1. L’EMIGRANTE “ALLA FRONTE”: MOTIVI ED ESPEDIENTI NELLA LETTERATURA EDUCATIVA
L’emigrante che fa ritorno in patria è indubbiamente uno dei motivi ricorrenti e inossidabili del racconto di emigrazione per ragazzi, dagli ultimi due decenni dell’Ottocento fino agli anni settanta del secolo scorso. Laddove compare l’emigrante “di carta”, prima o poi – quasi sempre –, c’è un ritorno in patria da celebrare: è l’esperienza all’estero che trova uno scioglimento, atteso o improvviso, è il cerchio narrativo che si chiude, fosse anche il ritorno dei figli che mai hanno calpestato la terra dei padri. Ai luoghi domestici riconducono, a tratti, l’irrefrenabile nostalgia, l’epilogo – fausto o dolentissimo – dell’esperienza migratoria, gli imperativi della guerra o i percorsi della devozione e della pietà. Morire in patria, o almeno esservi sepolti, è per molti emigranti l’aspirazione conclusiva, il risarcimento auspicato di una vita in ogni senso movimentata. Anche nei libri di scuola e per ragazzi .
La Grande guerra fornisce un’ulteriore declinazione a questa figura, reale e letteraria, ideologicamente connotata in chiave patriottica e nazionalistica: nei libri entra in scena, ma non è una “prima assoluta”, l’emigrato di ritorno che dà man forte alla patria in pericolo . L’Italia chiama i suoi tanti figli dispersi, gli stessi che aveva sospinto nel mondo in cerca di futuro, facendo leva e alimentando i sentimenti nostalgici e patriottici. E se i libri di scuola tra Otto e Novecento avevano abituato i giovani lettori a descrizioni luttuose dalle forti reminiscenze deamicisiane – nello stile, soprattutto, di “Gli Emigranti” (1882) –, sui destini dolorosi e mesti degli italiani che abbandonano la patria, sulla condizione di oppressione e degrado che inesorabilmente essi conoscono in terra straniera – i “naufraghi della vita” recavano i titoli di molti dei raccontini pretesto dal chiaro messaggio anti emigrazionista –, ecco che adesso l’emigrante che ritorna inequivocabilmente è ascritto alla categoria letteraria “insolita” degli espatriati che in America hanno fatto fortuna . Un espediente dai chiari fini propagandistici che consentiva di esaltare al massimo grado la scelta patriottica di coloro che facevano ritorno, sottolinearne il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’esempio virtuoso. La narrazione delle vicende della Grande guerra e l’uso dell’epopea militare italiana del 1915-1918 ai fini della formazione del sentimento nazionale nelle nuove generazioni trovava dunque nel topos del “ritornante di guerra” un eccellente espediente, edificante e paternalistico, che andava ad arricchire il già ampio corollario di eroi e grandi imprese.
Nei libri di “amena lettura” e nei testi scolastici destinati sia alle scuole del Regno sia alle scuole italiane all’estero, la narrazione del migrante che fa ritorno per combattere gli austriaci ebbe due fulgidi momenti tra loro storicamente contigui: nel corso del conflitto mondiale (a partire dal 1915), per effetto della mobilitazione nazionale che coinvolse anche l’editoria per ragazzi e la scuola (ed ebbe risonanze letterarie importanti negli anni dell’immediato dopoguerra); con l’avvento del regime fascista che, come è noto, pose alla base del proprio consenso e, per quanto qui interessa, informò i programmi scolastici – da quelli del periodo idealista del 1923 (Gentile e Lombardo Radice) a quelli fascistissimi del 1939 (Bottai) –, al “culto della patria” e all’esaltazione della Grande guerra, di cui il regime si proclamò diretto erede, quale “completamento del processo di redenzione nazionale” .
