Intervista a Elia Morandi

Elia Morandi ha fatto parte per alcuni anni della redazione di questa rivista, cui ha anche collaborato con due saggi: Emigrazione italiana e criminalità. Il caso tedesco, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 8 (2012), pp. 45-49; L’immagine dell’“altro” nel rapporto tra immigrati italiani e società tedesca. Percezioni a confronto tra Otto e Novecento, “Archivio storico dell’emigrazione italiana”, 7 (2011), pp. 139-149. Infatti ha conseguito un dottorato di ricerca in storia presso l’Università di Amburgo con la tesi Italiener in Hamburg. Migration, Arbeit und Alltagsleben vom Kaiserreich bis zur Gegenwart, pubblicata nel 2004 da Peter Lang. In seguito ha svolto attività di ricerca a tempo determinato come assegnista presso le Università di Amburgo e di Verona, lavorando al contempo al volume Governare l’emigrazione. Lavoratori italiani verso la Germania nel secondo dopoguerra, Torino, Rosenberg & Sellier, 2011. Nel frattempo ha frequentato la Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario presso la Libera Università di Bolzano nella classe di concorso per Storia e Filosofia e infine è passato a insegnare italiano per la scuola professionale di lingua tedesca “Ch. J. Tschuggmall” di Bressanone. L’attività didattica lo ha portato a ridurre l’attività di ricerca negli archivi, ma non la riflessione sulla storia delle migrazioni. Così tra il 2010 e il 2012 ha collaborato come consulente storico alla realizzazione per l’onlus veronese Associazione Memoria Immagine del documentario Lassù in Germania. Storie di emigrazione italiana negli anni Sessanta di Elena Peloso e Dario Dalla Mura (Verona, 43’, colore e B/N, 2012). In seguito ha scritto e realizzato assieme a Marco Toffanin il documentario La vita ci vuole come voi. Storie di immigrazione cinese a nordest (Padova, colore, 2015. Alcune informazioni sugli autori e il progetto, nonché il trailer e la possibilità di acquistare la versione integrale sono disponibili sul sito https://lavitacivuolecomevoi.wordpress.com.). Questa sua nuova attività ci ha spinto a intervistarlo e ad interrogarlo sul passaggio da storico della pagina scritta a storico dell’immagine digitale.
1. COME SEI PASSATO DALLO STUDIO DELL’EMIGRAZIONE A QUELLO DELL’IMMIGRAZIONE?
È una cosa che viene da lontano. Mi sono laureato in storia all’Università Ca’ Foscari di Venezia all’inizio del 2000 con una tesi sull’emigrazione italiana negli anni 1960 ad Amburgo. La tesi mi è valsa un invito a collaborare per due anni con la Forschungsstelle für Zeitgeschichte in Hamburg, un centro di ricerca storica che all’epoca stava portando avanti un progetto di recupero della memoria delle vicende dell’immigrazione in quell’area. Al termine di questa importante esperienza, che mi ha permesso tra l’altro di conseguire il dottorato, non avevo ben chiaro dove mettere radici. In Germania erano anni difficili di crisi e di tagli. Gli studi storici non se la passavano benissimo. In Italia invece mi pareva che ci fosse un certo fermento e così ho preso la decisione di tornare a Verona, la mia città. Questa, però, nel frattempo aveva cambiato volto. La presenza straniera si era fatta assai più appariscente rispetto alla seconda metà degli anni 1990 ed era in forte aumento. Un fatto che mi colpì davvero molto. Da zero al melting pot in pochissimi anni. È stata una specie di cortocircuito. L’oggetto dei miei studi si materializzava ora davanti ai miei occhi. Ho cominciato a maturare il desiderio di affiancare allo studio delle migrazioni storiche una qualche forma di impegno sociale nell’ambito di questo flusso in pieno svolgimento praticamente sotto casa. Così ho iniziato ad approfondire anche il fenomeno dell’immigrazione. Per un po’ ho tenuto insieme i due interessi, cercando laddove possibile di saldarli, per esempio avvicinando i giovani al tema delle migrazioni di ieri e di oggi con workshops nelle scuole, dove mi pareva che l’argomento avesse uno spazio davvero esiguo in rapporto all’importanza che ha avuto ed ha tuttora nelle vicende locali e globali. Nel corso degli ultimi anni, per una serie di motivi, l’interesse per l’immigrazione ha poi preso il sopravvento. In parte, banalmente, a causa del fatto che ho iniziato ad insegnare stabilmente a scuola ed è diventato difficile dedicare lunghi periodi di tempo alla ricerca archivistica, che è la base del lavoro di storico. L’altra ragione sono gli stimoli che mi trasmette una materia come quella dell’immigrazione. Una realtà in continuo movimento, ricca di relazioni umane, portatrice di cambiamento, non solo da indagare, ma anche da vivere.

