È stato osservato che nell’Italia dell’immediato dopoguerra, mentre il cinema e la letteratura aprivano la trionfale stagione del neorealismo, della denuncia sociale e della cruda osservazione delle condizioni di vita delle masse popolari, la canzone era rimasta ferma a un modello tradizionale, romantico e sognante[1]. Se dal punto di vista musicale cominciavano ad essere recepite e importate le novità proposte dalla musica d’oltre oceano, per quello che riguardava i testi tale modello rimaneva bloccato su tematiche sentimentali, con poche, rare aperture ad altri argomenti. Soltanto in un secondo momento, grosso modo concomitante con la fase di espansione economica culminata negli anni del “miracolo”, si affermò anche in Italia la canzone d’autore, un nuovo modo di concepire la canzone, come strumento di osservazione della realtà o addirittura di denuncia sociale. Quegli stessi anni, cioè, in cui si registrava una progressiva crescita dei flussi di mobilità interna, e una sostanziale stabilizzazione di quelli verso l’estero, che vivevano la loro ultima stagione prima di rallentare in modo repentino ed arrestarsi definitivamente nella prima metà degli anni settanta.
La nascita di una canzone capace di osservare e raccontare la realtà degli strati marginali della società, dunque, coincise con il momento stesso in cui nel paese diventava sempre più vivo il dibattito sul travaso di forza lavoro meridionale nelle città del nord: probabilmente fu anche a causa di questa concomitanza di dati e di date che nel corso degli anni sessanta il fenomeno migratorio finì per divenire, dapprima in modo molto limitato, poi con sempre maggiore frequenza, materia utile per la costruzione di testi di canzoni. Così a partire dalle prime esperienza musicali in tal senso, quella di Cantacronache e, su un versante diverso, quella del Nuovo Canzoniere Italiano, la cui nascita è databile proprio negli anni del miracolo (1957-’58 la prima, 1962 la seconda) le diverse “scuole” di cantautori iniziarono a mostrare crescente attenzione verso i flussi di emigrazione interna e finirono per raccontarne le vicende. Ancora assente o quasi, invece, la narrazione cantata dell’epopea della grande migrazione, degli espatri transoceanici o delle condizioni di vita degli italiani al di là dei confini. Per trovare l’inizio di questo filone narrativo nei testi della canzone d’autore bisognerà attendere gli anni settanta quando, appunto, i saldi migratori in Italia torneranno ad essere positivi, dopo un secolo di migrazioni. L’attenzione dei cantautori nei confronti di questo fenomeno è dunque più o meno contemporanea, anzi, per la verità, leggermente precedente, a quella mostrata dalla storiografia italiana, che soltanto nella seconda metà degli anni settanta inizierà a occuparsi di questo fenomeno storico che pure aveva avuto un’importanza centrale nell’esperienza di milioni di italiani e che, tuttavia, non aveva fin lì goduto del benchè minimo tentativo di ricostruzione storica.
Va detto che da quel momento la storia della emigrazione italiana e, più in generale, la storia delle migrazioni sono sempre state presenti nel repertorio della canzone d’autore e hanno accompagnato le carriere di molti cantautori. Il discorso scivola così inevitabilmente sul tema, mai frequentato tanto quanto oggi, del legame bicipite tra storia e canzone: da un lato, per quello che riguarda gli anni del “miracolo” e quelli immediatamente successivi, la canzone osserva in presa diretta un fenomeno migratorio in atto, divenendo perciò stesso, a qualche decennio di distanza, una fonte storica; una delle tante che, assieme alle altre, permette la ricostruzione in sede storiografica dei caratteri della società italiana di quegli anni. Dall’altro, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, la canzone è uno dei veicoli di diffusione dell’uso pubblico della storia e diffonde “senso comune storico”: interpretazioni, letture e, al limite, stereotipi legati al tema universale delle migrazioni.
Va notato, ad esempio, che fatte salve alcune rare eccezioni, l’atteggiamento generale che traspare dai testi tende a esasperare gli aspetti negativi dell’emigrazione: la nostalgia, lo spaesamento, l’alienazione, lo sfruttamento, il fallimento. Nemmeno una parola che possa far pensare all’emigrazione come a un’esperienza positiva, un miglioramento sociale, una “liberazione dal controllo sociale comunitario” esercitato dalle comunità di partenza e in definitiva “un’affermazione di sé”, per dirla con De Bernardi[2].
Nel corso degli anni sessanta, dunque, si inizia a dare voce a un filone compositivo la cui fortuna sarà costante nel tempo, praticamente fino ai giorni più recenti: quello, appunto, della canzone d’autore ispirata al tema dell’emigrazione.
È il livornese Piero Ciampi con Lungo treno dal sud a dare il via, già nel 1962 (dunque in pieno “miracolo”), alla serie ininterrotta di testi dedicati al fenomeno migratorio. La canzone anticipa due topoi che ritroveremo in seguito: il primo è il treno, che va a sostituire nell’immaginario condiviso relativo al viaggio dell’emigrante l’immagine stereotipata dei “bastimenti” in partenza, ricorrenti nella tradizionale canzone melodica dei decenni precedenti; il secondo è la donna, l’emigrazione femminile, nei confronti della quale la nuova canzone d’autore mostra una sensibilità assai maggiore rispetto al passato.