I motivi e i messaggi ideologici sottostanti a questa narrativa non subirono significativi cambiamenti nel tempo: il ritorno dell’emigrato, in questi casi, risultava funzionale a ravvivare e fortificare l’identità e l’orgoglio nazionali, assopitisi durante la permanenza all’estero (un risveglio che, nella finzione letteraria, era spesso occasionato da diverbi tra emigranti e autoctoni, o più frequentemente tra emigranti italiani e emigranti tedeschi e austriaci); in altre letture, il ritorno in patria poteva assumere un significato di redenzione e riscatto rispetto a colpe passate, vere o presunte, dell’emigrante, fino all’effusione del sangue per la patria e la morte purificatrice “alla fronte”; inoltre, queste narrazioni risultavano funzionali a mettere in risalto lo spirito di abnegazione e l’eroismo del “ritornante”verso la madre-patria bisognosa (che lascia tutto ciò che ha costruito in terra straniera, benessere e famiglia).La patria chiama, in questi racconti, attraverso un giornale capitato nelle mani dell’emigrante, o attraverso le parole di un compagno di lavoro, o la lettera di un parente, che porta nella lontana campagna o nel piccolo sobborgo dove lavora, l’annuncio della guerra dell’Italia. E così, quando la Patria chiama, l’“emigrante scolastico” fa ritorno senza pensarci un secondo di più: rarissimi sono i casi in cui prevale il motto ubi panis ibi patria. Le letture sono spietate e inesorabili verso coloro che sono rimasti indifferenti al richiamo della patria, come succede a Nando, giovane emigrato in Argentina, irrequieto protagonista del racconto Un ritorno di Giuseppe Fanciulli (1881-1951), il più autorevole scrittore per ragazzi della prima metà del Novecento. “Tanti tornavano dall’America per fare il loro dovere di soldati – scrive Fanciulli – […]. Partivano navi dai porti lontani, con la bandiera della patria, sbarcavano i figli della terra non dimenticata, per prender l’arme e difenderla”, ma il giovane Nando delude le aspettative di familiari e compaesani che allo scoppio della guerra attendono, invano, il suo ritorno. Nando tornerà, tardivamente, mutilato comunque, disonorato e sconfitto .
2. ITALIA NOSTRA!. UN INSTANT BOOK SULLA GRANDE GUERRA AD USO DEGLI SCOLARI
Nel biennio 1915-1916 esce un corso di lettura per la scuole elementari e medie dai contenuti ardentemente patriottici e nazionalistici, una sorta di instant book dell’epoca attraverso cui si intendeva “trasmettere ai più piccoli esempi di amor patrio e di sacrificio incondizionato e modelli di eroismo” . Il corso, edito in prima edizione da Salvatore Biondo e più volte ristampato fino al 1919 da I.R.E.S. , aveva un lungo titolo esplicativo – Italia nostra! Forte sulle tue Alpi libera nei tuoi mari. Libriccino della nostra guerra per i piccoli italiani e le piccole italiane –, e fu redatto da due scrittrici di una certa notorietà: Luigi di San Giusto, pseudonimo sotto cui si celava la poetessa e narratrice di origine triestina Luisa Macina Gervasio (1865-1936), collaboratrice dell’irredentista “Giornalino della Domenica”, traduttrice e autrice di molti racconti e romanzi per ragazzi , si incaricò di scrivere il corso primario, articolato in più libricini per le classi dalla II alla V; Barbara Allason (1877-1968), scrittrice e germanista e, più tardi, esponente dell’antifascismo torinese, si occupò del testo (in unico volume) rivolto agli studenti delle medie . In entrambi i corsi, il conflitto mondiale e il tema della patria in pericolo che richiama alla mobilitazione i suoi figli dispersi nel mondo è grandemente sviluppato con enfasi retorica e passione nazionalistica, sia attraverso lo strumento della finzione narrativa sia attraverso l’inserimento di parti più descrittive degli accadimenti.
