La sera del 6 luglio 1916 una lunga tradotta militare lasciava la stazione di Verona diretta a Vincenza e quindi Schio. La occupano circa 300 guardie di finanza, che fino a quel momento avevano prestato servizio, al fronte sì, ma nelle “tranquille” posizioni della Val Lagarina. Le perdite crudeli imposte ai battaglioni alpini che sul Pasubio stavano cercando di occupare il Dente austriaco, nello sforzo di tornare alla falde del Col Santo e di recidere così da ovest il grande saliente creato dall’offensiva austriaca dei mesi precedenti, andavano assolutamente ripianate. Mancavano però i complementi che, provenendo dalla ristretta area di reclutamento dei battaglioni alpini, i soli di costituzione rigorosamente territoriale, potessero servire alla bisogna. L’urgenza del loro impiego non lasciava quindi ai comandi molte scelte. La più semplice era quella di trasferire negli alpini un certo numero di finanzieri, non utilizzabili nel loro impiego canonico, e che non avevano avuto modo fino a quel momento di partecipare a combattimenti se non in modo sporadico. In tal modo però si operava una diminutio, non tanto nei termini vaghi, ma pur non trascurabili, dell’onore e dello spirito di corpo, quanto piuttosto in quelli, decisamente più concreti, delle disponibilità economiche. Entrando a far parte di un semplice corpo di fanteria, qual era quello degli alpini, le guardie di finanza venivano infatti a perdere il diritto al soprassoldo di guerra, di cui avevano goduto fino a quel momento.
Non doveva trattarsi di una perdita di poco conto. O almeno come tale non venne avvertita dagli interessati. Subito dopo aver lasciato la stazione di Porta Nuova, sul treno cominciarono ad avvertirsi urla e schiamazzi. Dal finestrino di uno scompartimento partirono dei colpi di fucile. A Tavernelle il treno venne fermato e qualche ufficiale cercò di riportare l’ordine e la calma. Fu di fatto lo stesso che gettare della benzina per spegnere delle fiamme. Alla ripresa del viaggio le proteste si fecero più vive e rumorose, al punto che a Vicenza non solo la tradotta dovette essere fermata, ma si dovette procedere ad una prima serie di arresti. Bendazzoli Ettore classe 1892 di Lazise, Ferrari Angelo classe 1891 di Grezzana, Pavan Alfonso classe 1890 di Santangelo di Treviso, Marogna Vittorio classe 1888 di Prun (VR), vennero fatti scendere dal treno e tratti in arresto. A loro carico, oltre l’adunata sediziosa, venne mossa l’accusa specifica di essere stati sorpresi a gridare: “Abbasso la guerra!”, “Vogliamo la pace!” e “Ci conducono al macello”.
Se qualcuno si illudeva che il duro provvedimento disciplinare, cui sarebbe inevitabilmente seguito un procedimento giudiziario, con la perdita definitiva dell’impiego ed altri guai, certamente peggiori, potesse indurre tutti gli altri ad un atteggiamento più remissivo e consono alla disciplina militare, si sbagliava. Sul tratto ferroviario Vicenza-Thiene, la rivolta – perché di questo ormai si trattava – riprese più rabbiosa. A guidarla stavolta, ma c’è da supporre che ne avessero fatto parte integrante anche in precedenza, oltre al veronese Bortolo Visonà classe 1891, un gruppo di finanzieri originari della Val Brenta: Zanon Francesco di Campolongo sul Brenta classe 1889, Cavalli Giuseppe classe 1889 di Valstagna, Ceccon Giuseppe classe 1889 di S.Nazario. A Thiene, dopo che altri colpi di fucile avevano punteggiato la notte vicentina, non contribuendo certo a diffondere la calma nelle sue campagne, venne arrestato lo Zanon. A Schio, infine, vennero fatti scendere ed arrestati tutti gli altri componenti del suo scompartimento. Visonà ammise tranquillamente di essere stato lo “sparatore”, Angelo Ferrari, classe 1891 di Grezzana, si fece carico dei pesanti insulti lanciati al vice-brigadiere Ferdinando Scarpi, incaricato di chiudere gli sportelli delle carrozze. Gli altri non fecero dichiarazioni, ma riconobbero la loro complicità nei fatti addebitati.
