiglia, ha una sorella che vive vicino Lione. Noi siamo andati a trovarli e loro sono venuti da noi. Ma lei (la cognata) aspetta che veniamo al paese. Mio fratello ne soffre, vorrebbe viaggiare. Ma no, niente. Il paese, casa e basta!

 

Sono molti i migranti che hanno osservato questo “immobilismo” (questa minore propensione alla mobilità geografica), che non impedisce il mantenimento di buoni rapporti familiari. Questi spesso dipendono, secondo i migranti, dalla (buona) volontà di coloro che sono partiti[21].

Questa facilità di movimento, attraverso i soggiorni prolungati nel paese di origine oppure i viaggi turistici in Italia, è anche un modo per mostrare una certa agiatezza economica ai parenti sedentari che non sono altrettanto mobili. Ciò è confermato da numerose testimonianze di sedentari. Quest’ultimi infatti, preferiscono rendere visita ai parenti geograficamente più vicini, che spesso vivono nelle città di pianura. Un parente sedentario spiega questa mobilità limitata:

 

Viaggiare costa molto. Quindi se noi andiamo a trovare un parente all’estero, andiamo a casa sua, non sappiamo se lo disturbiamo. Mentre loro (i migranti) vengono qui ed hanno la loro casa. Noi andiamo spesso in città, per vedere i nostri figli, fare spese. Non si può fare tutto!

 

L’ambivalenza sembra così impregnare i rapporti tra migranti e sedentari.

Per il secondo gruppo di migranti, oggetto della nostra ricerca, i siciliani, l’uso dello spazio di origine è molto diverso.

 

  1. Ritornare al paese: l’esclusività tra parentela e vicinato.

La maggior parte dei siciliani incontrati sono originari della provincia di Caltanissetta. Si recano regolarmente nel loro paese di origine come il gruppo dei piemontesi, ma a differenza di questi fanno un uso molto limitato di questo spazio, frequentando soprattutto i familiari e gli amici intimi. I rapporti con questi sono contrassegnati da una solidarietà reciproca; al contrario, le relazioni con gli abitanti “distanti” del paese (gli altri) sono caratterizzati da “diffidenza” ed anche gelosia. Tuttavia, come per i piemontesi, i siciliani ritengono che la loro migrazione, caratterizzata da una relativa mobilità sociale ascendente, abbia permesso lo sviluppo economico e rapido del paese. Per un gruppo di emigrati siciliani insediatisi nel Var, il proprio contributo alla crescita locale è un punto di orgoglio, come evidenziato da uno dei membri di questa rete:

Con la nostra attività [ristorazione] qui, ho aiutato quelli rimasti là [in Sicilia]. Lì, ho creato un’azienda vinicola. Non proprio in paese, ma non lontano. Ho dato lavoro ai parenti che vivono lì, mio cugino e mio fratello che ci lavorano ed io quando ci vado un po’, quando vado lì. Se sono andato via, è per aiutare chi è rimasto. A questo serve l’emigrazione: si riesce e gli altri pure. Prima in paese, non c’era nulla e poi, poco a poco, gli emigranti hanno costruito, hanno portato i soldi, hanno aiutato le famiglie. Adesso tutti studiano, tutti hanno un tetto. Pensi chi è che chi ha fatto tutto questo? Sono stati gli emigranti.

 

Per questo gruppo, l’economia della regione ha beneficiato manifestamente delle partenze dei migranti[22]. Quest’ultimi considerano lo sviluppo economico e sociale, verificatosi in Italia a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta del Novecento, il risultato delle partenze e delle rimesse che gli emigrati hanno investito nei paesi di origine[23].

A differenza dei piemontesi, il gruppo siciliano non è caratterizzato da una “circolazione”[24] intensa tra il luogo di immigrazione e di emigrazione. I migranti vi si recano almeno una volta all’anno, spesso durante la stagione estiva[25], ma tutti progettano di fare ritorno definitivamente in Sicilia. Non ci sono altre destinazioni possibili, soprattutto per coloro che possiedono un’abitazione nel paese; così Rosa:

 

Vengo qui, non voglio andare da nessun’altra parte. La mia vacanza è qui! È sempre stato cosi. Ho comprato l’appartamento, se vado da un’altra parte, a che serve averlo comprato!