2. COME MAI HAI SCELTO LA FORMA DEL DOCUMENTARIO?
Nel corso degli anni in cui ho avuto la fortuna di occuparmi professionalmente di storia, una mia grande passione fin da piccolo, ho dovuto constatare che il testo storiografico, per quanto possa essere ben scritto e l’argomento possa essere interessante e magari pure di attualità, è molto difficile che raggiunga un pubblico appena più ampio della cerchia degli specialisti. È normale, ma personalmente ho sempre sofferto questa cosa, non tanto perché avessi aspettative particolari riguardo alla fortuna delle mie ricerche, ma perché avvertivo la soggezione che metteva nella gente il classico libro di storia. Quando nel 2009 mi è stato chiesto di fare da consulente per il documentario Lassù in Germania basato sul mio libro Governare l’emigrazione, ho iniziato a percepire quanto maggiore potesse essere la capacità di questo strumento di impattare su un pubblico ben più vasto. Improvvisamente, amici che non avevano mai mostrato il benché minimo interesse per le mie ricerche, cominciavano ad assicurarmi che non si sarebbero persi il documentario per nulla al mondo! Circa nel 2011, casualmente, ho poi stretto amicizia con un coetaneo di Padova, città dove mi ero nel frattempo trasferito presso quella che adesso è mia moglie, e parlando del più e del meno ho scoperto che con un suo gruppo (vedi www.piccolabottegabaltazar.it ) aveva composto le musiche per i pluripremiati documentari di Andrea Segre sull’immigrazione (Come un uomo sulla terra, 2008; Il sangue verde, 2010) e che come collaboratore tecnico del centro multimediale dell’Università di Padova aveva dimestichezza con gli ambiti della regia e del montaggio. Di lì a decidere di buttarsi in un progetto di documentario tutto nostro è stato un passo davvero breve. Anche l’individuazione dell’argomento non è stata difficile. Io avevo molte letture alle spalle in tema di migrazioni e abbiamo semplicemente scelto in quel mazzo la carta che ci sembrava vincente: raccontare chi ancora non era stato raccontato, cioè i cinesi d’Italia.

3. COME HAI TROVATO IL LAVORARE CON QUESTO STRUMENTO?
Bellissimo. E faticosissimo. Bellissimo perché dentro il contenitore documentario c’è davvero tutto: ricerca, scrittura, rapporti umani, arte. E si tratta di uno strumento potente, perché lavora sulle emozioni dello spettatore. In corso d’opera mi sono reso conto che la sua architettura complessiva non deve solo tendere a trasmettere informazioni, ma anche e soprattutto a colpire a livello emozionale. Sono le emozioni ad imprimersi indelebilmente nella memoria, mentre spiegazioni e dati vengono presto dimenticati. Si parte dunque dallo studio e dalla ricerca, in modo non molto diverso da come si affronta la scrittura di un nuovo libro, ma si deve arrivare a condensare tutto in una narrazione per immagini, laddove queste ultime siano in grado di toccare le corde dell’emozione. E qui viene naturalmente il difficile, soprattutto se, come nel nostro caso, si comincia da zero o quasi e si è scelto con parecchia temerarietà di indagare chi non si racconta troppo volentieri, come i cinesi. Individuare alcune persone da intervistare e instaurare un adeguato clima di fiducia è stato in realtà meno arduo del previsto, ma il tempo concessoci per girare era comunque molto limitato. Questo ha reso necessario registrare le interviste in tutta fretta con il rischio, come poi si è puntualmente verificato, di sbagliare o dimenticare qualcosa. Difficoltosa fino allo sfinimento e lunghissima, ma al contempo anche estremamente affascinante perché la più creativa, è stata anche la fase del montaggio. Abbiamo dovuto ridurre parecchie ore di girato al minutaggio standard dei documentari, che vanno di solito dai 25 ai 50 minuti di durata. È stato necessario rivedere più e più volte il materiale, tagliando, eliminando e spostando sequenze. Una fatica di Sisifo, con qualche momento di vero sconforto. Nel complesso, potendo dedicare al documentario solo parte del tempo libero, dall’idea alla realizzazione sono passati ben due anni. Alla fine ci pare comunque di aver ottenuto una sintesi abbastanza rappresentativa, e speriamo anche un po’ suggestiva ed esteticamente gradevole, delle nostre chiacchierate con alcuni cinesi d’Italia.

4. COSA PENSI DI FARE NEL FUTURO?
Questa è una domanda alla quale è difficile rispondere. Al momento stiamo ancora cercando di far conoscere il nostro primo lavoro. Non diversamente dai libri appena pubblicati, anche i documentari vanno ovviamente promossi, altrimenti nessuno si accorge della loro esistenza. Poi si vedrà. Certo, l’impegno profuso nella realizzazione del documentario è stato tale e tanto, che ci tremano un po’ le gambe al pensiero di scalare un’altra montagna del genere. Nello stesso tempo c’è indubbiamente il desiderio di lavorare ad un nuovo progetto per mettere a frutto quanto abbiamo imparato, probabilmente continuando ad indagare il tema dell’immigrazione, che non manca, quotidianamente, di regalare spunti di grande interesse e che sarà ancora a lungo di estrema attualità.