Nel “libriccino” di lettura per la classe 3^ è il figlio della Luisa, Pietro, a comunicare attraverso una lettera alla madre il suo ritorno per arruolarsi nell’esercito e “fare la guerra all’Austria”. Da quindici anni Pietro vive in America dove, precisa la madre, “prese moglie, ebbe tre figliuole. Io non conosco né la moglie né le figlie. Ogni anno mi scriveva che voleva venire a vedermi. Ma gli affari non glielo permettevano. Oggi egli mi scrive: ‘La patria chiama e io vengo!’” . Pietro appartiene a quella categoria di emigranti che ha fatto fortuna, ma noncurante del benessere acquisito e sprezzante dei pericoli cui va incontro, decide di ritornare. Fa ribrezzo il solo pensiero di essere annoverato tra i disertori. “È disertore chi abbandona la propria bandiera. È disertore il soldato che passa nel campo nemico. È disertore chi non si presenta, quando la patria lo chiama sotto le armi. Ma in Italia non ci sono disertori. In Italia ci sono patriotti, e molti vengono ad arrolarsi volontari, senza obbligo di leva” .
La storia del maestro Rondini – nomen omen – e del fratello emigrato in Brasile, “traviato e redento”, occupa ben otto pagine del corso di letture per la classe quarta elementare . Nella lunga lettera che il maestro legge alla classe – una lettura esemplare ed istruttiva –, il fratello ripercorre le fasi iniziali della sua esperienza d’emigrazione in Brasile raccontando come questa lo abbia cambiato, reso migliore, da fannullone che era, a uomo pieno di energia e volontà per il lavoro. Egli preannuncia così al fratello il suo imminente ritorno, con parole infiammate di retorica nazionalista e di fervente patriottismo:
Partiremo. – Sì: deve il nostro braccio servire per difendere la patria, per cacciare il nemico dalle belle contrade nostre, che usurpa oramai da troppo tempo. Anche i vecchi vorrebbero ritornare in Italia. Ma non è necessario. Bastiamo noi giovani. Io partirò tra poco. Rivedrò la casa paterna, rivedrò te, rivedrò i luoghi nativi, per ripartire immediatamente contro il nemico. E l’Italia l’avrà da fare con noi. Vendicheremo l’onta di Custoza e di Lissa. Vedremo sventolare il tricolore in Trento e in Trieste. Son certo che da ogni parte del mondo, tutti gl’Italiani ritorneranno per difenderla, come si difende la madre. […] Partirò pel fronte con l’anima rinnovata e con la fede nella vittoria. Arrivederci, mio caro fratello .
La lettera suscita commozione negli scolari i quali vogliono saperne di più. L’autrice così può esprimere il suo pensiero sull’emigrazione, può elencare i doveri che ogni individuo mantiene verso la patria, può presentare infine alcune figure di “grandi italiani” che morirono per la patria. Più avanti nel testo, gli studenti trovavano un’ampia spiegazione dal titolo esemplificativo Ritornano!, in buona parte ripetitiva dei concetti già espressi nel racconto di Pietro . Un ultimo raccontino, I tre ferrovieri, chiude l’ampio capitolo che Macina Gervasio dedica al contro-esodo, ossia agli emigranti che ritornarono per dar man forte all’Italia in guerra. Merita soffermarcisi con attenzione sia perché sarà più volte ripreso, con piccole varianti e titoli diversi, dalla pubblicistica scolastica successiva , sia perché in esso troviamo gran parte di quei passaggi narrativi che caratterizzeranno molte storie in argomento, assurgendo dunque a prototipo di quelle. Nella finzione letteraria, un giovane siciliano racconta la sua vicenda personale:
Eravamo in tre italiani a lavorare alla costruzione di una strada ferrata, in un paese lontano, laggiù in America. Il paese è formato semplicemente di baracche di legno, nelle quali dimorano gli operai. Non avevamo quasi mai notizie dall’Italia. L’ingegnere che presiedeva ai lavori era il solo che ricevesse di tanto in tanto qualche giornale, che poi regalava a noi. Qualche compagno di lavoro leggeva allora ad alta voce le notizie della guerra, nelle ore di riposo. I nostri compagni erano parte americani, parte tedeschi. Andavano poco d’accordo fra di loro, e ogni tanto venivano a parole, perché gli americani dicevano che la Germania aveva torto di fare la guerra. Noi tre italiani eravamo indifferenti. Ne capivamo poco di quella guerra; non ci importava chi vinceva. Ma ecco che cominciarono a giungere notizie che l’Italia si preparava a far la guerra anche lei. I tedeschi ci guardavano in cagnesco. E noi, si capisce, ricambiavamo le stesse occhiate. Un giorno leggemmo nel giornale dell’ingegnere che il Re aveva dichiarato guerra all’Austria. Eravamo in molti, riuniti nella stessa baracca. I tedeschi cominciarono a gridare: “italiani traditori!”