La prima guerra mondiale costituì una drammatica cesura, quantitativa e qualitativa, per i movimenti migratori su scala mondiale. Mentre le migrazioni si riducevano, per contrasto il conflitto determinò sensibili movimenti di popolazione all’interno dei territori nazionali, in parte dovuti al coinvolgimento dei civili nella violenza bellica (profuganze, sgomberi forzati, occupazioni militari) e, più diffusamente, in ragione dei crescenti processi di mobilitazione economica e militare. In ogni nazione belligerante, le tensioni del mercato del lavoro, causate dai richiami alle armi e dallo sviluppo dell’economia di guerra, sollecitarono la ricerca di nuove soluzioni, tanto che il periodo bellico si contraddistinse come un laboratorio per sperimentare nuove relazioni di lavoro, forme di welfare e di gestione dei flussi migratori .
Il caso italiano, in virtù delle sue peculiarità, riveste un notevole interesse. La storiografia ha trascurato la dimensione migratoria durante il conflitto perché, sin dai primi anni ’80 del Novecento si è soffermata sulle trasformazioni dell’economia di guerra; le indagini, concentrandosi sulla composizione della “nuova classe operaia”, della conflittualità e della protesta, hanno colto solo i momenti terminali dei movimenti migratori campagna-città. Si cercherà quindi di delineare il quadro del mercato del lavoro italiano, una panoramica dei flussi migratori bellici Edi individuare persistenze ed elementi di novità, con particolare attenzione al ruolo dello stato.
1. DALLA CRISI ALLA “PIENA OCCUPAZIONE”
L’avvio della guerra in Europa determinò uno sconvolgimento dei flussi economici e finanziari su scala globale. Anche l’Italia, che dall’agosto del 1914 aveva scelto la neutralità, fu coinvolta dalla crisi, con il massiccio rientro di circa mezzo milione di emigranti e dal rallentamento della produzione industriale dovuto al rialzo dei prezzi delle materie prime . In questo frangente la disoccupazione divenne un fenomeno di massa: senza computare gli emigranti rientrati, nell’agosto del 1914 l’Ufficio del Lavoro stimava infatti oltre 660 mila i disoccupati dovuti alla crisi economica in corso; nell’inverno 1914-15 i senza lavoro salivano a circa un milione di unità, in diverse zone del Veneto, della Lombardia dell’Emilia Romagna, della Sardegna, le proteste operaie all’insegna del “pane e lavoro” si fecero acute, intrecciandosi con il lacerante dibattito sull’intervento . Il timore di possibili disordini fece sì che il governo italiano permettesse, nonostante le restrizioni agli espatri per i soggetti interessati dalla leva, un movimento di riemigrazione verso Svizzera e Francia . La lotta contro la disoccupazione fu delegata dal governo alle singole autorità comunali e provinciali, mentre lo stato intervenne solamente nel momento in cui le agitazioni potevano compromettere l’ordine pubblico e turbare la mobilitazione occulta dell’esercito nelle zone nord-orientali del paese.
L’arresto delle migrazioni e la ristrutturazione economica che seguì l’entrata in guerra dell’Italia acuì il fenomeno della disoccupazione per tutta l’estate del 1915, soprattutto nelle regioni centro-settentrionali; la sospensione dei lavori pubblici e il mutamento della domanda misero in ginocchio il settore edile (cave, edilizia, laterizi, calci e cementi), l’industria della lavorazione del legno e della pietra, mentre diversi settori artigianali (poligrafici, industria dei cappelli, oreficeria, vetreria, concerie) furono colpiti dalla contrazione della domanda, dalla mancanza di materie prime e dai crescenti costi di produzione; la stessa industria tessile rallentò . Non meno critica si presentava la situazione nelle campagne centro-meridionali: le regioni adriatiche vennero colpite dai divieti di pesca e dalla paralisi dell’attività portuali, nelle regioni meridionali la siccità e le arvicole avevano danneggiato i raccolti mentre nelle zone bracciantili dell’area padana si registrava il ciclico aumento della disoccupazione, aggravata dalla sospensione dei consueti lavori invernali di miglioria.