 

I migranti che fanno ritorno ogni anno al luogo d’origine sono molto numerosi: questo viaggio è spesso l’unico che effettuano durante l’anno. Loretta Baldassar analizza questa “mobilità limitata” tra i due luoghi in termini di obbligo morale del migrante di ritornare al luogo d’origine[26]. Per il gruppo dei siciliani, ciò è dovuto in parte alla ristrettezza dei mezzi economici disponibili, ma anche, per coloro che hanno acquistato un appartamento, alla volontà di usufruire il più possibile dell’investimento immobiliare nel paese di origine. Per Mario[27], il viaggio in Sicilia si prepara tutto l’anno: risparmiando al fine de acquistare il biglietto aereo, ma anche per comperare dei doni da offrire ai familiari. Ciò al fine di mostrare l’ascesa sociale: Mario prepara una lista di regali, diversi mesi prima della partenza:

 

A volte, mi dicono quello che vogliono. È più facile per me. Sennò, ogni volta dobbiamo trovare ciò che può fargli piacere. Allora è un po’ più difficile. Ma non si può arrivare a mani vuote.

 

Se effettivamente si è in presenza di un obbligo morale, quest’ultimo si manifesta nell’attenzione portata alla scelta dei doni: non si può arrivare nel paese di origine senza esporre i presenti. I siciliani, come il gruppo piemontese, sanno che possono accedere agli stessi beni di consumo nei due luoghi. Ma questo non determina un cambiamento degli usi: tutti i migranti incontrati, e che soggiornano regolarmente nel luogo di origine, continuano a portare dei regali ai familiari e agli amici. Questa pratica è necessaria per rinsaldare i legami. Infatti, la narrazione fatta dai migranti dei rapporti esistenti con i familiari sedentari presentano delle relazioni idilliache: famiglie molto unite e mutua solidarietà. Rosa[28] ha così descritto le sue relazioni con il padre (defunto) e la sorella:

 

Ci siamo sempre aiutati, siamo molto vicini. Con tutta la famiglia era così. Con mia sorella, siamo sempre state molto vicine. Lettere, lettere ogni giorno! Se non fossimo andate d’accordo, non avremmo potuto aprire il negozio in società. La famiglia è fiducia. Ma parlo della famiglia stretta; degli amici e degli altri… Bisogna diffidare. Bisogna nascondere se hai dei soldi, perché sono tutti gelosi.

 

La visione mitica delle relazioni di parentela contrasta notevolmente con la descrizione fatta dei rapporti con gli altri compaesani di cui bisogna diffidare. Anche Mario descrive così le relazioni familiari, basate sulla fiducia e sul reciproco sostegno, ma fa un discorso diverso sugli abitanti del paese di origine:

 

Ciò che non cambia è la mentalità. Qui conti se hai soldi, o se conosci qualcuno. Tu vai al panificio, aspetti il tuo turno, poi, uno che conosce il fornaio, ti passa davanti. Tu dici: “ma dove stai andando? C’ero prima io!”, il fornaio ti dice: “ma è mio cugino, mi aveva chiamato per venire a prendere il pane”. Vai alla posta, è lo stesso. Questo è quello che mi dà fastidio; sei onesto, te ne vai per guadagnare meglio, torni e siccome “hai rinisciuto” [hai avuto successo] devi passare dopo e ti dicono: “stai meglio lì dove sei? Hai avuto la possibilità di andare via e di ritornare? Adesso ti faremo pagare”, sono loro che volevano partire, che vorrebbero essere al mio posto. Ma in Francia, io sono uno straniero e loro non lo sanno cosa significa!