Il treno, dunque, passa tra i fiori e “le rocce del mare”portandosi via per sempre “quella dolce fanciulla che tanto amai”. Non un testo indimenticabile, sicuramente, ma il brano ha l’indubbio merito di aprire una ininterrotta galleria di canzoni che da allora in avanti riempirono il panorama musicale di emigranti[3].
Non è un caso, però, che dopo il primo abbozzo di Ciampi, a fornire i primi significativi contributi a questo filone siano stati autori che gravitavano intorno alla “scuola” genovese, la prima a imporsi con caratteristiche di autonomia creativa. Genova, infatti, se da un lato sentiva la vicinanza geografica alle esperienze degli chansonniers francesi, dall’altro aveva una lunga familiarità con i fenomeni migratori: all’epoca era una delle mete dei flussi migratori innescati dal “miracolo”, in quanto vertice estremo del triangolo industriale, mentre nei decenni del “grande esodo” era stato il più importante porto di imbarco dei nostri emigranti in partenza per le Americhe.
Così nel 1965 è Bruno Lauzi con La donna del Sud a riprendere il discorso iniziato da Ciampi e a mettere in musica un’altra donna che parte dal Meridione col treno, vista, questa volta, con gli occhi di un uomo del nord che ne osserva l’arrivo.
Il testo inizia con il riferimento diretto ai “treni del sole” (“Una donna di nome Maria è arrivata stanotte dal Sud, è arrivata col treno del sole”) e prosegue con l’immagine, piuttosto stereotipata, per la verità, della donna meridionale: una donna “tipo” fin nel nome (Maria, non poteva essere diverso), fin nelle sue “labbra di corallo”, nella sua verginità d’ordinanza e nella sua “cesta d’arance”. Fu proprio questo eccesso di tipizzazione a muovere qualche anno dopo la risposta polemica di un altro esponente della prima leva di cantautori, l’istriano Sergio Endrigo (che pure quel brano di Lauzi l’aveva cantato e inciso in un suo disco): tale risposta fu affidata a Il treno che viene dal sud, una canzone in cui additava le generalizzazioni di cui Lauzi sarebbe staro vittima, innescando in tal modo una polemica di cui non poco si è parlato[4].
“Il treno che viene dal sud – esordiva il testo di Endrigo – non porta soltanto Marie con le labbra di corallo”; dentro ci sono invece “uomini cupi” che recano un bagaglio fatto di “sudore e mille valigie”; “gente nata tra gli ulivi […] che va a scordare il sole”.
La polemica tra i due autori venne ripresa anche nelle colonne de “l’Unità”, in un articolo del febbraio 1967 dal titolo Endrigo risponde a Lauzi[5]. “Lauzi, si sa, – vi si legge – è un ottimo cantautore ma le sue posizioni, in questi ultimi tempi, hanno preso una svolta piuttosto balorda”. La canzone che aveva dedicato all’emigrazione aveva il torto, secondo l’organo stampa del Pci, di accostare un tema tanto doloroso e lacerante a sentimenti frivoli e leggeri. Dal punto di vista del giornalista militante l’aspetto più significativo dell’intera vicenda consisteva nel fatto che, come detto, Endrigo quella canzone di Lauzi l’aveva cantata, l’aveva incisa in un suo Lp l’anno precedente (quello in cui si trovano alcuni dei maggiori successi dell’istriano come Teresa e Girotondo intorno al mondo). Dunque la nuova canzone, Il treno che viene dal sud, sarebbe stata il risultato di una sorta di crisi interiore del suo autore, una presa di coscienza dovuta “forse [a]l suo impegno (ogni giorno più netto) [che] gli ha fatto capire che quello [il testo di Lauzi] era un facile mezzo per affrontare un argomento serio come l’emigrazione, riducendolo a un episodio d’amore”. L’impegno politico diventava così l’ingrediente irrinunciabile per una buona canzone. Su questa base i due testi offrirono, dunque, il metro per definire i cliché (che grande fortuna avrebbero avuto in seguito) della canzone “impegnata” e di quella “leggera”, e per bollare inesorabilmente gli autori della seconda con etichette da cui, soprattutto Lauzi (ma l’operazione si sarebbe ripetuta in seguito con altri celebri cantautori), fecero assai fatica a liberarsi.