I progressivi richiami alle armi, il rapido sviluppo della produzione bellica e i lavori militari al fronte costituirono un’importante stimolo per la ripresa della domanda di forza lavoro e sollecitarono una nuova mobilità. In breve tempo i grandi centri del “Triangolo industriale” – Torino, Genova, Milano – e l’indotto furono in grado di riassorbire la disoccupazione urbana e di attrarre crescenti nuclei di lavoratori provenienti dalle campagne limitrofe . Si venne così a formare la cosiddetta “nuova classe operaia”, composta da manodopera maschile, femminile e giovanile dequalificata, proveniente dalle campagne o da piccole officine artigianali, inesperta e poco abituata al lavoro industriale . Per tutto il primo anno di guerra la mobilità intersettoriale fu piuttosto elevata; stando ai dati offerti dagli uffici di collocamento, la domanda di forza lavoro, che nel 1914 era pari al 44% dell’offerta, salì all’84% nel 1915 sino 97% nel primo semestre del 1916 . In questo frangente un crescente numero di soggetti, in città come in campagna, cambiò impiego, scegliendo tra le diverse opportunità che l’economia bellica offriva . Stando ad alcuni resoconti, nella Torino del 1916 si raggiunse una situazione di “piena occupazione”, tanto che tecnici ed operai specializzati erano fortemente ricercati e si rastrellarono le campagne alla ricerca di nuove maestranze .
Nel corso della fase centrale del conflitto il mercato del lavoro cominciò ad irrigidirsi a causa della progressiva chiamata alle armi dei maschi in età di lavoro, dei reclutamenti nelle “industrie ausiliarie” e nei cantieri del fronte che, applicando alle maestranze meccanismi di militarizzazione, tendevano a rallentarne la mobilità; non a caso, a partire dall’agosto del 1916, si cercò di ampliare la presenza femminile nelle fabbriche belliche, manodopera aggiuntiva in grado di assecondare il concomitante aumento di scala del settore industriale. Gli alti salari praticati nei cantieri militari della “zona di guerra”, invece, incisero sul mercato del lavoro delle aree rurali che non insistevano su zone interessate dallo sviluppo industriale; già a partire dalla primavera-estate del 1916 in diverse regioni d’Italia, dalle aree veneto-friulane alle zone a mezzadria, nelle aree bracciantili del sud e della pianura padana, si moltiplicavano le preoccupazioni di autorità e proprietari terrieri che paventavano lo “svuotamento delle campagne” e la flessione della produzione agricola .
La disponibilità di manodopera si ridusse a partire dalla fine del 1916 e più diffusamente, nel corso dell’anno successivo, quando la mobilitazione dell’esercito raggiunse il suo picco (3.5 milioni di soldati) e gran parte della forza lavoro maschile era già allocata . La crisi fu talmente acuta che si progettò il rimpatrio di almeno 10.000 lavoratori disoccupati dall’estero, in particolare dall’Argentina, un progetto destinato a fallire per la mancanza di navigli e gli alti costi dell’operazione . Nell’ultima fase del conflitto si registrò infine una sensibile difficoltà sia nel reperire operai qualificati, sia nel trovare manodopera generica nelle campagne.
2. MOBILITARE I LAVORATORI
Con l’avvio della guerra l’azione dello stato si fece più intensa; per evitare l’emorragia di forza lavoro e di potenziali soldati, come si è visto, il Commissariato dell’Emigrazione subordinò gli espatri dei lavoratori alla concessione di un nulla-osta. Nel corso dell’estate del 1915 e la primavera successiva si delineò la mobilitazione bellica, mediante la creazione dell’Istituto della Mobilitazione industriale (giugno del 1915) e del Segretariato Generale per gli Affari Civili, un organismo dipendente dal Comando Supremo che, a partire dal 1916, cominciò a coordinare il reclutamento dei lavoratori civili militarizzati (i cosiddetti “operai borghesi”) verso i lavori logistici e difensivi al fronte. A livello centrale furono attivi anche il Commissariato Generale dell’Emigrazione, l’Ufficio del Lavoro e la Commissione prigionieri di guerra che in diversa misura e immancabili conflitti di competenze, ebbero analoghe prerogative di mobilitazione . Tra il 1915 e il 1916, quando si delineò una guerra di logoramento e di materiali, l’intervento dello stato nella regolazione del mercato del lavoro si fece più incisivo. Gradualmente, la Mobilitazione Industriale e lo stesso Segretariato Generale, sperimentarono una inedita standardizzazione dei rapporti di lavoro, cercando di vincolare le maestranze agli stabilimenti al centro-nord ed agevolare gli spostamenti di manodopera dalle regioni centro-meridionali che non potevano far altro che mettere a disposizione le proprie braccia .
Di fronte alla crescente rarefazione della manodopera maschile, si cercò di reclutare forza lavoro marginale o sotto-occupata. In questa direzione nel corso del 1916-1917 i due organismi sopra-citati cercarono di ampliare la presenza femminile nelle industrie e nelle retrovie del fronte mediante specifici provvedimenti quali la sospensione del divieto del lavoro notturno nel settore industriale, la possibilità di migrazioni autonome verso cantieri militari del fronte dei ragazzi sedicenni (dicembre 1916) e l’impiego nelle retrovie di donne e ragazze tra i 15 e i 50 anni (gennaio 1917). Alla fine del 1916 i due enti attuarono anche una comune politica di contenimento salariale al fine di frenare la mobilità operaia, stabilizzare ed ampliare la forza lavoro (dicembre 1916-marzo 1917).