 

Durante le interviste, analoghe testimonianze sono state raccolte tra altri migranti che distinguono, nel luogo di origine, i familiari[29], gli amici[30] e gli “altri” compaesani che considerano invidiosi e gelosi del loro status di emigrati[31]. Secondo questi infatti, i compaesani sedentari, gli “altri”, li considerano dei privilegiati poiché hanno raggiunto una situazione economica agiata e invidiabile all’estero[32]. Così, quando in estate, i villaggi siciliani si riempiono di migranti, venuti a trascorrere le vacanze, i sedentari li chiamano “americani”, “francesi” e “australiani”, questi termini non indicano alcuna stigmatizzazione o esclusione come nel caso dei piemontesi. Al contrario, l’emigrante è un “privilegiato” e la sua posizione è fonte di gelosie. Gli emigrati hanno contribuito, attraverso i loro doni ed i loro soggiorni frequenti, all’acquisto od alla ristrutturazione di abitazioni, concorrendo a mantenere questa immagine degli emigrati facoltosi, e di conseguenza, ad associare la migrazione al successo economico. La conseguenza è l’incremento degli antagonismi tra migranti e sedentari[33]. Questa dinamica fa sì che i siciliani non descrivono mai la loro attività lavorativa e la loro vita in presenza dei parenti e degli amici o degli “altri” abitanti del paese. L’esaltazione della vita all’estero, oltre ai beni di consumo, si concretizza attraverso la descrizione della qualità della vita in Francia e del suo sistema sanitario: molti familiari dei migranti si recano in Francia per sottoporsi a cure mediche. Questo elemento rafforza la percezione dell’emigrazione come una condizione che offre delle opportunità non presenti nel luogo di origine e consolida i legami tra migranti, parenti e amici sedentari[34].

  1. Il soggiorno nel luogo di origine: vacanza o pellegrinaggio?

Come presentato precedentemente, durante soggiorni temporanei i migranti siciliani frequentano esclusivamente parenti e vicini di casa, essi stessi emigrati, che hanno fatto ritorno definitivamente o hanno dei familiari emigrati negli stessi luoghi[35]. A differenza del gruppo piemontese, i migranti non si frequentano in maniera esclusiva: i familiari sedentari sono infatti sempre associati alle loro attività. I parenti, prossimi e collaterali, con le loro famiglie, condividono spesso lo stesso spazio residenziale, il quartiere. La visita avviene quindi nel vicinato, il luogo di residenza di parenti ed amici d’infanzia[36]. Il soggiorno nel paese di origine è così vissuto come un pellegrinaggio nei luoghi “sacri” dell’infanzia e della gioventù di questi migranti.

Di conseguenza, il ritorno per le vacanze è vissuto come un evento festoso per i parenti ed i vicini: preparazione di pranzi e frequenti inviti caratterizzano questi periodi di permanenza. I migranti, i parenti e gli amici sedentari conducono una vita riservata, tra di loro, giustificando questo comportamento con il “piacere” di condividere in maniera privilegiata la presenza di questi “assenti” durante il resto dell’anno. Ma le osservazioni dei parenti sedentari circa gli altri compaesani sono spesso riportate secondo un registro competitivo[37].

La sorella di Mario descrive così gli abitanti del paese:

 

Meglio non fare sapere niente, voglio dire che se hai avuto fortuna, c’è sempre qualcuno che ti vorrà male o dirà che sei stato disonesto; se hai avuto un problema, tutti ne parleranno e ci sarà qualcuno che sarà felice e dirà che te lo meritavi. Qui, dobbiamo vivere senza tante storie.

 

Sicuramente il pettegolezzo è un’attività diffusa nei piccoli centri urbani. Gli emigrati vi partecipano, prendono conoscenza delle ultime indiscrezioni e le alimentano. Ciò permette loro di ottenere informazioni sugli abitanti del paese, ma anche di confrontare il loro comportamento rispetto agli altri, secondo la modalità dell’esclusione[38]: la persona il cui comportamento è oggetto di pettegolezzo è biasimata; ciò consente, come sottolineato da Norbert Elias, contestualmente, di affermare la superiorità della propria condotta, ma determina anche un ripiegamento su se stessi o sul proprio gruppo[39].

La sorella di Rosa descrive così i rapporti con gli abitanti del villaggio:

 

Tutti ci conosciamo, ci diciamo “Ciao, come stai?”, ma se possono (i sedentari) sparlare di te, sono felici come una pasqua! Io ho fiducia nella mia famiglia ed in alcuni amici; dopo, non dico niente a nessuno… Ma chissà come, quando Rosa deve arrivare, loro (gli abitanti del villaggio) sanno già tutto. Quindi, meno dico meglio è!