Tuttavia, prima ancora che Endrigo elaborasse la sua risposta polemica a Lauzi, il panorama musicale italiano si era già arricchito di una nuova canzone (tra le più belle e significative) dedicata all’emigrazione interna. Era stata proposta dal palco più importante, quello di Sanremo, ed aveva rappresentato l’involontaria occasione per una delle vicende più tragiche e inquietanti della storia della canzone italiana. Era stata l’ultima canzone eseguita dal suo autore, Luigi Tenco (un altro genovese), prima di suicidarsi nella sua camera d’albergo al termine della esibizione festivaliera il 27 gennaio 1967. Ciao amore, ciao è l’epigrafe più sintetica di quella che Hobbsbawm chiama, non senza enfasi, “morte della classe contadina”[6], rappresentazione quanto mai efficace del fenomeno dell’inurbamento che accompagnò quegli anni post-miracolo e stravolse l’assetto sociale e culturale anche del nostro paese. Rispetto ai testi di Ciampi, Lauzi ed Endrigo nella canzone di Tenco scompare il treno, scompare la figura femminile tratteggiata dai primi due, ma scompare anche il soggetto collettivo richiamato dal terzo, la “gente nata tra gli ulivi”, gli “uomini cupi” rassegnati alla fine delle loro speranze. L’accento è spostato invece, in modo quanto mai deciso, sulla disperazione individuale, sull’isolamento, l’alienazione che caratterizzano questa esperienza. Il passaggio, dalla “solita strada bianca come il sale” alle “mille strade grigie come il fumo”, “dai carri nei campi agli aerei nel cielo”, produce un effetto di “straniamento”, di alienazione, che si traduce nella tragica consapevolezza di “non saper fare niente in un mondo che sa tutto”. Così, in definitiva, l’“andare via lontano, cercare un altro mondo” porta come unico risultato alla tragica condizione del “sentirsi nessuno”, nella impossibilità di tornare indietro. Tragica metafora di quello che sarebbe accaduto al cantautore genovese qualche ora dopo aver cantato queste parole, certamente, ma solo nella lettura fatta col senno del poi. Se ci atteniamo al clima che si respirava in quegli anni, dobbiamo dire invece che erano proprio questi gli argomenti di innumerevoli saggi di sociologia, di psicologia, di psichiatria, di numerosi resoconti giornalistici, pagine di letteratura che con diversi approcci riflettevano su come l’esperienza migratoria stesse modificando la cultura e la psicologia dei soggetti coinvolti e, in generale, della società italiana.
D’altra parte la insicurezza dettata dai processi di sradicamento e la sensazione di inadeguatezza dell’emigrante si affaccia, seppur timidamente, anche in una delle canzoni di maggiore successo commerciale dedicate in quegli anni al tema migratorio, Che sarà, presentata al Festival di Sanremo nel 1971 da José Feliciano in coppia con i Ricchi e Poveri. La canzone porta le firme di Jimmy Fontana e di quel Franco Migliacci che all’epoca era probabilmente l’autore di maggiore successo della canzone italiana, avendo lasciato la sua impronta oltre che su Volare (Nel blu dipinto di blu) anche sui più grandi successi di Gianni Morandi e di numerosi altri personaggi di massimo calibro del panorama canoro nazionale. Nel testo della canzone, dedicata allo svuotamento del paese di Cortona, sulla collina toscana, a seguito dei processi migratori, il refrain “so far tutto o forse niente, da domani si vedrà” fa eco, seppure con tono meno drammatico e più fatalista, all’angosciosa presa d’atto di Tenco “non saper fare niente in un mondo che sa tutto”.
L’attenzione al tema degli spostamenti interni e dei difficili processi di adattamento individuali e collettivi degli emigranti che caratterizzavano questi flussi continuò dunque anche negli anni settanta e arrivò a interessare anche cantautori più giovani: citiamo solo qualche esempio. Lontana è Milano viene incisa da Venditti nel 1973: in questo brano tornano alcuni degli stereotipi ormai consolidati: l’emigrante meridionale, i treni, la nebbia ecc.:
Lontana è Milano dalla mia terra duemila miglia più a Sud.
La nebbia non c’è, la pioggia nemmeno.
Lontana è Milano dalla mia terra.
La gente parte per far fortuna duemila sogni più in su,
i vecchi son stanchi, le donne di aspettare
i treni fischiano un addio.
Nello stesso anno Lucio Dalla presenta Un’auto targata To all’interno di un Lp di cui riparleremo tra breve:
Un’auto vecchia torna da Scilla a Torino,
dentro ci sono dieci occhi ed uno stesso destino.
[…] Arrivano nel ghetto, ammuffito, spaccato,
contano i sassi dentro il filo spinato […].
Mattoni su mattoni sono condannati i terroni
a costruire per gli altri appartamenti da cinquanta milioni.
L’anno successivo, 1974, è Rino Gaetano a entrare in argomento: lo fa con una canzone che sembra una velata risposta alla Locomotiva di Guccini (incisa due anni prima): in questo caso, però, la locomotiva anziché essere «lanciata a bomba contro l’ingiustizia» e divenire in tal modo strumento di lotta, è utilizzata come strumento di fuga da un macchinista ferroviere che ha trascorso una vita a osservare gli emigranti salire sul suo treno e andarsene dalle campagne pugliesi.
In quegli stessi anni, anche il futuro premio Nobel Dario Fo si cimentò nella composizione di un testo per una ballata popolare dal tono militante sull’emigrazione interna, Canto d’emigrazione. Si tratta non certo della migliore prova del poliedrico artista, ma ha l’indubbio merito di dare un po’ di visibilità alla ballata politica sul tema dell’emigrazione che continuerà sottotraccia per tutti gli anni settanta e per parte degli ottanta:
I campi si svuotano / si riempiono le officine
Sicilia Puglia e Calabria / mille treni parton di disperati.
Addio addio amore / nelle galere di Lombardia e di Torino
Addio addio amore / andiamo a crepare
Giorno per giorno per poter campare.
Ci strozzano col foglio paga / ci strozzan per gli alloggiamenti
Ci strozzan per ogni cosa si debba pagare.