Il dispiegamento di queste politiche era tuttavia destinato a scontrarsi con un limitato intervento nel collocamento; sin dal 1915, infatti, l’azione in questo campo si rivelò assai debole; per favorire l’afflusso delle maestranze verso i centri industriali l’Ufficio del lavoro promosse la creazione di assessorati o uffici del lavoro cittadini o uffici di collocamento municipali, la cui efficacia si rivelò maggiore soprattutto in ambito urbano dove al collocamento pubblico si univano i servizi dai comitati di assistenza civile, rivolti soprattutto alla manodopera femminile dapprima indirizzata alla confezione del vestiario militare e in seguito, in maniera crescente, verso le “industrie ausiliarie” (1915: 14.000; 1916: 89.000; 1917: 175.000; 1918: 198.000, 22%) .
Anche quando lo stato, nel corso del 1916, assunse un crescente ruolo di mobilitazione della forza lavoro, il reclutamento fu difficoltoso, perché, a differenza degli altri stati belligeranti, lo stato non si dotò di un controllo governativo sugli uffici di collocamento; in questa prospettiva l’Italia si trovò tagliata in due: mentre nelle regioni centro-settentrionali erano attivi Uffici di collocamento provinciali e comunali, patronati, segretariati dell’emigrazione laici e cattolici, al sud le autorità governative poterono fare affidamento solamente su prefetture e comuni oppure su una rete di agenti privati, caporali o intermediari. Non stupisce dunque che nelle migrazioni interne verso le aree industriali, nella maggior parte dei casi, il collocamento avvenisse attraverso canali informali, per mezzo della mediazione privata, attraverso catene di richiamo professionali, comunitarie o parentali . Nel corso del 1916 l’intervento statale si limitò al finanziamento a titolo di “rimborso spese” o di premio gli enti attivi nel collocamento operaio (aprile 1916) e, per preservare i delicati equilibri del settore agricolo divenuto strategico per la tenuta del fronte interno, all’istituzione delle Commissioni provinciali di agricoltura, volte a censire la manodopera agricola, agevolare gli spostamenti, intensificare l’impiego della forza lavoro femminile (maggio 1916). Tra il 1916 e il 1917 i socialisti, mediante la Società Umanitaria e la stessa Federterra cercarono di razionalizzare il collocamento e tutelare i lavoratori agricoli mediante la creazione dell’Ufficio Nazionale di collocamento che coordinava l’azione dei diversi uffici di emigrazione locali, mentre le iniziative dell’Opera Bonomelli, di orientamento cattolico, poste alle dipendenze delle autorità governative e militari, svolsero la funzione di centri di smistamento locali della manodopera agricola e industriale, giovandosi della rete delle parrocchie e dei segretariati di emigrazione affiliati . Nell’ultimo anno di guerra il progressivo drenaggio della forza lavoro agricola per l’economia bellica sollecitò i grandi proprietari agrari dell’area padana ad istituire una sorta “mobilitazione agraria” (febbraio 1918) per distribuire efficacemente la manodopera e massimizzare la produzione, un progetto che tuttavia ebbe una limitata applicazione anche per l’opposizione dei sindacati agricoli .
3. NUOVI LAVORI, NUOVI LUOGHI
Lo sviluppo dell’economia bellica si inserì in un contesto già segnato da sensibili squilibri regionali, ed ebbe l’effetto di approfondire il dualismo economico tra le regioni centro-settentrionali e quelle meridionali. Le geografie del lavoro furono sovvertite dal fatto che “industrie ausiliarie” inserite nel quadro della Mobilitazione Industriale erano collocate nelle regioni centro settentrionali (70%), così come i lavori difensivi ebbero una collocazione periferica rispetto alla penisola stessa. Per ritrovare un nuovo equilibrio economico dopo la crisi del 1914-15 fu quindi necessario, non solo mutare occupazione, ma anche essere protagonisti di una mobilità territoriale di medio o lungo raggio. La dislocazione professionale e geografica dei lavoratori dipese quindi fortemente dalla presenza o meno di fattor attrattivi, quali centri industriali in espansione e da concomitanti elementi espulsivi (crisi agraria, disoccupazione, stallo delle attività portuali e marittime).