 

Ciò che questa donna rimprovera ai nativi del paese, lei stessa lo mette in atto con i suoi amici e con sua sorella, considerando quest’attività come una distrazione ed esordendo sempre con questa frase: “non è per parlare male di… Ma…”. In effetti, non è semplicemente per diffondere un pettegolezzo: la chiacchiera è un modo per mostrare la propria appartenenza al paese perché, per poter prendervi parte, è necessario conoscere l’origine dei fatti. È anche un mezzo per lo scambio di informazioni e per giudicare gli altri, affermando la legittimità della propria condotta.

Per contrasto, il giudizio dei sedentari sui migranti è meno perentorio e calunnioso; la tabaccaia dal villaggio ha commentato così la presenza dei migranti:

 

Tutti gli emigrati che tornano, stanno qualche mese, a volte di più, aprono le loro case e fanno vedere che hanno i soldi. Sai, hanno avuto fortuna, perché la situazione all’estero è meglio. Tornano perché c’è ancora la famiglia, ma là è meglio. Qui, non c’è niente. Se potessimo patire, saremmo andati tutti via!

 

Altri abitanti del paese hanno confermato questa concezione dei migranti – francesi, americani – che hanno avuto la possibilità di partire ed avere successo, lasciando un paese in cui le opportunità di lavoro sono esigue. Essi hanno anche avuto la possibilità di tornare per soggiorni più o meno lunghi, concorrendo così al consolidamento dell’immagine della migrazione come mezzo per realizzare l’ascensione sociale[40].

Il partire, l’accedere alle reti di migrazione sono considerati una chance, una possibilità che non è offerta a tutti. Ma si tratta davvero di gelosia? Oppure di semplice curiosità, sapere come si vive in altri paesi? Gli abitanti del paese che non sono mai emigrati ed i cui familiari sono sempre stati sedentari, non hanno manifestato astio: l’estero simboleggia piuttosto lo spazio dove poter realizzare un progetto[41].

Un’altra caratteristica del rapporto ambivalente che i migranti intrattengono con il luogo d’origine riguarda il rifiuto dei cambiamenti esteriori, di natura architettonica e urbanistica, del paese[42]. Ad esempio, la ristrutturazione della piazza del centro ed il progetto di costruzione di una nuova chiesa, hanno dato luogo alle vane proteste dei migranti, seguite da una petizione per bloccare i lavori[43].

Gli abitanti sedentari osservano che gli emigrati, di ritorno nel paese di origine, si lamentano dei cambiamenti nell’educazione delle giovani generazioni e delle modifiche architettoniche del paese. Il tabaccaio li descrive così:

 

Quando tornano [i migranti], sono sorpresi di trovare che qui qualcosa cambia, che i giovani escono con il motorino per andare a mangiare fuori! D’accordo che non c’è granché, ma non siamo nel Medioevo! Loro si sono opposti ai lavori sulla piazza! Ma noi paghiamo le tasse e viviamo qui tutto il tempo, sappiamo che cosa è bene. Capisco che vogliano mantenere il ricordo di come era prima. Ma la vita continua.

 

Questo comportamento rende conto del ruolo particolare che il luogo di origine ha per i migranti. Si tratta del luogo in cui ritrovare le proprie radici, rinsaldare i legami, quasi un santuario, in cui qualsiasi cambiamento provoca turbamento. Non ci sono altri luoghi da visitare, come asserisce un migrante:

 

La vacanza è qui rimanere sulla terrazza al sole, ascoltare le campane della Chiesa, sentire l’odore dei campi. Tutto questo mi ricorda quando ero giovane. Cosa dovrei andare a fare altrove! Ritornare è questo: respirare il più possibile l’aria di qui prima di ripartire.

 

  1. Conclusione

L’analisi delle relazioni tra migranti e sedentari, presentata nelle pagine precedenti, ha rivelato la complessità del rapporto e delle pratiche nelle due aree, per entrambi i gruppi. Il confronto rivela così due modelli distinti nell’uso del luogo di origine, confermando la pertinenza dell’analisi regionale posta nell’introduzione di questo contributo.