. Noi tre balzammo in piedi, ci buttammo contro di loro, che erano in assai maggior numero, e gridammo: “Traditori sarete voi! Fatevi avanti, se avete coraggio!”. […] Quel giorno stesso noi tre stabilimmo di abbandonare il lavoro, che era molto bene rimunerato, e di venire in Italia ad arrolarci. Non aspettammo nemmeno la partenza di certi carri che giornalmente facevano una specie di servizio postale, e a piedi c’incamminammo verso il villaggio dove erano le nostre famiglie. Le nostre donne non capivano nulla della guerra. Ci dicevano: “Ma dove volete andare? Ma perché volete andare a farvi ammazzare?”. Spiegammo loro che eravamo giovani e forti, che avevamo il dovere di servire la Patria, e che se l’Italia faceva la guerra all’Austria, noi dovevamo aiutarla in ogni modo. Quelle povere donne finirono col darci ragione e ci dicevano piangendo: “Allora se è vostro dovere, andate e portatevi bene”. Ci facemmo prestare del denaro da un amico, e ne lasciammo un poco alle famiglie. Poi raccomandammo le nostre donne e i nostri bambini a Dio e ad alcuni connazionali, e il domani partimmo col treno per Nuova-York. Al Consolato italiano, invaso da una grandissima folla d’italiani tutti smaniosi di partire, i nostri nomi non risultavano, perché eravamo immigrati da pochi anni e non ci eravamo inscritti. Ma anche quella difficoltà la superammo; perché dicevamo: “A tutti i costi noi partiremo”. E eccoci qua! Il viaggio ci fu pagato dal Governo italiano, ma saremmo venuti lo stesso, anche se avessimo dovuto pagarlo noi. Piuttosto ci saremmo fatti prestare il danaro! Siamo o non siamo italiani?
Come riveleranno gli autori di un successivo corso di letture per le scuole italiane all’esteroche quel racconto riproducevano , si trattava di una storia raccolta, e presumibilmente reinventata o persino artefatta, da “L’Idea nazionale”, organo del Partito nazionalista italiano, fondato a Roma nel 1911 da F. Coppola, E. Corradini e L. Federzoni e che nel 1914, per propugnare l’intervento in guerra dell’Italia, si era trasformato da settimanale in quotidiano.
Nei due lunghi racconti Oltre l’Oceano e Il disertore che Barbara Allason scrive per gli studenti delle medie del corso Italia nostra! (1916), si narrano due storie di ritorni che, a specchio, dialogano a vicenda . Nel primo, è un giovane emigrato con “quegli occhi ardenti e quella fiamma d’orgoglio sulla fronte” che preso da un fuoco mistico, lascia il padre e la moglie nella fazenda e va a combattere in Italia, anche se la sua “classe non è chiamata ancora”. “Bisogna partire” perché è “una causa santa” concordano padre e figlio. Il secondo racconto invece mette in scena il ravvedimento di un disertore, Giorgio Malan, che abbandonato anni prima l’esercito – dove era arrivato “turbato già da idee sovversive” –, per timore di una punizione se ne va in America. Quando scoppia il conflitto mondiale, il giovane lavora in una miniera del Colorado, vive solo e fa i fatti suoi, ma in miniera ci sono molti tedeschi “prepotenti e burbanzosi2 che diventano profondamente antitaliani con l’entrata in guerra dell’Italia (“Vigliacchi, mandolinisti, poltroni!” apostrofano ripetutamente gli italiani). Giorgio s’imbarca per l’Europa, dove intende consumare la sua personale vendetta. Dopo un breve incontro con la madre, va “davanti ai magistrati militari [ai quali] egli ripeté ciò che aveva detto nella casetta natia, la sera del suo arrivo: che lo lasciassero partire per il fronte, che era disposto a tutto; anzi, come una grazia, chiedeva le destinazioni di maggior pericolo, dove nessuno scampa, le incombenze più ardue […]” . E così sarà: assolto dal tribunale, inviato al medesimo reggimento di montagna da dove in passato era fuggito, dominato dal desiderio quasi mistico di espiare le colpe passate – quella fuga all’estero che pure ha contribuito a fargli comprendere le “sciocchezze delle teorie egualitarie e socialiste” –, il giovane si farà designare in una posizione avanzatissima “che dominava la prima trincea nemica”. Qui troverà la morte “importante” tanto ricercata, che monda dalle colpe passate e apre alla piena riabilitazione.