Lo sviluppo della grande industria nei centri di Milano, Torino, Genova, Sestri Ponente, Livorno, Firenze, Piombino, Terni, Brescia, per citare i principali, innescò rilevanti migrazioni di breve e medio raggio, temporanee o strutturali, animate da manodopera proveniente dalle campagne che si inseriva nella grande fabbrica, oppure nell’indotto costituito da laboratori e piccole officine; basti pensare ad esempio al potere attrattivo esercitato da alcune grandi “fabbriche ausiliarie” strategiche per la produzione bellica: l’Ansaldo di Genova, che produceva anche artiglierie e proiettili, nel corso del conflitto vide salire la propria manodopera da 10.000 a 40.000 unità, analoga situazione si verificò negli impianti destinati alla produzione bellica di Terni dove gli addetti passarono a da 2.000 a 7.000 addetti, in larga parte provenienti dalle zone contermini.
I ritmi di inurbamento di città come Milano e Torino furono rilevanti, si ingrossarono le periferie, si affermò un crescente pendolarismo tra ambiti urbani e rurali. Il caso di Torino, è esemplare: trainata dallo sviluppo dell’industria bellica metalmeccanica ed automobilistica (la sola Fiat aumentò i suoi addetti da 3.500 a 40.000), tra il 1914 e il 1918 la popolazione cittadina passò da 456.000 a 525.000 abitanti, molti dei quali di nuova immigrazione, uomini, donne, ragazzi, in gran parte giunti dal contado o dalle altre province piemontesi, oppure ancora dalla Toscana e, dopo la rotta di Caporetto, dal Veneto . Milano, altro centro variamente interessato dalla produzione bellica, aumentò i suoi abitanti da 600.000 a 718.000, con migrazioni provenienti soprattutto dalle campagne lombarde.
La stessa Toscana, con i suoi centri industriali e minerari, costituì un vero e proprio polo di attrazione per i lavoratori provenienti dalle regioni appenniniche centrali e perfino meridionali. Altresì la guerra sollecitò lo sviluppo produzioni di carattere industriale e semi-artigianale anche in zone prive di precedenti tradizioni produttive . Il settore tessile, nel comasco, nel biellese, nel vicentino, nel milanese, alimentato dalle commesse militari, continuò ad attrarre manodopera femminile proveniente dalle province venete e lombarde. A migrare erano soprattutto gruppi di lavoratori affini, legati da relazioni amicali e parentali, uomini e “donne sole”, mentre l’apporto delle migrazioni di carattere familiare fu più limitato; alcuni gruppi di operai provenienti dal meridione si stanziarono nei centri industriali alla periferia di Milano come accadde per il caso di Sesto San Giovanni , mentre l’afflusso più consistente di famiglie nel settore industriale o in altri ambiti marginali dell’economia di guerra si verificò con l’arrivo dei profughi veneto-friulani dopo la rotta di Caporetto. È interessante notare come nel corso del conflitto, comunque, non agirono solamente meccanismi migratori determinati da fenomeni di attrazione ed espulsione, ma anche altri parametri; il caso delle migrazioni rurali femminili verso gli stabilimenti industriali di Milano, ad esempio, era originato non tanto dalla povertà e dai differenziali salariali quanto da strategie familiari volte ad ampliare le fonti di reddito e dalla volontà di evitare il servizio domestico ed altre precarie attività quali lavandaie, stiratrici, cucitrici .
Le migrazioni altresì, mutarono la fisionomia e l’identità sociale di alcuni centri; Aosta, ad esempio, piccolo capoluogo a vocazione agricola e commerciale, dopo la costruzione degli stabili-menti di Cogne nel 1917 da parte della società Ansaldo, diventò un centro di impronta industriale di oltre 10.000 persone mediante l’immigrazione di migliaia di lavoratori piemontesi e lombardi ; analoga espansione conobbe la città di Taranto che, con lo sviluppo della cantieristica e dell’attività portuale militare, conobbe intensi flussi migratori (+18.000 tra il 1915-1918) . Nel quadro della mobilità bellica è necessario inoltre registrare anche le intense migrazioni, difficilmente quantificabili, verso i piccoli e grandi centri delle retrovie del fronte – Bassano, Belluno, Treviso, Vicenza, Cividale, Cervignano, San Giorgio di Nogaro, Udine – mete di agenti commerciali, grossisti, piccoli rivenditori, negozianti, artigiani che vendevano partite di materiali, rifornivano le mense militari oppure aprivano spacci per i soldati. Risulta esemplare il caso di Udine, la “capitale della guerra” che, interessata da migrazioni che provenivano dal vicino Veneto, Emilia, ma anche dalla Lombardia, Piemonte e dalle più lontane Campania e Puglia, tra il 1915 e il 1917 passò da 47.000 a 67.000 abitanti .