Insomma, per tutto il decennio cantautori più o meno “impegnati” e militanti si cimentarono con il tema dell’emigrazione meridionale verso le città industriali del nord; in effetti gli anni settanta si chiudono con la bella e struggente canzone di De Gregori Stella stellina (1979) che chiude idealmente il cerchio iniziato da Piero Ciampi, riproponendo il cliché della donna del Sud (“sono nata nell’Africa d’Italia”), la suggestione del treno che strappa l’emigrante alla sua terra (“probabilmente cominciò con la corriera o con la ferrovia, un uomo chiuse lo sportello e la campagna volò via”) e le immancabili riflessioni sulle difficoltà di adattamento nelle realtà metropolitane («un anno cambia faccia: è una città che morde, che protegge e che minaccia»). Era il 1979: il decennio che stava per iniziare De Gregori lo avrebbe inaugurato mostrando un deciso cambio di passo nel modo di trattare il tema della emigrazione. Nel 1982 avrebbe infatti inciso Titanic. Ma andiamo con ordine.
L’affermazione nei primi anni settanta di una nuova generazione di cantautori coincide con la fine del fenomeno migratorio nel nostro paese: in questi anni, infatti, dopo un secolo di espatri, il saldo migratorio torna in pareggio prima di vedere addirittura il segno più all’inizio del decennio successivo, quando l’Italia si aprirà ai flussi provenienti dal Sud del mondo. È a questo punto che si può iniziare a riflettere sul passato migratorio della nazione. La canzone d’autore in questo anticipa, seppure di poco, la stessa storiografia che a partire dalla fine del decennio inizia ad aprire le sue porte alle prime ricerche scientificamente solide sulla storia dell’emigrazione italiana.
Va notato che prima che cantautori “impegnati” (termine senza dubbio non bellissimo, ma coniato in quegli anni per definire cantanti e autori di testi attenti alle più svariate tematiche di impegno sociale) inaugurassero questo nuovo filone tematico, la musica “leggera” aveva segnalato l’esaurirsi della spinta migratoria nel nostro paese, lanciando alcuni brani di successo che parlavano del ritorno degli emigranti. Così nell’edizione di “Un disco per l’estate” del 1968 una sorridente Gigliola Cinquetti aveva invitato l’emigrante Giuseppe a ritornare dall’America nel suo «paesello» d’origine, adombrando persino la possibilità di un futuro sviluppo di quest’ultimo (Giuseppe in Pennsylvania è il titolo della fortunata canzone, firmata dal collaudato duo Pace–Panzeri):
Giuseppe in Pennsylvania cosa fai?
Ritorna al tuo paesello qui con noi
Mancano sempre i freni alla corriera
ma un giorno l’aeroplano arriverà.
Qualche anno dopo, nel 1971, sempre durante la competizione canora de “Un disco per l’estate”, veniva presentata una canzone molto più vicina alla sensibilità e agli umori musicali delle giovani generazioni, che insisteva sul tema del ritorno degli emigranti: Casa mia. A portarla al successo era l’inconfondibile voce di Maurizio Vandelli dell’Equipe 84 (anzi, ad essere precisi, la Nuova Equipe 84, visto che questo era il nome che aveva preso il gruppo dopo la rifondazione avvenuta qualche mese prima con l’ingresso in formazione di Franz Di Cioccio alla batteria e Dario Baldan Bembo alle tastiere): la canzone suscita un certo interesse, oltre che per il successo commerciale ottenuto pur con un tema così lontano dalle tematiche generalmente espresse nelle canzoni de “Un disco per l’estate” e in generale delle manifestazioni canore in stile nazional-popolare, anche per il riferimento a un elemento cardine dell’esperienza migratoria, che di lì in avanti entrerà di prepotenza in molti testi di autori anche più “impegnati” dedicati allo stesso tema dell’emigrazione, ossia quello della lingua:
Torno a casa siamo in tanti sul treno
occhi stanchi ma nel cuore il sereno
Dopo tanti mesi di lavoro mi riposerò
dietro quella porta le mie cose io ritroverò
la mia lingua sentirò
quel che dico capirò.
Ma torniamo al tema. Nella prima metà degli anni settanta, dunque, mentre l’Italia esaurisce la sua spinta migratoria, i giovani cantautori che iniziano ad affermarsi in quegli anni sembrano già piuttosto attratti dall’argomento che, in effetti, offre numerose suggestioni e possibilità narrative. La figura dell’emigrante riassume infatti due dei caratteri peculiari della controcultura maturata negli anni precedenti: l’attenzione al mondo dell’emarginazione e il recupero della cultura popolare. Il nuovo filone testuale, peraltro, in un primo tempo presenta una decisa predilezione per l’emigrazione continentale: Germania, Svizzera e in generale i paesi europei, meta privilegiata dei flussi appena conclusi. L’America non fa ancora la sua comparsa, se non sporadicamente, nei testi della canzone d’autore. Così nel corso di tutto il decennio si cimentarono in questo ormai comune tentativo di mettere in musica l’esperienza degli italiani all’estero molti dei nomi più significativi nel panorama della canzone d’autore italiana.