3. 1915-1922: COMPARSE E DECLINAZIONI NELLA LETTERATURA PER RAGAZZI
Siamo in piena Prima guerra mondiale, e a questo contesto allude il titolo, quando esce nella celebre Bibliotechina della Lampada Primavere italiche. Romanzo d’attualità (1915), testo d’esordio di Olga Visentini (1893-1961), scrittrice tra le più prolifiche e rispettate dal regime fascista . Le pagine iniziali mostrano un certo realismo nel modo di affrontare il conflitto: “Il tragico annunzio aveva sconvolto la piccola e industriosa cittadinanza d’Alsazia, e il quartiere degli italiani, dopo giorni e settimane di ansia e di miseria s’era spopolato. Gli esuli strappati al lavoro, privi di risorse, turbati, sbalorditi da quell’orribile follia che è la guerra, tornavano in patria; a poco a poco, a sciami, serrandosi l’un contro l’altro come le rondini che migrano in un giorno burrascoso”. Anche la piccola Aurora è costretta a ritornare dall’Alsazia, dove era emigrata con la famiglia; per sopravvivere, con il fratello Lorenzo fanno i musicisti ambulanti a Milano (altro topos del racconto di emigrazione!) . Quando arriva la primavera e l’Italia entra a sua volta nel conflitto, la narrazione cambia improvvisamente tono; il realismo dell’inizio è sostituito da una retorica patriottica infiammata e i membri della famiglia di emigranti diventano tutti ardenti partigiani dell’intervento. È uno scroscio di lacrime e sin-ghiozzi, e tutti manifestano entusiasmo e impazienza di partire “alla fronte”. Su questa linea si colloca anche il romanzo di impianto realista Cenerella (1918) della scrittrice siciliana Maria Messina (1887-1944), una storia malinconica che si dipana intorno al tema emigratorio e al conflitto mondiale . Cinniredda è una piccola Cenerentola, orfana, dal carattere forte e risoluto che a causa di una malattia agli occhi non potrà imbarcarsi per l’America con la madre e le sorelle. Ella rimane sola in una famiglia di parenti a Napoli, in attesa del ritorno dell’amato fratello Domenico, l’unico uomo della famiglia, che al fronte è fatto prigioniero e rinchiuso nel campo di Mathausen. Il romanzo ruota intorno al dramma della fanciulla che, ospite indesiderata, subirà umiliazioni e maltrattamenti dalle cugine e sopporterà la tirannia della zia, di origine austriaca, e che Cenerella affronta più volte per difendere l’onore dei soldati italiani. Anche la ragazzina, come il fratello soldato, combatte coraggiosamente, corpo a corpo, il comune nemico austriaco. A guerra conclusa torna il fratello, torna la madre dalle Americhe: l’uno mutilato, l’altra cadente, ma che importa, la ragazzina sente in sé la forza di sorreggerli e ricostruire con loro il futuro.