In misura diversa ma analoga a quanto stava avvenendo nelle trincee, le fabbriche, le città, i cantieri militari nelle retrovie divennero una sorta di “babele”, tutt’altro che idilliaca, in cui si verificarono problemi di integrazione, scontri tra culture diverse, tra lavoratori e comunità ospitanti. La gioventù operaia immigrata, svicolata dai controlli parentali, fu oggetto di una diffusa campagna denigratoria da parte delle classi medie e delle stesse autorità ecclesiastiche; altresì i lavoratori che provenivano dall’Emilia e dalla Toscana, connotati come “anticlericali e bestemmiatori”, turbarono la sensibilità delle comunità venete; la stessa esperienza al fronte degli operai meridionali si caratterizzò per isolamento sociale e marginalizzazione a causa della distanza culturale e linguistica . In alcuni casi la presenza dei lavoratori forestieri fu “subita” come una sorta di “occupazione” e, in un contesto già segnato dalla guerra, furti e vandalismi inasprirono i rapporti con le popolazioni locali. D’altro canto le migrazioni ebbero l’effetto di rafforzare le solidarietà regionali e comunitarie . Non a caso, proprio per lenire le contraddizioni derivanti dal rimescolamento sociale nelle retrovie del fronte e scongiurare il proselitismo socialista, il vescovo di Vincenza, Ferdinando Rodolfi, con l’ausilio dell’Opera Bonomelli, a partire dall’agosto del 1916 avviò l’esperimento delle “case dell’operaio” che aveva lo scopo di offrire ai lavoratori momenti di svago, assistenza morale e materiale . Le relazioni tra immigrati e locali sembrarono inasprirsi nell’ultimo scorcio del conflitto quando, in un contesto di forzata resistenza e di crescenti privazioni, la presenza dei “forestieri” contribuì ad acuire le tensioni annonarie, diffidenze e reazioni ostili, come avvenne ad esempio nei già citati casi di Aosta o di Udine, oppure nel caso dell’inserimento nel mercato del lavoro dei profughi veneto-friulani nel corso del 1918 .
4. UNA MIGRAZIONE DI STATO. GLI “OPERAI BORGHESI” AL FRONTE
Mentre nel caso della Mobilitazione industriale gli organismi statali si limitarono ad agevolare il disciplinamento delle maestranze e coordinare la produzione bellica, la “costruzione del fronte”, ovvero la vasta scala di lavori difensivi, logistici che la “territorializzazione del conflitto” imponeva in zone montane, isolate ed ostili , fu gestita direttamente dallo stato per mezzo dell’amministrazione militare; a partire dal giugno del 1915, quando Cadorna dispose la costruzione di una linea arretrata alle spalle del fronte dell’ Isonzo (sistema trincerato “Versa-Torre-Isonzo”) e tutte le infrastrutture logistiche per l’esercito operante, si cercò quindi di organizzare il recluta-mento e il trasferimento di centinaia di migliaia di lavoratori verso la “zona di guerra”. Anche in questo caso – complici l’iniziale impreparazione e gli indirizzi liberisti–nella prima fase di guerra l’Intendenza generale dell’esercito sollecitò il reclutamento di forza lavoro mediante imprese private, agenti e procacciatori di manodopera .
Le necessità di una gestione centralizzata emerse nel corso dell’estate-autunno del 1915, quando l’afflusso disordinato di lavoratori dalle regioni meridionali determinò notevoli problemi di accantonamento, approvvigionamento e disciplina. Le speculazioni e l’alto costo degli appalti, ben presto fuori controllo, consigliarono una gestione diretta delle maestranze, evitando intermediazioni ed ostacoli. A cavallo dell’inverno 1915-1916 le imprese private che lavoravano in appalto tra fronte e retrovie furono estromesse e le operazioni di reclutamento e di trasporto degli operai verso la “zona di guerra” furono affidate al già citato Segretariato Generale. La predisposizione contratto-base, a valenza collettiva, e delle norme di reclutamento che ponevano il Segretariato Generale come collettore delle richieste militari e coordinatore delle offerte di lavoro provenienti dalle singole prefetture, costituirono i punti di partenza per l’organizzazione dell’emigrazione verso il fronte. A livello locale i municipi agevolavano la ricerca di lavoratori mentre le prefetture– con compiti di polizia – selezionavano gli operai e garantivano la scorta delle squadre fino alla “zona di guerra”. Nelle immediate retrovie del fronte invece ai comandi venne lasciata la facoltà di reclutare la manodopera locale veneta e friulana. Muniti di passaporto per l’interno e certificato di buona condotta, potevano essere impiegati al fronte operai di età compresi tra i 17 e i 60 anni e – in misura di uno ogni dieci e accompagnati da parenti – ragazzi tra i 15 e i 17 anni. I lavoratori erano inquadrati in squadre di 30-50 elementi, dirette da un caposquadra. Per attrarre la manodopera vennero predisposti alti livelli salariali, agevolazioni, alloggiamento, vitto e assistenza sanitaria a carico dell’amministrazione militare. Nei cantieri i lavoratori, aggregati ai reparti del genio militare, erano tenuti a lavorare da 6 a 12 ore – diurne o notturne secondo le disposizioni dei comandi – tutti i giorni della settimana, senza pause e obbligati a rimanere nei cantieri per due mesi. Il controllo disciplinare era garantito dalla militarizzazione degli operai, dal divieto di sciopero, dalla facoltà di requisizione della manodopera da parte dell’autorità militare. Di fatto, le necessità militari e l’arbitrio dei comandi spesso annullarono le norme e le tutele inizialmente predisposte .