Per il gruppo dei piemontesi, la “multilocalità”[44] permette di utilizzare lo spazio di origine come luogo intermedio tra la residenza principale e la villeggiatura ed investire altri luoghi – villaggi in collina, le città in pianura, altre regioni – per le vacanze. Questo utilizzo dello spazio, non limitato al borgo, è necessario al consolidamento di una stretta unione (connessione) con la storia e la cultura italiana che i sedentari non riconoscono loro.

Al contrario, per i siciliani, il paese di origine, e più specificatamente l’unità residenziale della famiglia, rimane l’unico posto dove trascorrere i ritorni temporanei. Questo spazio è il luogo esclusivo dove rilassarsi e riallacciare i legami con i familiari ed i vicini di casa. Il desiderio di sospendere nel tempo il villaggio, lo spazio urbano, ma anche i comportamenti, rende testimonianza di questa concezione del paese di origine come luogo di pellegrinaggio.

La percezione del luogo di origine rivela una profonda divergenza tra il mantenere una “fedeltà” al passato, alla famiglia, alle origini e l’affermazione di una logica del “presente”. Questo processo è reciproco e reversibile per gli emigrati ed i sedentari. Ponendo l’attenzione sulla complessa interazione degli attori sociali, l’analisi rivela così la complessità dell’utilizzo dei luoghi di origine e sottolinea la loro diversità, a seconda che si tratti di sedentari o migranti.

[1]           Dottorato di ricerca in Sociologia, EHESS di Marsiglia, direttore di ricerca Paul-André Rosental, dicembre 2007, Migration nationale ou migrations régionales? Familles piémontaises et familles siciliennes en Provence de 1945 à nos jours, premio Tesi 2008 Fondazione Altreitalie di Torino.

 

[2]           Francesco Paolo Cerase, Expectations and reality: a case study of return migration from the United States to Southern Italy, “International Migration Review”, 8, 2 (1974), pp. 245-262, e L’onda di ritorno: i rimpatri, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi ed Emilio Franzina Roma, Donzelli, 2001, pp. 113-125; Loretta Baldassar, Tornare al paese: Territorio e identità nel processo migratorio, “Altreitalie”, 23, (2001), pp. 9-37; Maurizio Catani, Migrations, pendularisme et appréhension de l’espace, “Ethnologie française”, 2 (1998), pp. 267-271; Maurizio Catani, Les migrants et leurs descendants entre devenir individuel et allégeance chthonienne, “Cahiers Internationaux de Sociologie”, LXXXI (1986), pp. 281-298.

 

[3]           Antonio Golini e Flavia Amato, Uno sguardo a un secolo e mezzo di emigrazione italiana, in Storia dell’emigrazione, cit., pp. 45-60 ; Matteo Sanfilippo, Tipologie dell’emigrazione di massa, ibid., pp. 77-94.

 

[4]           Gérard Claude, L’intégration des Italiens en milieu rural: l’exemple provençal, fin XIXe-milieu XXe, in L’intégration italienne en France. Un siècle de présence italienne dans trois régions françaises (1880-1980),  a cura di Antonio Bechelloni, Michel Dreyfus, Pierre Milza Bruxelles, Éditions Complexe, 1995, pp. 239-249.

 

[5]           La questione delle differenziazioni regionali all’interno dei flussi migratori è raramente posta al centro dell’analisi dei processi di mobilità nella letteratura d’oltralpe. Tuttavia, questo elemento contribuisce sostanzialmente a comprendere più finemente i fenomeni migratori, i legami che i migranti tessono con i luoghi di origine e d’immigrazione.

 

[6]           Maurizio Catani preferisce usare il termine retrouvailles, il ritrovarsi, per sottolineare un ritorno temporaneo ed un’esperienza fuori dall’ordinario (della vita quotidiana) dei migranti distinguendolo dal ritorno stagionale o permanente. M. Catani, Migrants, cit. p. 283.

 

[7]           L’uso delle virgolette intende sottolineare l’esiguità del numero di piemontesi incontrati e mai emigrati. Sono infatti molti coloro che, dopo diversi anni di emigrazione, hanno fatto ritorno nella regione.