Il decennio si apre con la canzone di Herbert Pagani Gli emigranti (1970): una sorta di ballata popolare con un soggetto collettivo («siamo i soldati dell’emigrazione e disarmati andiamo a faticar») che riprende alcuni dei topoi della canzone tradizionale sull’emigrazione: il treno, l’emigrante meridionale, le valige di cartone, la miniera di carbone e l’immancabile contrasto, venato di nostalgia, tra il sole del paese di partenza e il grigiore dei paesi di arrivo. E si chiude con la canzone di tutt’altra natura di Stefano Rosso, Tre fratelli (1979), una vera e propria saga familiare concentrata in tre minuti, ambientata nella Napoli del secondo dopoguerra, dove due anziani genitori assistono muti alla partenza dei loro tre figli: il primo per l’America negli anni a ridosso del conflitto (“il primo disse: a casa gioco la mia gioventù / Ciao papà mamma ciao vado in America io vò con gli emigranti”), il secondo, anni dopo, per la Germania (“mi han detto c’è richiesta a mille miglia a nord di qui / Ciao papà mamma ciao vado in Germania a pulir culi a gente ariana”), mentre il più piccolo vent’anni dopo la partenza del primo fratello, quindi ormai presumibilmente negli anni settanta, sceglie una via differente, quella della lotta armata:
Ciao papà mamma ciao e in fretta si mangiò le scale
ciao papà mamma ciao non tornò più si dice che finisse male
ciao papà mamma ciao si dice uccise un magistrato e 2 ministri.
Tra questi due estremi, cronologici e concettuali, c’è veramente di tutto: ci sono cioè tentativi di comporre testi (o parti di testi, una strofa, qualche verso) sull’emigrazione da parte di quasi tutti i principali (e non i principali) cantautori dell’epoca: citandoli in ordine sparso, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Rino Gaetano, Francesco Guccini, Herbert Pagani, Stefano Rosso, Pierangelo Bertoli, e sicuramente qualcuno sarà sfuggito all’elenco. A questi nomi, naturalmente, vanno aggiunti tutti coloro che all’epoca gravitavano attorno ai circuiti del canto popolare di protesta, della canzone politica, della canzone “militante”: Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Alberto D’Amico, Alfredo Bandelli e parecchi altri.
Si tratta di canzoni profondamente diverse tra loro: alcune svolgono una vera e propria narrazione, altre rinunciano alla dimensione narrativa e offrono piuttosto una serie di suggestioni.
Nel 1973, ad esempio, Lucio Dalla, all’epoca personaggio ormai affermato nel panorama musicale italiano, pubblica Il giorno aveva cinque teste, l’album che inaugura il periodo di collaborazione con il poeta bolognese Roberto Roversi. Al suo interno, oltre a Un’auto tergata To di cui si è parlato, figura un’altra canzone di sicuro interesse: L’operaio Gerolamo. Si tratta, potremmo dire, dell’emigrante universale: “povero operaio, povero pastore, povero contadino”, emigrato in Francia, in Germania, ma anche a Torino, a Milano, solo nelle periferie metropolitane, nelle baracche o nelle osterie, oppure in compagnia di altri emigranti a vegliare un italiano morto lontano da casa.
L’anno successivo 1974, invece, in Rosso colore (canzone che sarà nuovamente incisa, in una nuova e più nota versione due anni più tardi) Pierangelo Bertoli immagina il testo di una lettera scritta da un emigrante dal “paese dove sono a lavorare, dove son stato cacciato da un governo spaventoso che non mi forniva i mezzi per campare”. Già dall’incipit si chiarisce l’intento politico del brano che viene mantenuto fino alla fine, con la rievocazione del fallimento delle lotte sindacali in patria, che non lascia a molti lavoratori altra scelta che quella dell’espatrio. Ancora un anno, 1975, ed è la volta di Francesco De Gregori con Pablo: ancora la “Svizzera verde” come sfondo, ancora immagini evocative e non descrittive.
Ma la svolta si ha nel 1978 con la canzone di Francesco Guccini Amerigo. Si tratta di un cambio di passo, non solo perché figura finalmente l’America come meta migratoria, ma anche perché per la prima volta il cantautore emiliano fa ricorso alle vicende storiche della nostra emigrazione. Prendendo spunto dalla ormai nota vicenda del prozio emigrato nelle miniere degli Stati Uniti all’epoca della grande migrazione e tornato con “due soldi e giovinezza ormai finita” negli anni del secondo dopoguerra, Guccini evidenzia il contrasto tra la realtà di sfruttamento, di difficile ambientamento, di relazioni umane complicate che la figura di quell’emigrante rappresenta e l’immaginario giovanile relativo all’America che in quegli anni cinquanta comincia a popolarsi di film e divi hollywoodiani, di musiche, di fumetti[7]. L’uso pubblico della storia dell’emigrazione inizia a fare capolino dentro la canzone. È un modo anche questo per diffondere un “senso comune storico” di cui non pochi storici hanno parlato in questi anni. Nel testo della canzone sono sinteticamente rappresentati molti temi centrali nella ricostruzione storiografica del fenomeno migratorio che in Italia iniziava a muovere i primi passi in quegli anni: a partire dall’imbarco in terra straniera (Le Havre), praticato da coloro che ricorrevano ad agenti di emigrazione clandestina[8]. E poi il senso di smarrimento di fronte al “bosco di grattacieli” visto dalla nave, all’arrivo nel porto di New York; il difficile rapporto con la lingua inglese che all’inizio dell’esperienza migratoria è “un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello” e alla fine è soltanto “dire boss per capo e ton per tonnellata, raif per fucile”; e poi, ancora, la miniera (“e fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri”), e la ghettizzazione delle componenti nazionali più marginali (“negri, irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera”). Infine il ritorno dopo il sostanziale fallimento dell’esperienza migratoria: il difficile reinserimento in una società quale quella dell’Italia anni cinquanta, in cui ormai l’America rappresenta, come si diceva, il fulcro di un immaginario collettivo fatto di miti.