Il processo che ne seguì, celebrato a Valdagno il 14 agosto successivo da una corte presieduta dal Colonnello Brigadiere Giuseppe Regazzi, un ufficiale di artiglieria con poca esperienza della guerra in corso, non ravvisò in quanto accaduto il reato di rivolta, mancando il “previo concerto”. Poté quindi concludere che il “rifiuto di obbedienza” (art. 123 del Codice Penale Militare) era in realtà dovuto alle “abbondanti provviste di vino” che, a dispetto degli ordini ricevuti, le fiamme gialle avevano fatto alla stazione di Verona. Applicò di conseguenza le aggravanti derivanti dallo stato di guerra e comminò pene variabili dai 2 ai 6 anni di carcere, da scontare comunque a guerra conclusa. Data la controffensiva ancora in corso sul Pasubio, non era evidentemente il caso di sottrarre ai reparti alpini complementi preziosi. L’essere destinati a linee tanto sanguinosamente contese rappresentava una condanna peggiore del pur temibile carcere militare.
L’episodio in sé potrebbe apparire del tutto estraneo alla tematica dell’emigrazione, sia pur nei suoi rapporti con la particolare situazione creata dallo scoppio del conflitto. Esso parrebbe piuttosto da ascrivere ai problemi del regime disciplinare voluto da Cadorna per l’esercito nei primi anni di guerra e che è stato oggetto di una mole imponente di critiche e di una serie, forse meno numerosa, di studi ed approfondimenti specifici. In realtà, per la particolare provenienza dei suoi protagonisti, esso si presenta come paradigmatico di alcuni drammi di questa fase dell’emigrazione italiana. Gli imputati infatti erano tutti originari di province venete ed alcuni provenivano da aree fortemente interessate tanto dal fenomeno migratorio in generale, quanto dalla fattispecie del rientro di un gran numero di emigranti nella tarda estate del 1914 e nella successiva primavera del 1915. Oltretutto si trattava di zone in cui – come notava già Arnaldo Agnelli in un’opera del 1909 – in cui l’emigrazione aveva avuto l’effetto di accrescere la disoccupazione, spingendo infatti la parte della popolazione che restava, per lo più vecchi, donne e bambini sotto i 15 anni, ad adottare forme di coltivazione meno intensive, diminuendo così la domanda di lavoro. Per quanto riguarda in particolare la Val Brenta poi il limite oggettivo dei piccolissimi appezzamenti di terra, le cosiddette “terrazze” (per cui il termine campo indica spesso appezzamenti di poche centinaia di m²), aveva obbligato a forme costanti di mobilità. Il contadino era quindi costretto ad attività bracciantili presso i campi della pianura o ad abbinare all’agricoltura una o più attività artigianali. Entrambe queste condizioni lo spingevano fatalmente sulla via dell’emigrazione.
Si tratta di un tema, quello del nesso esistente tra rientro dei migranti-difficoltà economiche e accrescersi delle tensioni sociali-scoppio della guerra voluto dal gabinetto Salandra, che è stato oggetto anche di recenti ricerche. Il convegno organizzato ai primi di novembre del 2015 a Gorizia a cura della SPI-CGIL dal titolo significativo di Guerra e pane. Operai e contadini nella grande guerra, si proponeva proprio di indagare il legame di causa-effetto che venne ad instaurarsi tra il rientro di un alto numero di lavoratori ed il mutare dell’opinione anche delle autorità, i prefetti fra tutti, sull’utilità di una nostra partecipazione al conflitto in corso. Non a caso Giovanni Favero nella sua relazione a questo incontro ha parlato di “neutralità impossibile”, anche se è forse meglio parlare di “neutralità insostenibile” . E del resto il richiamo ad un’indagine in questo senso era già stato avanzato da Giovanna Procacci nel suo studio, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande Guerra del 1999, con un’annotazione relativa in particolare all’area vicentina:
Si deve anche tenere presente che l’entrata in guerra aveva in certo qual modo sbloccato la situazione di stallo e crisi dei mesi precedenti, quando il rimpatrio in massa degli emigrati, provenienti soprattutto dalla Germania e dall’Austria [in realtà dall’intero Impero austro-ungarico e non meno da paesi dell’Intesa o neutrali, Francia e Belgio fra tutti] (nella sola provincia di Vicenza, a metà aprile 1915, come riferiva il prefetto, erano rientrati già 30.000 lavoratori) aveva reso drammatica in molte zone la situazione occupazionale, già grave per le difficoltà in cui si trovavano numerose imprese, soprattutto di piccole dimensioni, in seguito all’interruzione di traffici commerciali dopo l’inizio del conflitto .
Sulla stessa falsariga si colloca l’esauriente e documentata analisi di Matteo Ermacora, da poco data alle stampe, che fin dal titolo La guerra prima della guerra riecheggia le tematiche di questo intervento. Usando come osservatorio privilegiato l’area friulana, e più specificamente quella udinese, l’autore offre una serie di approfondimenti di notevole spessore sulle problematiche di gestione economica del fenomeno migratorio, sulle difficoltà a tratti drammatiche poste dal rientro di oltre 80.000 lavoratori per la sola aera d’oltre Piave e l’evoluzione delle proteste e dei tumulti che me derivarono .