 

[8]           Patrizia Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 288 ; Pier-Paolo Viazzo, Comunità alpine. Ambiente, popolazione, struttura sociale nelle Alpi dal XVI secolo ad oggi, Roma, Carocci, 2001, pp. 416; Dionigi Albera e Paola Corti, La montagna mediterranea: una fabbrica di uomini? Mobilità e migrazioni in una prospettiva comparata (secoli XV-XX), Cavallermaggiore, Gribaudo, 2000; Maria Cerutti, Vorremmo essere due rondini per poter volare costì. Famiglie sambucesi emigrate in Argentina, Cuneo, Primalpe, 1992, pp. 7-18.

 

[9]           La durata del soggiorno è mediamente di 5 mesi. Ma diverse famiglie incontrate trascorrono più della metà dell’anno nel paese di origine.

 

[10]          Celeste è nata nel 1920 ed è emigrata in Francia all’età di 17 anni con suo zio paterno. Collaboratrice domestica e bracciante agricola durante il periodo delle vendemmie, aiutava la famiglia e finanziava gli studi di suo fratello minore.

 

[11]          L’uso del participio presente indica ciò che Maurizio Catani ha definito come la “reversibilità dell’emigrazione-immigrazione”: la possibilità per i migranti di reintegrarsi nella società di origine. M. Catani, Migrants, cit., p. 284.

 

[12]          Adelina Miranda nota lo stesso processo in un villaggio del Sud-Italia: Adelina Miranda, Migrants et non-migrants d’une commune italienne, Paris, L’Harmattan, 1996.

 

[13]          Ruth Mandel descrive un comportamento simile in occasione dei viaggi di ritorno di un gruppo di migranti turchi, emigrati in Germania; Ruth Mandel, Shifting Centers and Emergent Identities: Turkey and Germany in the Lives of Turkish Gastarbeiter, in Muslim Travellers: Pilgrimage, Migration and Religious Imagination, a cura di Dale F. Eichelman e James Piscatori, Berkeley, University of California Press, 1990, pp. 153-171.

 

[14]          Amalia Signorelli, Identità etnica et cultura di massa dei lavoratori migranti, in I luoghi dell’identità. Dinamiche culturali nell’esperienza di emigrazione, a cura di Angelo Di Carlo, Serena Di Carlo, Milano, Franco Angeli, 1986, pp. 44-60.

 

[15]          Jean-Didier Urbain, Le résident secondaire, un touriste à part?, “Ethnologie Française”, XXXVII, 2 (2002), pp. 515-520.

 

[16]          Ho volontariamente evitato di riferire l’espressione di Sayad “né qui né là” (“ni d’ici ni de là-bas”) o la sua perifrasi (essere qui e là /être d’ici et de là-bas), perché volevo sottolineare l’opposizione tra abitanti (permanenti) e migranti (residenti temporanei), ovvero, non un’appartenenza polarizzata tra due luoghi, ma due utilizzazioni diverse dello stesso spazio.

 

[17]          R. Mandel, Shifting Centers, cit., p. 159.

 

[18]          A. Miranda, Migrants, cit., t. p. 108, ha già sottolineato che questo processo della stigmatizzazione reciproca deriva da una diversa considerazione dell’essere a “casa propria”. I migranti percepiscono il loro luogo di nascita come facente parte della loro vita, mentre per gli abitanti del villaggio, i primi sono diventati “altro”, dei villeggianti. Per gli emigranti, l’assenza quotidiana non implica questa rottura.

 

[19]          L. Baldassar, Tornare, cit. p. 13.

 

[20]          Flora è nata nel 1938. Flora emigra in Francia, dove lavora come cameriera durante la stagione invernale in un hotel delle Alpes-Maritimes, in seguito raggiunge il fratello a Marsiglia e lavora nel settore ortofrutticolo.

 

[21]          Daniel Delaunay e Françoise Lestage, Ménages et fratries mexicaines aux États-Unis: des histoires de vie, une histoire de famille, “Revue des Migrations Internationales”, vol. 15, 3 (1999), pp. 11-43.

 

[22]          Fortunata Piselli, Parentela ed emigrazione. Mutamenti e continuità in una comunità calabrese, Torino, G. Einaudi editore, 1981, pp. 393 ; A. Golini e F. Amato, Uno sguardo a un secolo, cit.