5. VERSO NORD
Sanata la massiccia disoccupazione presente nelle regioni nord-orientali a forte intensità migratoria, dove le maestranze convertirono ai fini bellici consolidate competenze professionali ma-turate all’estero, a partire dall’estate-autunno del 1915 fu necessario estendere il reclutamento a livello nazionale, attingendo soprattutto nelle sacche di edili e di braccianti disoccupati presenti nelle regioni centro-meridionali. Nonostante la difficoltà del compito, nella fase centrale del conflitto l’azione del Segretariato ebbe modo di dispiegarsi compiutamente tanto che riuscì a reclutare circa 650.000 lavoratori, una buona metà dei quali proveniva dalle regioni centromeridionali. L’efficacia del servizio si desume anche dai dati dei reclutamenti: nel 1916 furono ingaggiati 338.281 operai (mediamente 28.180 al mese), nel 1917 altri 207.837 (media 17.319), nel 1918 solo 54.952 (media 4.495) a causa del disastro di Caporetto e della concomitante crisi di manodopera.
A partire dal 1917 si verificò un deciso processo di “meridionalizzazione” delle maestranze presenti al fronte; tra il 1916 e 1917 furono più di 210.000 gli operai provenienti dalle regioni meridionali, in questo biennio la quota percentuale di questi lavoratori passò da 38 al 42% sul totale dei reclutamenti, con un significativo incremento dei braccianti provenivano dalla Puglia, Sicilia, Calabria e dei disoccupati delle regioni costiere adriatiche quali Marche (23.000, nel 1916-17), Abruzzo (51.000) e Molise. In questo quadro spicca il caso pugliese: da questa sola regione nel corso del 1916-1917 partirono circa 122.000 lavoratori, in larga parte provenienti dalle province di Bari, Foggia e Lecce; si trattava di braccianti colpiti dalla disoccupazione dovuta alla siccità e alla distruzione dei raccolti da parte delle arvicole, ma anche piccoli artigiani, commercianti, edili e pescatori.
Il rastrellamento della manodopera fu organizzato con un notevole dispendio di risorse; per favorire i reclutamenti dalle regioni più lontane l’amministrazione militare concesse agli operai il viaggio gratuito e istituì un servizio di tradotte che dalla Calabria e dalla Puglia risaliva la penisola e, attraverso una serie di punti di sosta e di smistamento, giungeva fino alla “zona di guerra” dove da Vicenza, da Udine, da Cividale e Cervignano le squadre dei lavoratori venivano poi destinate ai cantieri militari. La disordinata “corsa” verso il fronte dei braccianti, artigiani, sterratori meridionali, attratti dagli alti salari nei cantieri militari, ben presto determinò crescenti problemi dal momento che i disagi, la pericolosità del lavoro determinarono fughe ed abbandoni; il ritmo degli avvicendamenti fu altissimo, durante il 1916 circa 15.000 operai al mese lasciavano i cantieri, era necessario garantire giornalmente il reintegro di circa mezzo migliaio di operai . Si tentò quindi di arginare il dispendioso turn-over migliorando le condizioni materiali (baraccamenti, attrezzi, vestiario coperte a prezzi ridotti) e, dall’agosto del 1916, prolungando a tre mesi il periodo della ferma contrattuale.
Sollecitati dal vertiginoso aumento dei lavori preparatori delle grandi offensive (Kuk-Vodice, Ortigara, Bainsizza), nel 1917 i reclutamenti verso il fronte vennero intensificati ma si scontrarono con un drastico calo della manodopera disponibile nel paese. Lo sfondamento di Caporetto, che determinò una fuga di massa dai cantieri, sancì un definitivo crollo dei reclutamenti: come sottolineavano i prefetti delle regioni centro-meridionali, i lavoratori, traumatizzati dalla violenza bellica e dalle vicissitudini della ritirata, non volevano più rientrare nella “zona di guerra” , tanto che nel maggio del 1918 i comandi considerarono virtualmente esaurita tale forza lavoro e, per costruire le nuove linee arretrate alle spalle del Piave, puntarono sul rastrellamento della manodopera veneta locale, spesso donne, ragazzi e profughi.