Il passo successivo nella costruzione di un rapporto solido tra canzone d’autore e storia dell’emigrazione si avrà soltanto pochi anni più tardi, nel 1982, quando Francesco De Gregori darà alle stampe il suo Titanic, un disco di grande importanza dal nostro punto di vista, per la trilogia in esso contenuta che comprende, oltre alla canzone eponima, altri due brani che completano la storia di quella tragedia del mare: L’abbigliamento del fuochista e I muscoli del capitano. Sulla trilogia si è già scritto molto e non pochi, già all’epoca dell’uscita del disco, sottolinearono il carattere metaforico della vicenda del Titanic nell’Italia del 1982[9]. Tuttavia, metafora o meno, anche in questo caso i testi di quelle canzoni riprendono alcuni dei temi centrali dell’esperienza migratoria, quelli su cui la storiografia ormai iniziava a interrogarsi in modo sempre più serrato, ricorrendo anche alla collaborazione di altre scienze umane, dalla sociologia alla psicologia, alla antropologia. I temi di sempre: la paura della traversata sull’“Atlantico cattivo”, l’emozione del viaggio in terza classe (“questa cuccetta sembra un letto a due piazze: ci si sta meglio che in ospedale”), le incognite che attendono l’emigrato in America (“[figlio] che andrai a confondere la tua faccia con la faccia dell’altra gente”) e di nuovo il ricorrente problema della lingua (“avrai dei figli da una donna strana e che non parlano l’italiano”). Ne viene fuori, in sostanza, un’immagine dell’emigrante che si distanzia in modo sostanziale dai luoghi comuni e dagli stereotipi.
Ma ancora negli anni novanta il filone di rievocazione storica non si era esaurito e, dopo il Titanic di De Gregori furono altre voci, cantautori di vecchia scuola o giovani appena entrati nella ribalta del successo musicale, a occuparsi dell’epopea degli italiani nel mondo. Lo fece, ad esempio, Ivano Fossati proprio all’inizio del decennio (1990) con Italiani d’Argentina, un brano suggestivo con un soggetto plurale che conserva un sapore un po’ nostalgico (“noi qui guidiamo macchine italiane” e “ci piace, sì, ricordarvi in italiano”); uomini e donne che, pur se ormai radicate e bloccate giocoforza nella repubblica platense dalla debolezza economica dell’area (“che voglie tante e che stipendi strani che non tengono mai”), non hanno abbandonato del tutto il sogno di un ritorno (perché “la distanza è atlantica, la memoria più vicina e nessuna fotografia ci basterà” e d’altra parte “la distanza è atlantica, la memoria cattiva e vicina e nessun tango mai più ci basterà”).
Tra i nuovi soggetti del panorama musicale segnaliamo per necessità di sintesi i Mau Mau che a metà del decennio (1996), poco dopo la loro consacrazione come una delle rock band di maggior successo di quegli anni, incidono un brano sul luogo simbolicamente più importante nella storia dell’emigrazione: Ellis Island (è questo anche il titolo). Nel brano l’uso pubblico della storia è apertamente dichiarato fin dalla prima strofa:
pija l’esempi dij primi ani dël secol
quand ij nòstri viagiator a s’as ciamavo pionieri
famije ëd mil pais dëspaisà
a fasìo tapa forsà a Ellis Island[10].
E ribadito nel finale:
A l’è parej, a son passà pì che otant’ani
e le aventure ‘d cola gent
a son profonde eredità
a son deli deli deli delicatësse
mës-cià a la naftalin-a dij nòstri armari[11].