 

[23]          G. Massullo, Economia delle rimesse, cit., pp. 161-183, analizzando il ruolo delle rimesse dei migranti italiani all’inizio del XX secolo sull’economia nazionale, osserva che queste non hanno determinato un sviluppo significativo nelle aree di partenza : l’assenza di vie di comunicazione per beni e persone, ma anche il ritardo delle sviluppo dei mercati, così come il risparmio piuttosto che l’investimento dei guadagni hanno cagionato il perdurare del sottosviluppo nelle regioni d’emigrazione. Nel secondo dopoguerra, gli investimenti statali, grazie agli aiuti economici del Piano Marshall, hanno prodotto gli effetti attesi sull’economia che le sole rimesse dell’emigrazione non avevano ottenuto.

 

[24]          Jean-Louis Rallu, Etude des migrations de retour: données de recensement, d’enquête et de fichiers, Démographie, analyse et synthèse, vol. 3, Roma, INED / UCL, La Sapienza, 1998, pp. 89-98; William Berthomière e Marie-Antoinette Hily, Décrire les migrations internationales, “Revue européenne des migrations internationales”, 22, 2 (2006), pp. 2-14.

 

[25]          La durata media del soggiorno è di quattro mesi.

 

[26]          L. Baldassar, Tornare al paese, cit., p. 6.

 

[27]          Mario, nato nel 1930, è un ex-minatore diventato operaio edile in Francia. Ha ristrutturato l’appartamento dei genitori e vi trascorre almeno 4 mesi l’anno.

 

[28]          Rosa emigra in Francia per raggiungere suo marito, minatore a Gardanne (Sud-est della Francia). Lei fa la ricamatrice e con i suoi risparmi apre un negozio di biancheria, in società con la sorella, nel paese di origine ed acquista un appartamento sulla via principale.

 

[29]          Yves Grafmeyer, Habiter Lyon. Milieux et quartiers du centre-ville, Paris, CNRS Éditions / PPSH Rhône-Alpes, 1991, p. 219, e Thierry Blöss, Les liens de famille. Sociologie des rapports entre générations, Paris, PUF, 1997, p. 154, hanno evidenziato le logiche di solidarietà fondate sulla parentela (che non sono esclusive dei fenomeni migratori); queste reti sono spesso caratterizzate da una forte vicinanza residenziale dei suoi membri;.

 

[30]          Anton Blok, La mafia di un villaggio siciliano, 1860-1960, Torino, Edizioni di Comunità, 2000, p. 149, sottolinea che i rapporti di amicizia in Sicilia, spesso associati al clientelismo, non dovrebbero essere così drasticamente considerati; l’autore ha infatti notato la presenza di elementi affettivi, e non solo strumentali, nelle relazioni di amicizia. La definizione di amicizia asimmetrica di Julian Pitt-Rivers, Il popolo della Sierra, Torino, Rosenberg & Sellier, 1976, p. 140, sembra essere la più adatta a descrivere le relazioni di amicizia che possono essere anche trasversali, cioè, che uniscono individui appartenenti a due livelli sociali diversi.

 

[31]          A. Miranda, Migrants, cit., p. 51; L. Baldassar, Tornare, cit., p. 10.

 

[32]          L. Baldassar, Tornare, cit., p. 16, comparando i migranti veneti ai siciliani, rileva lo stesso atteggiamento nei confronti dei sedentari meridionali.

 

[33]          Richard Hoggart, La culture du pauvre, Parigi, Ed. de Minuit, 1991, pp. 420, rileva che le relazioni all’interno delle classi popolari nei confronti dei membri che hanno ottenuto il successo professionale ed economico possono essere tese: “l’acceptation du «déviant» est subordonnée à l’acceptation par le déviant des valeurs fondamentales de la classe… Celui qui «  se croit  », qui adopte des manières qu’il croit de meilleur ton que celles de sa classe, celui-là est cordialement détesté”.