6. LA GUERRA DEGLI EMIGRANTI
L’impiego di gran parte degli operai che arrivavano nella “zona di guerra” dall’interno del paese si contraddistinse per un forte controllo disciplinare e per la temporaneità dell’occupazione. Diversa fu l’esperienza degli operai locali veneti e friulani; in questo caso dopo la crisi del 1914-15 lo sviluppo dei lavori militari si configurò come una vera e propria opportunità lavorativa, perseguita con costanza e tenacia. Sin dall’estate del 1915, in queste zone si registrò una vera e propria leva di massa; è necessario evidenziare la peculiarità del caso della provincia di Udine – divenuta zona di retrovia e di operazioni – dove tra il giugno e il novembre del 1915 circa 70.000 ex-emigranti, in particolare fornaciai, edili, boscaioli, sterratori, riuscirono a trovare lavoro nei cantieri militari, sanando così la disoccupazione maschile . Analoghe considerazioni possono essere fatte per le altre province venete di Padova, Vicenza e Treviso, Rovigo interessate da rimpatri dall’estero . In virtù di maggiori competenze professionali, almeno nei primi due anni di guerra, gli operai locali si distinsero per una intensa mobilità all’interno della “zona di guerra”, ricercando continuamente opportunità salariali favorevoli e migliori condizioni di lavoro, collocandosi autonomamente presso le direzioni militari. Le competenze migratorie e la fitta rete di relazioni personali e professionali – come nel caso degli assistenti ed imprenditori edili della zona carnica o dei capi-fornace della zona collinare friulana – furono utilizzate dai comandi militari del genio per i reclutamenti della forza lavoro locale; analogo ruolo ebbero le imprese edili, che costituirono una prima importante mediazione tra lavoratori e i “cantieri di guerra”. Sul versante, operaio, altresì, l’esperienza migratoria risultò preziosa: la costante attenzione alle possibilità di occupazione, alle condizioni di lavoro, ai margini di guadagno, al vitto, ai luoghi e alle distanze furono fattori importanti nella determinazione delle scelte di impiego. Riflesso di questa prassi fu l’alterno impiego alle dipendenze delle imprese private e del genio militare, accompagnato da frequenti spostamenti all’interno delle retrovie. Il caso del muratore Francesco Forgiarini di Gemona, “operaio borghese”, ben esemplifica questa intensa mobilità bellica: reclutato dall’impresa “Rizzani” di Udine, una delle principali imprese appaltatrici dei lavori militari nella prima fase del conflitto, dall’agosto del 1915 fino all’aprile del 1916 prestò la propria opera nei cantieri di Versa e di Ronacada (III armata, 0.55 orarie); dalla metà di aprile alla fine di maggio 1916 lavorò a Medana e poi – in seguito alla Strafexpedition, così come avvenne per altri 50.000 operai al lavoro sul fronte dell’Isonzo – venne spostato sul Pasubio, dove lavorò sino al 22 dicembre 1916 (0.55 lire). Il 28 dicembre del 1916 Forgiarini era di nuovo nella zona dell’Alto Isonzo, presso Tribil (II Armata) dove rimase sino all’aprile del 1917 (0.60 lire) per poi impiegarsi a pochi passi da casa, nella zona pedemontana friulana, presso l’Ufficio tecnico del genio Militare di Artegna dal maggio all’ottobre del 1917 (0.60 lire), quando venne catturato dalle truppe austro-tedesche . Almeno sino al 1917, anno in cui il Segretariato Generale operò un drastico livellamento salariale per meglio distribuire la manodopera tra le diverse zone del fronte, i lavoratori si muovevano, con diversi gradi di libertà, nella “zona di guerra” sulla base di indicazioni di chi era già al lavoro, telegrammi, lettere, biglietti di raccomandazione nei quali erano indicate le notizie sulle condizioni di lavoro e i livelli salariali, dimostrando così prassi tipiche del mondo migratorio.
Analoghi tratti di mobilità possono essere rintracciati tra i giovani lavoratori – circa 50-60.000 – che si diressero al fronte spinti dalle necessità e dal desiderio di contribuire ad integrare i redditi familiari. A partire dal giugno del 1915 fu infatti concesso ai minori di 15 anni appartenenti alle famiglie dei richiamati di potersi impiegare ; alla fine del 1916 il Segretariato Generale diede inoltre l’assenso all’ammissione al lavoro dei sedicenni nelle squadre degli “operai borghesi” senza la necessaria presenza di una figura parentale; in questo modo la mobilità giovanile risultò accresciuta e il rapporto con gli adulti, inizialmente molto stretto, si allentò, al punto che nel corso del 1917, in concomitanza con la crisi di manodopera, gli spostamenti dei giovani si configurarono spesso come un movimento autonomo di medio e lungo raggio. In questo contesto, forti dell’esperienza precedentemente accumulata nel settore edile o nelle fornaci negli Imperi centrali, i giovani lavoratori veneti e friulani si resero protagonisti di sensibili spostamenti verso i cantieri militari dell’Altipiano di Asiago, del Cadore, della Carnia o del pericoloso fronte dell’Isonzo . Nel complesso, dunque, non senza contraddizioni e spesso con processi faticosi, si registrò un vero e proprio riadattamento al nuovo contesto bellico, agevolato da mentalità, competenze ed atteggiamenti migratori ormai consolidati oppure in via di acquisizione.