È attraverso una serie di “incontri”, in un’atmosfera carica di attesa e di maturazione interiore, che il giovane protagonista di L’americano (1918) – novella di Corinna Teresa Gray Ubertis (1877-1964), più nota comeTérésah – riscopre la sua italianità e il suo fervente amore patriottico . Dapprima, sul ponte della nave che dall’America porta i “soldati d’oltremare” in Europa – ossia i soldati dell’esercito statunitense –, a battersi per la Francia: sulla nave c’è anche Giuliano Verdirose, figlio di emigranti italiani che mai ha veduto Roma. Sulla nave conosce Harry Norton, con lui si confida e stringe una vera amicizia: a differenza di molti altri emigranti, Giuliano non ha dimenticato la patria dei genitori anche se in America “dell’Italia si parlava poco. Pareva non ci fosse nulla da vantarsi nell’esser nato italiano!” confessa all’amico . Per questo, forse, lui non è un “ritornato”, non ha sentito il richiamo della patria in pericolo, come invece è successo ad altri che sono partiti, e questo sarà il suo cruccio più grande. Il secondo incontro è al fronte, con i soldati italiani, i “beati” ed eroici soldati in “grigioverde”, come gli appaiono agli occhi; è la generazione del novantanove, di italiani fieri e forti che raccontano di battaglie e mostrano le tante cicatrici di guerra. Giuliano, il soldato americano, che ha ereditato dal padre un accento romanesco, è rapito da questa visione e da questi incontri: è entusiasta e felice. Il terzo incontro, infine, è con un vero “ritornato”, un oriundo lombardo che in America faceva il muratore, e che da tre anni combatte nell’esercito italiano. Questi incontri producono un profondo turbamento in Giuliano, un tormento interiore, che lo portano ad esaltare l’eroismo di coloro che da subito hanno risposto alla chiamata della patria mentre lui ha atteso tanto rischiando di non parteciparvi. Si confessa con Harry, il “fratello d’arme”:
Pensavo che, se l’America non fosse entrata in guerra, io non sarei qui. Né qui, né in Italia. Dianzi, al cospetto di quel soldato, ho sentito che non bastava avere questa uniforme: bisognava, Harry, essere vestito in grigioverde. Tre anni che combattono! Hanno conosciuto il bene e il male, ma sono già tre anni che combattono. Lui, quel soldato di Nuova York, figlio di povera gente, tanto più umile di me… lui è tornato subito. Lui non s’era dimenticato! Capisci, Harry? […]. Adesso tocca a noi. Gli altri si riposeranno. Non c’è più Italia, non c’è più America né Francia né Inghilterra: ci sono degli uomini giusti che sono tutti fratelli. – Ma Giuliano non si consolò. Pensava ai soldati in grigioverde venuti d’oltremare come lui. E quando giunse notizia della vittoria sul Piave, ne scrisse a lungo a suo padre nel Far West. Concludeva: “Babbo, bisogna amare l’Italia. Ne è tanto degna! In quanto ai nostri fratelli che un giorno potranno dirci: io l’ho varcato, l’Atlantico, al primo rombo di guerra e ho combattuto in grigioverde… ebbene, babbo, in quanto ai nostri fratelli che un giorno potranno mostrarci le loro ferite del Carso e del Piave riconsacrato, noi dobbiamo toglierci il cappello quand’essi passano. Sono i migliori tra noi” .
Parossismo nazionalista e feroce polemica antiemigrazionistica caratterizzano il romanzo di Bianca Margherita Cangini, Verso la luce (1918) . Nella storia, ambientata a Firenze durante la Prima guerra mondiale, compare una famiglia di origine italiana rientrata dopo una lunga esperienza di emigrazione in Germania; l’atteggiamento di chiusura e di apparente disprezzo verso tutto ciò che è italiano, soprattutto da parte del figlio, suscitano un profondo biasimo, accentuato dal clima accesamente nazionalistico che pervade ogni pagina. L’emigrazione contamina e rende “schiavi”, determina un annebbiamento dell’identità e dei valori profondi e più veri; conduce la persona ad un arretramento culturale e morale, di animo e sentimento. Ma pur si tratta (può trattarsi) di uno smarrimento temporaneo, perché anche all’emigrato è data la possibilità di ravvedersi e di uscire dallo stato “selvaggio” in cui è sprofondato. Come in un copione che avrà poi molti epigoni, presto o tardi arriva l’alba di redenzione e di risveglio, e l’emigrante tornerà sulla retta via, come recita il titolo del libro, camminerà “verso la luce”. Il romanzo dunque anticipa motivi ed espedienti narrativi che avranno un loro compiuto sviluppo nel ventennio fascista, sia rispetto alla figura dell’emigrante di ritorno, prima rinnegato e poi redento grazie alla bontà dei valori italici, sia rispetto alla nota vulgata antiemigratoria, cementata adesso dal nazionalismo, per cui l’emigrazione è un errore e solo in patria è possibile trovare il modo di superare la miseria.