Nonostante queste importanti indicazioni e le nuove linee di ricerca che esse sottendono, è soprattutto un aspetto del problema a rimanere in larga parte inesplorato. Si tratta in sostanza del contributo che il ritorno di lavoratori dall’estero comporta sotto il profilo della “maturazione” e della “consapevolezza” politica delle popolazioni venete, soprattutto di quelle aree – come la Val Brenta – che sono interessate in modo massiccio dal fenomeno del “rientro”. Si tratta ovviamente di un aspetto non facile da indagare. Dato che manca quasi totalmente di documentazione scritta ed una memoria, anche orale, di questo genere di “contributo” è andata irrimediabilmente perduta con il passare degli anni. In più la popolazione della Val Brenta era da un lato certamente caratterizzata dal permanere di proprietà e tendenze ataviche, gravata dal problema del continuo frazionamento e ricomposizione di minuscoli appezzamenti, pratica che perpetuava legami di consanguineità spesso esasperati. Dall’altro ricevette, probabilmente proprio dalle esperienze dell’emigrazione, tanto più nel caso del massiccio rientro dei suoi protagonisti come nel periodo in questione, un forte impulso a rinunciare al vecchio spirito di rassegnazione, nonché al rispetto verso le autorità costituite e le classi più fortunate. Ciò non era bensì ancora sufficiente a dar vita a forme di protesta organizzate e disciplinatamente condotte sul piano politico o sindacale, come già invece accadeva in aree del vicentino di più lunga tradizione industriale, come Schio e Valdagno. Non era sufficiente, ma non si potevano comunque escludere rapide trasformazioni in tal senso.
Una delle mete privilegiate dell’emigrazione della Val Brenta era costituita dalla Confederazione elvetica. Nel Ticino in particolare era attivo, a partire dal 1913, un settimanale socialista in lingua italiana, la “Libera Stampa”, su cui, nel dicembre del 1914, compariva un articolo sulla guerra e la posizione socialista a firma di Giuseppe Di Vittorio. Questi aveva dovuto ripararvi nelle prime settimane di ottobre del 1914 in seguito alla condanna a 4 mesi e 15 giorni di reclusione dalla Corte d’assise di Ferrara “per aver istigato i coscritti a sottrarsi all’obbligo del servizio militare e, nel caso non potessero disertare la bandiera, ad organizzare la rivolta nelle caserme, anche facendo uso delle armi” . È difficile immaginare che queste, o idee consimili, non avessero trovato riscontro, e diffusione, nei lavoratori che erano tornati o stavano tuttora tornando alle vallate del nord della provincia di Vicenza.
E le prove, se pur indiziarie, a tal riguardo non mancano. L’amministrazione comunale di Cismon, ad esempio, affronta il problema della disoccupazione fin dalla seduta del 14 settembre 1914. Il sindaco, Giovanni Ganzer, e la giunta non esitano a riconoscere tanto la gravità del problema, quanto il fatto che i rimpatriati dall’estero costituiscono appunto la maggioranza dei disoccupati. Il verbale di giunta prosegue così:
Considerato che la pratica relativa alla concessione del mutuo necessario alla costruzione di fabbricati scolastici dovrà per la sua natura e malgrado ogni solerzia delle autorità interessate subiva un qualche ritardo che si risolve però in un aggravio del disagio economico oggidì esistente nelle classi lavoratrici.
Ritenuto doversi prevenire ogni e qualsiasi inconveniente [corsivo nostro] al quale può dar luogo un lungo periodo di attesa nell’esecuzione dei lavori accennati […]
È evidente nell’amministrazione, ancora ben lontana dalla “svolta a sinistra” del primo dopoguerra, la preoccupazione che sul piano sociale il binomio disoccupazione-emigrati suscita e che trova una “sponda” sensibile nel prefetto Ferrari. Quest’ultimo infatti, due giorni dopo autorizzava (visto n° 10362) l’aggravio di spesa, purché venissero denunciati i punti di bilancio su cui sarebbero andate a gravare le spese. Un nuovo sindaco, Massimiliano Vanin, peraltro già presente nelle precedente giunta, deliberando a proposito dell’acquisto e della vendita calmierata di granoturco a favore della popolazione, osservava a sua volta, il 9 dicembre successivo: “Ritenuta la eccezionalità del momento che si concreta fino ad ora in tranquille, ma ferme espressioni [corsivo nostro] di desideri e di bisogni da parte della popolazione” .
