Il piemontese Celso Cesare Moreno – nato a Dogliani, in provincia di Cuneo, nel 1831 e morto a Washington nel 1901 – fu un avventuriero giramondo, un po’ millantatore e a tratti perfino mitomane, che alternò ambizioni imprenditoriali, aspirazioni politiche, velleità militari e passione per la geopolitica. Volontario nell’esercito sabaudo e ferito nella battaglia di Goito durante la prima guerra d’Indipendenza, prese parte alla successiva spedizione militare del Regno di Sardegna in Crimea nel 1855. Salpato alla volta dell’Asia, dopo una breve permanenza a Sumatra, dove raccontava di aver sposato la figlia di un sultano e di aver fomentato un’insurrezione contro il dominio coloniale olandese, nel 1879 si trasferì alle Hawaii, di cui fu per pochi giorni il primo ministro e il responsabile degli Esteri nell’agosto dell’anno seguente, prima che i proprietari terrieri dell’arcipelago ingiungessero al sovrano, re Kalākaua, di destituirlo. Malgrado questa breve parentesi in politica, seguita da un fallimentare tentativo di farsi eleggere deputato alla Camera del Regno d’Italia nel 1882 sia in una circoscrizione di Cuneo sia in un collegio di Genova, Moreno fu anche un uomo d’affari. Per esempio, fondò due società per impiantare il primo cavo telegrafico transoceanico tra l’Asia e l’America settentrionale, intuendone l’importanza per la promozione del commercio tra i due continenti, ma il suo progetto non trovò mai i finanziatori per essere realizzato.
Dopo periodi di soggiorno temporaneo negli Stati Uniti, Moreno si stabilì a Washington alla metà degli anni Ottanta. Qui provò – senza successo – a vendere al governo americano un’isola nei pressi di Sumatra che, in precedenza, non era riuscito a far acquistare da quello italiano. Fece il lobbista al Congresso, l’ethnic broker per conto dei suoi connazionali nei rapporti con le autorità statunitensi e perfino il testimonial di una ditta farmaceutica. Si distinse per una campagna contro lo sfruttamento degli immigrati italiani, soprattutto dei minori, rinverdendo iniziative che un decennio prima, nel 1874, lo avevano visto tra i promotori di una legge per la loro tutela, il Padrone Act redatto e fatto approvare dal senatore repubblicano Charles Sumner. Moreno giunse a scontrarsi con i rappresentanti diplomatici di Roma e, in particolare, con l’ambasciatore Francesco Saverio Fava, che accusò di collusione con gli sfruttatori dei nuovi venuti, guadagnandosi una condanna al carcere per diffamazione. Il suo impegno ebbe pure un esito paradossale perché le denunce di Moreno, che intendeva ergersi a difensore degli italiani, finirono invece per contribuire ad alimentare un clima di ostilità e di xenofobia nei loro confronti nella società statunitense, suffragando le insinuazioni che gli immigrati recenti fossero generalmente dediti ad attività criminali e si prestassero a lavorare in condizioni che la manodopera americana non avrebbe mai accettato.
Nonostante la sua polemica personale con le autorità di Roma – che arrivò a coinvolgere addirittura il presidente del Consiglio Francesco Crispi, reo ai suoi occhi di non aver rimosso Fava dall’incarico a Washington – e l’acquisizione della cittadinanza hawaiana nel 1880, Moreno rimase sempre legato all’Italia e, in particolare, al suo luogo natale, arrivando a firmarsi “Celso Cesare Moreno da Dogliani” nella corrispondenza inviata da Sumatra. In tal modo, il suo rapporto con la nazione d’origine, malgrado le sue peripezie e peregrinazioni in giro per il globo, espresse quell’atteggiamento “transnazionale” e quel senso multiplo dell’identità che la storiografia tende oramai ad attribuire in maniera sistematica anche agli emigranti italiani della fine dell’Ottocento. In questa prospettiva, per alcuni aspetti, Moreno rappresentò pure una figura di cerniera che segnò il passaggio tra i flussi della prima metà del secolo – caratterizzati da esuli politici, artigiani e professionisti, con qualche risorsa e un certo livello di cultura – e l’ondata di massa dell’ultimo ventennio, contrassegnata in genere da lavoratori non specializzati, indigenti e analfabeti.
La vita spericolata e movimentata di Moreno è ricostruita in una biografia stesa a quattro mani da Rudolph J. Vecoli e Francesco Durante, con il secondo che ha completato il lavoro rimasto incompiuto per la scomparsa del primo. Il volume – redatto in maniera molto scorrevole e con uno stile accattivante, a dispetto di occasionali affastellarsi di dettagli talvolta superflui – attinge a una copiosa documentazione incentrata su resoconti giornalistici coevi e su un accurato scandaglio dei fondi inediti di numerosi archivi disseminati tra l’Italia, gli Stati Uniti continentali e le Hawaii. Gli autori si avvalgono anche delle pubblicazioni dello stesso Moreno, giovandosi indubbiamente della grafomania del personaggio, pur senza rinunciare a un attento vaglio delle sue affermazioni. Nondimeno, gli anni iniziali della vita di Moreno restano in larga misura privi di riscontri documentari. In questo caso, Vecoli e Durante fanno riferimento all’esperienza di individui che presenterebbero elementi di possibile analogia con il loro biografato: i veterani risorgimentali, ritratti da Giuseppe Cesare Abba, e Nino Bixio, nel periodo in cui solcò i mari di mezzo mondo prima di gettarsi nelle battaglie per l’unificazione italiana. Questa operazione potrebbe destare qualche perplessità nel lettore più avveduto. Tuttavia, offre al libro quanto meno l’occasione di tracciare un quadro approfondito del contesto sociale e culturale in cui Moreno non soltanto operò, ma formò anche la propria personalità.
La scelta del genere – la biografia di un italiano prominente, ancorché largamente misconosciuto – da parte di un accademico quale Vecoli – che può essere a buon diritto considerato il padre della storiografia sugli italo-americani – induce pure a una considerazione sugli sviluppi di questo campo degli studi. Come è noto, le vicende dei migranti italiani sono divenute tardivamente oggetto di indagine perché la ricerca, soprattutto sul versante italiano, ha a lungo trascurato la storia sociale per privilegiare la ricostruzione dell’esperienza dei leader e dei singoli individui rispetto a quella dei gruppi quali erano le masse degli espatriati. Con Oh Capitano!, ultimo saggio del compianto Vecoli, è come se gli studi avessero trovato una proficua sintesi tra questi due diversi orientamenti. In ogni caso, il volume costituisce una lettura gratificante, che fa uscire la figura di Moreno dall’alone di leggenda, nel quale era sostanzialmente rimasto confinato fino a ora – salvo che per alcuni aspetti particolari del suo impegno a tutela degli italo-americani (cfr. Theresa Fava Thomas, Arresting the Padroni Problem and Rescuing the White Slaves in America, “Altreitalie”, 40 (2010), pp. 57-79) – per definire i tratti della sua precisa dimensione storica.