È questo, in buona sostanza, il messaggio che cogliamo fin dal titolo ne Il tesoro nascosto. Romanzo del dopoguerra (1920) di Cesarina Lupati (1877-1957), giornalista e autrice di molti testi per ragazzi, con una esperienza di emigrazione in Argentina alle spalle . Non ci sono ritorni di emigranti per soccorrere la patria, poiché la guerra è vinta e ha messo in ginocchio il paese, ne ha fatto macerie, come vediamo dalle tavole sbiadite di un Attilio Mussino sottotono. Semmai c’è l’anelato ritorno nel paese di emigrazione di due bimbi orfani, Riccardo e Manolo, che dopo la morte del padre emigrato in Argentina, sono tornati in Italia con la madre (che, ammalata di dolore e disperazione, a sua volta muore). I due giovani soli, scappano dalla casa degli zii per andare a cercare il “tesoro nascosto”, una marmitta piena di monete d’argento, di cui hanno sentito parlare, sotterrata dalle famiglie venete in fuga dall’avanzata dell’esercito austriaco. I denari servono ai ragazzi per realizzare il loro sogno di riemigrare in quel paese “vergine e ricco intravisto nell’infanzia felice”. Nel corso del loro viaggio, in una Italia ferita dalla guerra, Riccardo e Manolo incontrano profughi ed emigranti, che mettono in guardia i due giovani nostalgici e sognatori rispetto ai loro propositi (“[…] restare a lavorare a casa nostra è sempre meglio”, “la patria è la patria, bisogna provare a viverne lontani per sapere che cosa sia”). Nella loro affannata e confusa ricerca del forziere pieno di monete, scopriranno che il “tesoro nascosto” esiste per davvero: non è nell’America sognata, ma in Italia presso il fratello medico del padre. Insomma, lo zio d’America è in Italia.
Del 1920 è Il dolce assenzio di Ciro Trabalza (1871-1936), una raccolta di ricordi e raccontini fiammeggianti di passione e di “alto e puro amor patrio” sulla Grande guerra . In uno dei “raccontini della zia Cecilia” – che l’Autore dice in premessa di aver trascritto dalle storie che la consorte raccontava assistendo i feriti dell’ospedale – troviamo quel padre che “andato lontano lontano ad abbattere i grandi alberi delle foreste e a estrarre i minerali dalle viscere della terra, per rimandare a casa i gruzzoli d’oro” , fa ritorno a casa sotto la tormenta. Del resto una fiumana di emigranti fanno ritorno, perché la patria chiama, ed è necessario dare un taglio alle condizioni di sfruttamento in terra straniera: “sul Grappa non eran cadute le prime nevi invernali, che già, a torme, ritornavano i figli della montagna: dalle selve della Balcania, dalle pampe argentine, dalle miniere d’Australia. Ritornavano? Ah, non col gruzzolo di Natale e per l’amore dell’alpe natìa e del domestico focolare; ma risospinti, cacciati dal turbine della guerra: avviliti per la perdita de’ sudati risparmi e pe’ duri trattamenti, stanchi de’ disagi, sgomenti per l’incerto domani!” .