Nulla assicurava, visto che l’arrivo di nuovi emigranti accresceva, anziché ridurre il problema, che le “espressioni” sempre “ferme” sarebbero rimaste ancora a lungo “tranquille”. Il vescovo di Vicenza, mons. Ferdinando Rodolfi, particolarmente sensibile ai problemi dell’emigrazione e dotato di più di qualche “antenna” per captare gli umori dell’alto vicentino (anche se la Val Brenta era nella diocesi di Padova), osservava in una comunicazione ai suoi sacerdoti del febbraio 1915:
Esse [le nostre popolazioni] sono naturalmente miti ed hanno tradizioni di serietà e di bontà grande. Ma è necessario che chi ha un autorità su loro usi una grande prudenza ed una saggia riflessione: è necessario specialmente che non si dimentichino mai i principi della fede e i doveri che essa impone […] Non diamo ascolto a vane chiacchiere e a facili profeti [corsivo nostro], conserviamo la calma nei nostri spiriti […] con proposito costante di compiere sempre in tutto il nostro dovere .
Anche la data merita una certa attenzione, collocandosi – come vedremo – immediatamente a ridosso delle agitazioni e delle proteste della primavera del 1915.
D’altro canto proprio la Val Brenta risultava per lo più estranea a quella salvaguardia degli stati sociali più disagiati promossa proprio da mons. Pellizzo nella diocesi padovana in chiave anti-governativa, mentre la situazione non era qui molto difforme da quella del vicino feltrino. Non differiva cioè da una posizione che vedeva gli emigrati schierati su posizioni più critiche e radicali di chi era rimasto a lavorare i campi. Come per il feltrino ed il bellunese infatti anche questa enclave del parte settentrionale della provincia di Vicenza vedeva la sua emigrazione, soprattutto quella stagionale, orientata prevalentemente verso la Svizzera e la Germania. Nella prima è nota peraltro la successione dei congressi dei lavoratori italiani emigrati, cui non era mancata la partecipazione di un leader socialista come Serrati, direttore nel primo decenni del ‘900 de “L’Avvenire del Lavoratore” pubblicato a Lugano . Nella seconda non va dimenticata l’affermazione elettorale della SPD del 1912, quando il partito dei lavoratori tedeschi aveva raggiunto il 35% dei voti e si era affermato in città quali Berlino o Amburgo con percentuali quasi “bulgare” .
Quello degli emigrati al rientro in patria costituisce quindi un apporto che ben difficilmente può essere trascurato ed ancor meno escluso in linea di principio, a dispetto delle difficoltà che si incontrano a tematizzarlo ed analizzarlo. Anche quando appaiono indubbie le tracce importanti che ha lasciato, ad esempio nelle esperienze di socializzazione avanzata, in senso specificamente comunista, di alcune amministrazioni della vallata nel primo dopoguerra, quella di Cismon fra tutte . E questo perché anche il semplice contatto tra le varie forme di associazione e di esperienze lavorative locali, nei mesi che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia, e quanto maturato dagli operai all’estero, proprio in termini di consapevolezza politico-sindacale, viene garantito dalla consistenza numerica del riflusso migratorio.
Stando alle dichiarazioni del Prefetto Ferrari di fronte al Consiglio provinciale, riprese da “El Visentin” del 22 marzo 1915, se nel settembre del 1914 i rimpatriati sfioravano i 27.000, 18.000 dei quali risultavano privi di occupazione, nei primi mesi dell’anno seguente – anche se con significativi fenomeni contrari (soprattutto verso Svizzera e Francia, ma non esclusa la stessa Germania, a dispetto della mancata concessione da parte delle autorità italiane di passaporti ai lavoratori intenzionati i paesi belligeranti, in particolare quelli dell’ormai defunta Triplice Alleanza) – i “disoccupati” di ritorno dall’estero erano oltre 31.000, cui si dovevano aggiungere almeno disoccupati locali, in ulteriore crescita per l’acuirsi di alcune industrie, fra tutte (in area vicentina) quella della paglia per i cappelli . Del resto l’alternativa davanti cui erano posti i lavoratori italiani all’estero non era delle più semplici. Valga come esempio quanto osservato da Marco Bonato, emigrato in Germania, all’inizio del suo diario di guerra:
Nei primi giorni di guerra, sperando che l’Italia si schierasse al loro fianco, i tedeschi ci rispettavano e ci guardavano con simpatia, ma quando giunse l’ordine della nostra neutralità, il loro contegno cambiò totalmente ed eravamo guardati quasi in cagnesco e trattati con assai poca premura.