 

[34]          Questo stesso fenomeno di rinsaldamento delle relazioni di parentela in migrazione è stato descritto in numerosi studi sulle migrazioni e le reti parentali. Oltre ai lavori già citati nelle note precedenti, si vedano quelli di Paul-André Rosental, Les sentiers invisibles. Espace, familles et migrations dans la France du 19e siècle, Paris, Éd. de l’EHESS, 1999, p. 255, e Les liens familiaux, formes historiques?, “Droit et Société”, 34, (2002), pp. 107-141. Ma anche,Tamara Haraven, Cycles, courses and cohorts : reflections on theoretical and methodological approaches to the historical study of family development, “Journal of Social History”, 12, 1 (1978), pp. 97-107; Donna Gabaccia, Italy’s many Diaspora, Seattle WA, University of Washington Press, 2000, p. 264; Laurence Fontaine, Solidarité familiales et logiques migratoires en pays de montagne à l’époque moderne, “Annales ESC”, 6, (1990), pp. 1433-1450; e al., citati nelle note precedenti.

 

[35]          F. Piselli, Parentela, cit., p. 169; Y. Grafmeyer, Habiter, cit.; T. Blöss, Les liens de famille, cit.. D. Delaunay e F. Lestage, Des histoires de vie, cit., p. 29-30, descrivono, anche loro, come le reti migratorie dei messicani negli Stati Uniti sono caratterizzate dalla prossimità residenziale, e spesso dalla co-abitazione, dei suoi membri nel paese d’immigrazione. Questa pratica nascerebbe nel paese di origine prima ancora di emigrare.

 

[36]          A. Miranda, Migrants, cit., e F. Piselli, Parentela, cit., osservano le stesse pratiche di prossimità residenziale tra unità familiari le quali costituiscono la base delle relazioni affettive, assimilate ai legami di sangue o rinforzate dalle pratiche di comparatico.

 

[37]          A. Signorelli, Identità etnica, cit., p. 4,7 osserva che la diffidenza e la concorrenza caratterizzano le relazioni tra i migranti e gli “altri”‘ sedentari (coloro che non sono parenti o affini): i primi imputano ai nativi del paese di interessarsi troppo alla loro vita. R. Hoggart, La culture du pauvre, cit., p. 420, rileva, all’interno delle classi popolari, un interesse “eccessivo e tendenzioso” per la condotta dei vicini.

 

[38]          Donna Gabaccia, From Sicily to Elizabeth Street. Housing and Social Change Among Italians Immigrants, 1880-1930, Albany, State University of New York Press, 1984, p. 174, descrive l’uso dei pettegolezzi come mezzo per lo scambio di informazioni e modo per valutare chi è interessato alle informazioni e come un’occasione per allargare la propria rete di conoscenze. Norbert Elias, Remarques sur le commérage, “Actes de la recherche en Sciences Sociales”, 60, (1985), pp. 23-29, sottolinea l’uso della maldicenza come un modo per ostentare la superiorità del proprio modo di vita.

 

[39]          Ibid.

 

[40]          Emblematico a tal proposito un detto siciliano: “Cu nesci, arrinesci”, che significa “chi parte (va fuori), fa fortuna (riesce)”.

 

[41]          C. Grandi, definisce così “lo spazio del possibile”, cioè il potenziale migratorio ove poter realizzare un cambiamento di vita; Casimira Grandi, Emigrazione alpina al femminile  : lo spazio del possibile (secc.17-20), “Histoire des Alpes, Storia delle Alpi, Geschichte der Alpen”, 3, (1998), pp. 49-62.

 

[42]          A. Miranda sottolinea il desiderio di migranti, in vacanza nel villaggio, di ritrovare questi luoghi come “pietrificati”, inalterati, tali e quali al ricordo che ne conservano; A. Miranda, Migrants, cit., p. 91.

 

[43]          Il Comune ha mantenuto il parere favorevole dei “residenti permanenti” contro il parere dei residenti “temporanei”, rinviando i migranti alla loro condizione transitoria.

 

[44]          Laurence Fontaine, Montagnes et migrations de travail. Un essai de comparaison globale (XVe-XXe siècle), “Revue d’histoire moderne et contemporaine”, 2, (2005), pp. 26-48, nel suo studio comparato della letteratura sulla migrazione di montagna, sottolinea che una delle caratteristiche di questi emigrati è l’uso dello spazio come risorsa: un’estensione delle frontiere su un territorio dove esercitare un’attività professionale. Così i migranti delle montagne circolano all’interno di questo spazio la cui divisione amministrativa non riflette il reale utilizzo degli agenti e la percezione che essi ne hanno.