Occupa indubbiamente un posto di primo piano in questa nostra rassegna, anche per la notorietà dell’autore, O Patria mia… testo vincitore di un concorso indetto nel 1911 per un libro adatto alle scuole italiane all’estero, su cui presumibilmente il suo autore, Vamba, pseudonimo di Luigi Bertelli (1860-1920), continuò a lavorare negli anni successivi . Con tale opera, uscita postuma in tre tomi tra il 1922 e il 1924 , poi ripubblicata (e aggiornata da Ettore Allodoli) un decennio più tardi in un unico volume, il celebre direttore dell’anticonformista “Giornalino della Domenica” immaginava di condurre il giovane lettore in una casetta di Esperanza, una “colonia italiana” della provincia argentina di Santa Fè, dove da fine Ottocento abita un emigrato lucchese già venditore di statuette di gesso, Giovanni Pontini, il quale è tutto proteso a illustrare i “fasti” dell’Italia ai suoi bambini, tra monumenti e eroi della Patria. Nelle cinquecento pagine di narrazione della storia d’Italia, una corposa parte conclusiva è dedicata al “doppio” ritorno degli emigranti, dall’Argentina, per partecipare dapprima alla guerra libica (italo-turca) del 1911 e poi, dalla Libia, per combattere nella Grande guerra. Il ritorno è introdotto dall’indicazione dei doveri degli italiani all’estero, tra cui, il primo, il più sacro è quello di rispondere alla chiamata alle armi.
Cari ragazzi – spiega Giovanni Pontini ai figli – in quel tempo lottavo come un disperato per tenermi a galla in questo mare tempestoso della vita americana; e non ero solo, ma era con me la vostra mamma, e anch’ella non era sola, ma aveva nel suo seno un bambino, tu caro Guido… E io dovevo aiutarvi, dovevo portarvi in salvo tutti e due, ed era così piccola e fragile la tavola alla quale allora, povero naufrago, mi tenevo aggrappato… proprio allora avrei dovuto tornare in Italia a fare i soldato e… e non risposi all’appello. Ecco, figliuoli miei, una cosa triste, molto triste! [..] Ma ora la Patria è in guerra, e io corro a lei a chiederle perdono e offrirle la mia vita!
E così, se il babbo va alla guerra (di Libia) perché la Patria chiama, anche i figli non vogliono essere da meno. Ma la febbre del ritorno è contagiosa e colpisce la scuola domenicale della colonia che è sospesa “perché gli scolari a poco a poco se ne erano andati tutti in Italia, quale perché era di leva, quale perché non avendo, come il Pontini, risposto in tempo alla chiamata, si presentava ora disposto a subir la pena come renitente alla leva pur di avere l’ambito compenso di combattere per l’Italia” . I nostri partono così da Buenos Ayres e arrivano a Genova tra esclamazioni di giubilo e entusiasmo. Al Comando militare il padre, renitente alla leva, viene salutato con un certo sarcasmo (“Tutti così questi Italiani! Quando c’è da annoiarsi, stanno a fare il loro comodo; vengono solo quando c’è da divertirsi!”) e inviato a Napoli per imbarcarsi per la Libia; allo scoppio della Guerra mondiale, tutta la famiglia farà nuovamente ritorno da Tripoli, dove nel frattempo si era sistemata da oltre due anni, e Giovanni e il figlio Guido andranno “alla fronte” a combattere gli austriaci. Entrambi ritorneranno, il padre con una gamba in meno, e il secondo dopo aver partecipato all’“impresa” di Fiume a fianco di D’Annunzio: l’America è un lontano ricordo benché casa, terra e amici siano tutti là. Ma il fascismo è alle porte e la famiglia all’unisono si persuade: “noi restiamo in Italia” .La guerra, in fondo, sembra dirci questa letteratura, è stata una benedizione perché grazie ad essa la patria ha ritrovato tanti suoi figli sperduti nel mondo.
Sarà la letteratura per ragazzi del ventennio, e soprattutto saranno i testi unici di stato per le scuole del Regno e per quelle italiane all’estero (1929-1930) a dare ampio spazio all’epopea del ritorno degli emigranti patriotticamente ispirato dai venti della Prima guerra mondiale, benché sostanzialmente riproduttivi dei motivi e delle trame narrative dei testi precedenti . E sarà uno svolazzare di rondini, iconiche e testuali, che emigrano e fanno ritorno, un guizzare di anguille che risalgono la corrente: immagini metaforiche che campeggiano e ricorrono con insistenza soprattutto quando la “Guerra di redenzione” entra in scena.