Intanto molti lavori erano stati sospesi e tuttavia i capi cercavano di persuaderci a rimanere, promettendoci lauti guadagni…
Rimanendo, avevamo davanti a noi dei guadagni da realizzare, un avvenire tranquillo e sicuro, senza disagi; partendo, vedevamo l’avvenire incerto, probabilmente irto di pericoli e di fatiche, e la perdita di ogni guadagno, eppure noi siamo ritornati in Patria .
Un importante prospetto conservato nell’Archivio Comunale Bassanese, della primavera del 1915, consente di dare un quadro quantitativo del fenomeno particolarmente interessante, perché suddiviso per singoli comuni. A fronte infatti di 146 rimpatriati per l’aerea metropolitana bassanese, dei quali comune 110 vengono indicati come privi di mezzi di sussistenza, ma che risultano “impiegati in lavori stradali e di costruzioni”, i dati della vallata del Brenta spiccano per l’evidente sproporzione. Campolongo sul Brenta, la cui popolazione non arriva ad un quinto di quella bassanese, registra infatti la cifra di 200 rimpatriati, tutti braccianti, 80 soltanto dei quali risultano impiegati, oltretutto in opere di taglio boschivo dalla durata limitata e non facilmente reiterabili, visto il limite oggettivo di tale forma di patrimonio. Cismon, che vede a sua volta il rientro di 200 emigranti, per la maggior parte muratori, ne registra 180 in cerca di occupazione, a fronte di un’amministrazione comunale che si dichiara non in grado di prendere un qualsiasi provvedimento all’altezza.
I numeri acquistano, però, una dimensione drammatica quando si prendono in considerazione i due comuni più popolosi della valle: Sam Nazario e Valstagna. Nel caso del primo comune il numero è addirittura di 1.500 rimpatriati, cioè in buona sostanza di più di un migliaio di famiglie che passano repentinamente dal poter contare su un reddito in arrivo, in genere di una certa consistenza, ad una situazione di vera e propria indigenza. A questi 1.500 rimpatriati corrisponde infatti una cifra identica di lavoratori in cerca di occupazione. I provvedimenti presi, in sostanza una maggiorazione dell’esistente coltivazione/lavorazione del tabacco, se corrispondevano alla natura dei richiedenti, indicati genericamente come “braccianti”, apparivano del tutto inadeguati. La superficie adibita alla coltivazione non era infatti suscettibile che di scarsi incrementi quantitativi e di pressoché nessuna miglioria qualitativa. Nel caso di Valstagna si indicano in 600 gli emigranti rientrati dall’estero ed in 300 quelli che appaiono privi di mezzi di sussistenza. Anche se coloro che vengono registrati come “in cerca di occupazione” sono “solo” 200, è chiaro che l’esistenza di un Comitato di soccorso non poteva arginare che momentaneamente il problema.
Se il fondo valle “piange”, non sono certo i sovrastanti comuni dell’Altopiano a sorridere . Sempre lo stesso documento indica per Gallio, dove già il settore conciario denunciava una lunga, inarrestabile crisi che il conflitto avrebbe fatto precipitare, il ritorno di 200 braccianti, impiegati in “piccoli lavori urgenti”. Ma nel caso di Conco gli interessati sono 700, per lo più braccianti e 500 dei quali privi di mezzi di sussistenza. La lavorazione del legno, se pur aggiornata dall’impiego dell’energia elettrica nelle nuove segherie e favorita dai nuovi collegamenti stradali, non era in grado di assorbire un numero rilevante di lavoratori. Ancora in 700 vengono indicati coloro che cercano lavoro, per il quale l’unica soluzione prospettata è la costruzione di una strada, cioè con buona probabilità il “vecchio” progetto di un collegamento sull’asse Bassano-Asiago, cullato peraltro fin dal lontano 1859 ed ancora ben lungi dal trovare una seria logica di realizzazione. Ad Enego e Foza i disoccupati risultano essere un migliaio, “muratori, minatori, sterratori o manovali”, per i quali si parla, anche qui in modo drammaticamente vago, di “progettati lavori stradali”. Risulta chiaro come i 20 milioni di lire stanziati dal governo Salandra per fronteggiare la crisi, costruendo appunto strade e ponti, erano decisamente pochi e rischiavano oltretutto di essere spesi malamente, in una serie di cantieri “tampone” piuttosto che in un piano organico di utilizzo. Anche da questo punto-visuale si intravvede come l’opzione per la guerra, là dove questa fosse stata sostenuta da un massiccio apporto finanziario dell’Intesa (comunque reiterabile e difficilmente ricusabile), apparisse anche finanziariamente più praticabile di un inusitato intervento statale nel campo dei lavori pubblici. Quest’ultimo avrebbe richiesto, come minimo, una profonda revisione dell’intera politica fiscale, con un forte inasprimento del prelievo sui redditi maggiori, che non poteva evidentemente essere chiesta alla destra liberal-conservatrice.