L’ultimo decennio del secolo segna un nuovo capitolo dell’intenso rapporto tra la canzone d’autore e i fenomeni migratori, che darà vita a un filone di canzoni ancor più prolifico del precedente, capace di prolungarsi dentro il nuovo millennio e tuttora vivo e fecondo. Ancora una volta il ricambio generazionale e l’arrivo sulla scena di una nuova leva di cantautori non sono estranei alla nascita di questo filone e, come a metà degli anni settanta, anche adesso vecchi e nuovi personaggi del panorama musicale italiano fondono le loro voci per descrivere un fenomeno che diventa di giorno in giorno più ingombrante in Italia: quello delle nuove migrazioni di cui la penisola diviene uno degli approdi privilegiati. E ancora una volta sono gli accadimenti esterni che accompagnano e scandiscono i tempi di questa rinnovata attenzione nei confronti delle condizioni degli immigrati nel nostro paese: in particolare il dissolvimento dell’impero sovietico e, più ancora, l’avvio e il perdurare della fase conflittuale nell’area balcanica, danno visibilità a un popolo in fuga che si riversa con mezzi di fortuna e grazie all’opera di loschi mediatori sulle coste adriatiche del nostro Meridione. Una visibilità che emigranti di paesi più lontani (profughi o meno che fossero) non avevano mai avuto fino ad allora. Il paese si ritrova con una sensibilità enormemente acuita rispetto al passato di fronte a questo fenomeno, una sensibilità che genera un’opinione pubblica spaccata: da un lato una sorda ostilità ai flussi in ingresso, una sensazione di “invasione” amplificata dai mass-media, dall’altro un senso di accoglienza e di ospitalità a volte piuttosto semplificatorio, che dovrebbe trarre la propria motivazione dal nostro passato di emigranti. E i cantautori, pur non smettendo i panni dei diffusori del senso comune storico, tornano a raccontare in presa diretta questi accadimenti: storie di vite che attraversano l’Adriatico “contromano”[12] o che risalgono dal più profondo Sud del mondo, che fuggono l’orrore, che sperano o sognano la riconquista di una dignità umana, storie che ora si mescolano alla Storia della nostra emigrazione.
Molto attento a queste tematiche si mostra un cantautore di vecchia scuola come Ivano Fossati che già nel 1992 apre la carrellata di canzoni dedicate all’argomento con Mio fratello che guardi il mondo, ideale inno del lavoratore immigrato:
Sono nato e ho lavorato in ogni paese
e ho difeso con fatica la mia dignità.
Sono nato e sono morto in ogni paese
e ho camminato per le strade del mondo che vedi.
La canzone incrocia un dibattito che in quegli anni iniziava a crescere nel paese sulle capacità di accoglienza della società italiana nei confronti di questi flussi in ingresso. Episodi di marcata xenofobia e di violenza sugli immigrati si erano già verificati in diverse regioni della penisola e più di uno tra politici, intellettuali e uomini di chiesa aveva usato come monito il nostro passato di emigranti. L’ultima strofa della canzone sembra per questo ispirata a un moto di speranza e di fiducia sulle capacità di superare le chiusure e costruire una cultura dell’accoglienza: “Se non c’è strada dentro il cuore degli altri prima o poi si traccerà”. Oltre dieci anni dopo (nel 2003), quando Fossati ritornerà sull’argomento con una nuova canzone, Pane e coraggio, questo ottimismo sembra scomparso: l’Italia ha ormai ricevuto flussi di immigrazione provenienti da ognuno dei paesi più disastrati del pianeta e non le sono serviti a costruire una casa accogliente né la memoria del proprio passato migrante né i quotidiani richiami alla solidarietà nei confronti degli ultimi, un valore che costituisce terreno comune delle due culture più diffuse del paese, da un lato quella del cattolicesimo, dall’altro quella della sinistra. La canzone, dunque, si muove in un territorio delimitato dai temi del rifiuto, dello sfruttamento e del disinganno:
Pane e coraggio ci vogliono ancora
che questo mondo non è cambiato
pane e coraggio ci vogliono ancora
sembra che il tempo si sia fermato
[…] Ma soprattutto ci vuole coraggio
a trascinare le nostre suole
da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole.
Nel 1994 i Modena City Ramblers, un gruppo che inizia ad affermarsi in circuiti alternativi rispetto a quelli della grande distribuzione e intercetta un target giovanile fortemente politicizzato, presenta al proprio pubblico il primo di una galleria di personaggi tratti dal mondo dell’immigrazione, di storie di vita che trovano nella marginalità e nella sottomissione ai soprusi e alla violenza il loro terreno comune, una galleria che si arricchirà negli anni successivi. Il personaggio in questione è il venditore ambulante Ahmed (Ahmed l’ambulante è il titolo del brano), pestato a sangue con un bastone sotto i portici di una imprecisata città italiana. L’opinione pubblica nazionale, per quanto la sua familiarità con le vicende dell’immigrazione fosse all’epoca piuttosto acerba, tuttavia era già provata da un crescendo di violenza consumata ai danni di lavoratori stranieri, una violenza che era venuta tragicamente alla luce solo pochi anni prima, nell’agosto del 1989, con l’assassinio del giovane sudafricano Jerry Masslo, avvenuto a Villa Literno nell’ambiente della raccolta di pomodori. Ma la figura più famosa in questa galleria i Modena la presentano nel 2003: Ebano, questo è il titolo della canzone, parla di una prostituta africana, venduta ancora bambina a mercanti di emigrazione e finita sui marciapiedi di Bologna. Il testo presenta, lo si noti soltanto di sfuggita, il ritorno di un tema presente fin dai primi brani degli anni cinquanta sull’emigrazione interna, quello del contrasto tra l’assolato paese di partenza (“dove la pioggia porta ancora il profumo dell’ebano. Una terra là dove il cemento ancora non strangola il sole”) e la grande città di arrivo (“Nella città con le sue mille luci per un attimo mi sono smarrita” che ricorda tanto “in un mondo di luci sentirsi nessuno” del Tenco di Ciao amore). Ma al di là di questo, la canzone ricorre al cliché della donna immigrata costretta a prostituirsi, già utilizzato da altri cantautori e che avrà molta fortuna di lì in avanti, e che diverrà un elemento ricorrente nei testi della canzone d’autore. Vi aveva già fatto ricorso Fabrizio De André fin dal 1984, tratteggiando la figura della prostituta nera in Jamìn-a; e più tardi anche Francesco de Gregori con L’agnello di Dio (1996):
Ecco l’agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo
disse la ragazza slava venuta dallo sprofondo
disse la ragazza africana sul raccordo anulare
Ecco l’agnello di Dio che viene a pascolare
E scende dall’automobile per contrattare.