Un ultimo riscontro appare importante. Si tratta di quello relativo al comune di Lusiana, che vedremo sarà oggetto, di una delle “ribellioni” della primavera del 1915, che precedettero lo scoppio del conflitto, lasciando intravvedere appunto quella “guerra” (civile) prima della guerra tanto paventata dalle classi dirigenti. Anche a Lusiana il citato prospetto indica in 600 il numero di quanti erano rientrati dal lavoro all’estero, indicati genericamente come braccianti, ed addirittura in 800 quello di coloro che chiedevano alle autorità un qualsiasi forma di reddito. Qui, come a Cismon, Foza, Asiago (dove pure il numero dei “rientrati” ammontava a 400), le amministrazioni comunali non avevano saputo o potuto individuare alcuna azione concreta per fronteggiare il fenomeno. Le conseguenze non tarderanno a farsi sentire.
Nel pomeriggio del 16 marzo, nel pieno di una primavera che stava rapidamente esaurendo le scorte invernali, già non particolarmente abbondanti vista la cattiva annata del 1914, ed era ancora troppo lontana dai raccolti estivi, più di 2000 persone si radunavano davanti al municipio di Lusiana. Si trattava – stando al telegramma al Ministro degli Interni del sottotenente Molinari dei Regi Carabinieri – di “disoccupati” che chiedevano un “calmiere” sul prezzo dei cereali, in costante e preoccupante ascesa, e ovviamente del lavoro. La dimostrazione aveva perso molto presto il proprio carattere pacifico, se mai l’aveva avuto, ed i partecipanti cercano di entrare con la forza nell’edificio municipale, per chiedere le dimissioni del sindaco e dell’intero Consiglio, accusato di non occuparsi dei bisogni locali. Impediti a farlo dai carabinieri avevano dato il via ad una fitta sassaiola che, oltre a rompere le finestre del palazzo municipale, aveva leggermente contuso un paio di militi. Solo l’arrivo delle truppe regolari aveva contribuito a ristabilire l’ordine e ad avviare il consueto tentativo, da parte delle forze dell’ordine, di individuare i responsabili.
La lettera del Prefetto di Vicenza Ferrari del 29 marzo successivo, in risposta ad una richiesta del Ministero del 24 precedente, non si limitava a riportare i fatti, ma ne cercava una qualche spiegazione. Dopo aver analizzato le difficili condizioni economico-finanziarie del Comune di Lusiana, Ferrari notava come gli estesi boschi, che fino a quel momento erano stati quanto meno sufficienti ad affrontare la situazione, non erano invece in grado di sopperire alla nuova realtà creata dal rientro di tanti emigrati. Non era vero che l’amministrazione comunale fosse rimasta inerte. Essa aveva bensì cercato di attivare dei lavori straordinari, indebitandosi fortemente, ma ciò non era stato sufficiente a far fronte al crollo dell’industria dei cappelli di paglia, che teneva impegnati almeno donne e bambini in lavori a casa. Ecco come il prefetto sintetizza l’evolversi della situazione:
Successivamente non avendo ancora introitato le somme chieste a prestito alla Cassa Depositi e Prestiti, e trovando difficoltà ad averne da Istituti o da privati, ed avendo compiuto una parte dei lavori, non ne deliberò altri. La popolazione allora cominciò ad agitarsi chiedendo lavori o sussidi, e, tardando questi, fece la dimostrazione del 16 corrente.
Il Comune era intervenuto all’indomani del mancato assalto alla sua sede, accrescendo i sussidi ed iniziando dei lavori che impiegavano 500 operai. Si trattava – ne era ben consapevole Ferrari – di una situazione provvisoria, destinata a prolungarsi per non più di una cinquantina di giorni. Al termine di questi tutto lasciava supporre che l’agitazione si sarebbe ripetuta.
[…] perché l’agricoltura, stante il terreno montuoso, non può occupare che una minima parte dei lavoratori, l’industria e il commercio sono pochissimo sviluppati e manca quella classe di proprietari terrieri che con qualche sforzo e sacrificio potrebbe venire in aiuto ai Municipi.
Come del resto era accaduto, in misura e con gravità anche maggiore, nell’area friulana, dove non erano mancati segnali di sfiducia nei confronti dell’operato del governo da parte degli stessi deputati locali e nelle manifestazioni di Villa Santina (28 febbraio 1915) e Maniago (14 marzo successivo) la mobilitazione aveva toccato le diverse migliaia di manifestanti. Non a caso Carlo Vittorio Luzzatto, prefetto di Udine, rispondeva in questo modo alla nota richiesta di Salandra del 12 aprile 1915:
Certo, com’è noto […] questa regione suole ricavare dall’emigrazione i principali mezzi di sussistenza. Mancata quest’anno la principale risorsa, il disagio delle classi meno abbienti è assai grave. Ciò stante, nell’attesa degli avvenimenti decisivi, ad evitare un maggior malessere e nuove agitazioni che riuscirebbero dannose all’opinione della stessa nostra forza e preparazione militare, sarebbe indispensabile che fosse fato luogo a qualche nuova assegnazione di fondi da parte del Governo a sollievo dei disoccupati bisognosi .
Il peso ed il ruolo degli emigrati nel promuovere i tumulti è esplicitamente notato da Ferrari. Ma risulta confermato dal fatto che, nel caso di Lusiana, l’amministrazione comunale era stata eletta solo pochi mesi prima, scalzando la precedente giunta, che non era entrata in consiglio nemmeno nelle vesti di minoranza. Oltre all’innegabile misura del successo, la nuova amministrazione aveva potuto effettivamente contare su una simpatia ed una fiducia che lo stesso prefetto definisce “quasi generali” . Come si può allora spiegare questo repentino mutamento di umori, senza collegarlo proprio alla visione del ruolo che l’amministrazione comunale doveva svolgere in tempo di crisi “importata” sull’Altopiano da chi era rientrato dall’estero?
L’episodio di Lusiana non era d’altro canto un fatto isolato, o ascrivibile solo alla particolare situazione dell’Altopiano, accennata da Ferrari. Esso rappresentava piuttosto la conclusione di processi già innescati nella pedemontana. Ai primi di marzo qualche centinaio di donne si erano radunate, minacciose, a Bassano inducendo più di un negoziante a rinunciare agli aumenti sulle farine, che rasentavano il 60% per quella di grano ed il 35% per quella di mais. Quella che a Bassano si era risolta in una semplice minaccia, cui la municipalità stava in realtà già facendo fronte con l’impegno concreto della costruzione del nuovo ponte e con una serie di inviti, quanto meno pressanti, alla parte abbiente della popolazione di farsi carico dei problemi della disoccupazione, si concretizzò a Marostica quasi in una “rivolta sociale”. Il 13 ed il 14 marzo erano state circa 6.000 le persone che si erano radunate per dimostrare contro il “caro-pane”. La carestia e la fame – è stato osservato – erano paure ancestrali, capaci di muovere gli strati più poveri della popolazione anche quando le condizioni oggettive non erano tali da giustificarle. Lo spettro della fame era poi in grado di tradursi quasi spontaneamente nel rifiuto di ogni tipo di ingiustizia, vera o presunta, subita quotidianamente da chiunque non condivide la stessa condizione. La manifestazione, di cui facevano parte non pochi abitanti del sovrastante Altopiano (alcuni dei quali si troveranno tra i protagonisti dei fatti di Lusiana), aveva subito assunto toni molto duri. Ne aveva fatto le spese la vetrina del negozio di Menegotto ed il mugnaio Chiminello, che aveva probabilmente vissuto il quarto d’ora più brutto della sua vita, aggredito da una folla che lo accusava di ogni forma possibile di accaparramento e speculazione.
Alla fine la folla tumultuante non aveva trovato di meglio che fare oggetto dell’immancabile sassaiola un’intera compagnia di carabinieri, comandata per l’occasione da un ufficiale superiore, il maggiore. Balestrieri. È particolarmente indicativa della gravità della situazione il fatto che il detto ufficiale dell’Arma, non certo sospetto di simpatia nei confronti dei dimostranti, concludesse il suo rapporto sull’accaduto con l’esplicito riconoscimento delle “ragioni” che erano evidentemente alla base della protesta:
Acquistata persuasione che reale e positivo è lo stato d’indigenza delle popolazioni dei detti comuni dove venne a mancare in questo anno emigrazione temporanea estera che costituiva largo cespite danaro. A Ristabilire tranquillità animi potranno valere provvedimenti amministrativi, moderazione prezzi cereali, eventuali concessioni industriali paglia .
La causa viene qui individuata nella mancata emigrazione stagionale, che contribuiva a togliere una fonte di reddito difficilmente rimpiazzabile. In realtà una volta di più viene trascurata la valenza “politica” del contributo di chi dall’emigrazione, temporanea o permanente, era rientrato in quei mesi. Eppure è innegabile che la pur difficile annata del 1914 non aveva dato vita, almeno nell’area in esame, a nulla di paragonabile per numero di partecipanti e diffusione sul territorio.