Ma l’elenco dei cantautori e dei gruppi che hanno in repertorio una canzone su questo tema è davvero lungo e si conclude (solo provvisoriamente) con Lucio Dalla, che dedica a questo tema la sua ultima canzone sanremese, prima che la sua voce si spenga per sempre (Nanì, 2012).
Intanto il tema dell’immigrazione è letteralmente esploso nel panorama musicale italiano: la canzone d’autore si mostra tanto più sensibile all’argomento quanto più duramente i ripetuti governi delle destre colpiscono la dignità dei migranti, dalla legge Bossi-Fini fino alla politica dei respingimenti del duo Maroni-La Russa. Peraltro ancora una volta contribuiscono a implementare il repertorio sia cantautori di vecchia scuola, come De Gregori, sia nuove voci del panorama musicale: musicisti raffinati come Gianmaria Testa (degne di menzione le canzoni dedicate al tema contenute nell’album Da questa parte del mare, del 2006) e giovani gruppi di “combat rock” come Assalti Frontali, per citare uno degli esempi più recenti (Lampedusa lo sa, 2011), per i quali la difesa dei diritti dei migranti diventa uno dei terreni di scontro privilegiati con la destra.
Accompagnati da questi testi arriviamo dunque ai nostri giorni. La figura del migrante continua ad esercitare fascino e attrazione sulla sensibilità di cantautori e rock band, a suscitare il loro interesse, a mobilitare la loro forza di opposizione.
L’impressione che si ha, però, è che quello che c’era da dire sia già stato detto. Parallelamente a quanto avviene in campo storiografico, il tema sembra ormai piuttosto esausto e avrebbe bisogno probabilmente di un ripensamento complessivo. Per quanto il dramma umano continui a fornire quotidianamente innumerevoli spunti, provare a interpretarlo e a narrarlo con strumenti che presentino una qualche originalità appare sempre più difficile.
[1] Stefano Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Bologna, il Mulino, 2002, pp. 79-80.
[2] Marcello Flores – Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, il Mulino, 1998, p. 149.
[3] A dimostrazione del fatto che questo filone non si è mai esaurito, rilevo fuori contesto e solo per completezza che a oltre quarant’anni di distanza da questi eventi, nel 2006, un gruppo rock molto noto alle platee giovanili tornerà sull’argomento con un brano dal titolo Il treno del sole (“Siamo tanti, nessuno centomila / tra valige scatoloni e borse di maledizioni / siamo tanti siamo troppi / siamo storie andate male / tutti uno addosso all’altro / su questo Treno del Sole che unirà tutta l’Italia stazione dopo stazione”), riportando al punto di partenza una storia dall’andamento circolare.
[4] Si vedano ad esempio di nuovo S. Pivato, La storia leggera, cit. p. 165, ma anche il più recente contributo di Patrizia Gabrielli, Anni di novità e di grandi cose. Il boom economico fra tradizione e cambiamento, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 167-168. Un riferimento alla canzone di Endrigo si trova anche in Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2003, p. 64. Sigli aspetti più generali si rimanda a Diego Giachetti, Anni sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, BFS ed., 2002, p. 21.
[5] “L’Unità”, 2 febbraio 1967.
[6] Eric J. Hobbsbawm, Il secolo breve. 1914-1991, Milano, Rizzoli, 1997, p. 341.
[7] Cfr. a proposito S. Pivato, La storia leggera, cit., p. 174.
[8] Su questo argomento e sulla particolare accezione del temine “clandestina” rimando al mio Il commercio dell’emigrazione: intermediari e agenti, in Storia dell’emigrazione italiana, I, Partenze, a cura di Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi, Emilio Franzina, Partenze, Roma, Donzelli, 2001, pp. 293-308.
[9] Si vedano, ad esempio, l’articolo di Michele Serra, La guerra di Francesco, “L’Unità”, 5 giugno 1982, o quello di Nico Orengo, De Gregori: Non canto più “Buonanotte fiorellino”. Canto l’incubo della guerra, “La Stampa”, 5 giugno 1982. Quanto alla relazione tra le canzoni contenute nel disco e l’uso pubblico della storia dell’emigrazione si rimanda nuovamente a S. Pivato, La storia leggera, cit. pp. 127-134.
[10] “Prendi l’esempio dei primi anni del secolo quando i nostri viaggiatori si chiamavano pionieri, famiglie di mille paesi spaesate, facevano tappa forzata a Ellis Island.
[11] “È così, sono passati ottant’anni e le avventure di quella gente sono profonde eredità, sono delicatezze mescolate alla naftalina dei nostri armadi”.
[12] Il riferimento è alla canzone di Francesco De Gregori, Natale di seconda mano, che verrà citata più avanti.