È ancora il cattolico “Il Berico” a riferire in una succinta cronaca quanto accaduto, il 15 marzo, a Pove, col concorso, nel ruolo di protagonisti, una volta di più degli emigranti:
Ieri fra il gaudio di queste prime splendide giornate primaverili gli emigranti, soliti in quest’epoca a partire per l’estero ed ora invece costretti a restarsene in patria senza lavoro e colla fame che batte sempre più sinistra alle porte di casa, si riunirono in bel numero dinnanzi al Municipio [di Pove] per protestare contro la disoccupazione ed il caro viveri .
Proprio la sua connotazione politica consente al foglio cattolico di cogliere il carattere di novità di questo tipo di manifestazione. Infatti osserva come i manifestanti, impadronitisi della bandiera del comune, con un gesto quindi di chiara ispirazione rivoluzionaria, si erano messi a girare per le strade del paese, fino a portarsi davanti al laboratorio di Lorenzo Donazzan. Qui avevano costretto gli scalpellini al lavoro ad unirsi alla protesta. A nulla era valso l’intervento dello stesso Donazzan che protestava la necessità di non sospendere una delle poche attività che la situazione stava incentivando. I dimostranti pretesero la chiusura del laboratorio cui, quasi certamente per evitare guai peggiori, lo stesso proprietario aveva consentito.
La situazione si stava facendo sempre più difficile e rischiava di diventare esplosiva. Gli episodi dell’alto vicentino non erano infatti per niente isolati: il 18 marzo era stata la volta dei veneziani inscenare una serie di manifestazioni e a mettere sotto assedio il Municipio. Oltre le province venete, sommosse per la fame si erano avute a Roma, Napoli, Reggio Calabria, Palermo, Catania. In definitiva si stava assistendo ad una vera e propria crisi sociale di carattere spontaneo. Una crisi che spingeva la borghesia su un versante vieppiù interventista, visto quale sola appoggio alla politica di ordine del governo dato che gli stessi socialisti e le camere del lavoro faticavano a controllare le sommosse, che ricordavano i tragici fatti del 1898. Con l’aggravante che mentre i moti del ’98 erano scoppiati a maggio, a soli due mesi quindi dal nuovo raccolto, le sollevazioni del ’15 avvenivano all’inizio della primavera. Saranno proprio alcuni fogli socialisti ad azzardare una previsione che il governo non doveva mancare di prendere in seria considerazione: “[…] è facile intuire che alla minacciata guerra precederà la rivolta della fame in una forma ancor più violenta del 98” .
Come osservato all’inizio di questo contributo non è possibile documentare, in modo anche solo approssimativo, il contributo che a tale situazione offrì l’emigrazione di rientro. Trattandosi di un contributo “sotterraneo” o veicolato al più dal contatto diretto e dalle comunicazioni verbali, di esperienze vissute e di lotte combattute in altri contesti, esso si presta al massimo ad una individuazione indiziaria . Come del resto notava Oscar Wilde se due indizi non sono sufficienti a costituire una prova, tre cominciano già ad indicare una “cattiva abitudine”. E nell’ambito cronologico e geografico qui preso in esame gli indizi a favore di un nesso di causa-effetto tra rientro degli emigranti e crescita della consapevolezza conflittuale da parte delle classi subalterne, e della loro componente femminile in primis, sembrano essere qualcuno più di tre. Soprattutto se si tiene presente la forza coesiva che aveva caratterizzato lo sviluppo capitalistico imboccato dall’alto vicentino anche in rapporto alle classi popolari. Una capacità di coesione che si valeva del fenomeno migratorio sia per mascherare la propria debolezza ed ovviare alle proprie crisi, sia per scongiurare la nuova consapevolezza politica e rivendicativa delle classi subalterne, che pure era andata maturando nel corso dell’età giolittiana. Come era stato osservato da Silvio Lanaro e ripreso da Emilio Franzina nella sua analisi della figura di Alessandro Rossi, tale sviluppo si faceva forte, ma si condannava al contempo ai limiti, della componente nazionale, specie dopo l’adozione di un deciso protezionismo. In particolare, però, invocava una costante collaborazione delle classi subalterne, se queste ultime volevano beneficiare, sia pure nel lungo periodo, del benessere susseguente al diffondersi dell’industria. E prometteva a queste stesse classi che la comune adesione al messaggio cristiano avrebbe garantito loro la solidarietà padronale, altrimenti assente nelle fasi più avanzate dello sviluppo manifatturiero europeo. Il rientro massiccio, imprevisto ed in larga misura – proprio per le inadempienze statali sul piano dei finanziamenti pubblici – incontrollabile di tanti “lavoratori” esteri poteva rappresentare appunto il catalizzatore in grado di far precipitare la crisi di un equilibrio ottenuto con tanta cura.