7. L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL LAVORO: LIBICI IN ITALIA, ITALIANI IN FRANCIA
Il controllo dello stato sulle migrazioni si rivelò rilevante nel caso di movimenti di forza lavoro destinati alle fabbriche di armamenti e i lavori militari nelle retrovie del fronte. Tutte le nazioni belligeranti fecero impiego di “riserve” di manodopera attinte mediante migrazioni organizzate o metodi coercitivi . Il caso dei grandi imperi coloniali è eclatante, la Gran Bretagna, ad esempio, utilizzò nei teatri di combattimento europei e mediorientali circa 300.000 lavoratori militarizzati provenienti dalle colonie, impiegati in lavori di trasporto, scavo di trincee, costruzione di infrastrutture . Sin dal 1915 anche la Francia si giovò della forza lavoro delle sue colonie – dapprima in forma volontaria, poi per mezzo della coazione – e di lavoratori stranieri che vennero impiegati principalmente nell’industria di guerra, nei porti, nel settore agricolo; dal gennaio del 1916 il governo francese predispose un apposito servizio di gestione della manodopera coloniale (Service de l’organisation du Travail colonial) che provvedeva ai trasporti, l’alloggiamento e alla militarizzazione della manodopera straniera . Parallelamente vennero stretti accordi intergovernativi con Spagna, Italia, Portogallo e Grecia; in questo modo lo stato transalpino nel corso del conflitto reclutò complessivamente circa 662.000 lavoratori tra stranieri o provenienti dalle colonie.
Il governo italiano non si sottrasse a queste dinamiche; nel corso del 1917, la carenza di manodopera sollecitò le grandi industrie belliche, tra cui l’Ansaldo, a richiedere al governo il reclutamento di “manovalanza coloniale”; scartata la possibilità di far giungere lavoratori dall’Eritrea in quanto la colonia era troppo distante, si preferì attingere forza lavoro dalla più vicina colonia libica. A partire dal settembre del 1917 giunsero a Genova-Sampierdarena, poi a Milano e Torino i primi nuclei di lavoratori libici; complessivamente tra il 1917 e il 1918, per mezzo dei Ministeri delle Colonie e delle Armi e munizioni furono ingaggiati 5.480 lavoratori, in gran parte impiegati nelle fabbriche del triangolo industriale (Fiat, Alfa, Ansaldo, Falck, Pirelli Bicocca, Breda), ma anche in altri settori in diverse regioni italiane, dal Piemonte alla Calabria . Unitamente alla possibilità di un salario e di favorevoli condizioni di lavoro, i lavoratori libici intrapresero questa migrazione spinti dalle drammatiche condizioni che stava attraversando Libia dopo la guerra italo-turca e le ripetute sollevazioni anti-italiane. Il modello adottato fu quello della migrazione militarizzata, con costanti controlli sui lavoratori, segregazione dentro e fuori dalle fabbriche. Non diversamente dalla manodopera coloniale cinese o nordafricana in Francia, le condizioni di lavoro si rivelarono gravose, caratterizzate da bassi livelli salariali, alloggiamenti precari (tende, baracche), punizioni corporali, isolamento sociale dovuto alle barriere linguistiche e al razzismo, tanto che nel corso del 1917 a più riprese i lavoratori furono protagonisti di dimostrazioni e scioperi .
Le migrazioni organizzate dallo stato furono riproposte anche nel quadro della cooperazione interalleata dell’Intesa, in particolare con la Francia. Giovandosi della precedente convenzione italo-francese del 1904 la cooperazione tra i due stati si rafforzò durante il conflitto, mediante l’agevolazione dei trasferimenti di lavoratori italiani in Francia. Le prime migrazioni– circa 2.500 contadini – avvennero sotto l’egida dell’“Office national de main-d’oeuvre agricole”; in realtà, per questi lavoratori il poco remunerato settore agricolo costituì solamente una prima tappa occupazionale verso le industrie belliche francesi . Nel corso del 1916 il Commissariato Generale per l’Emigrazione italiano inviò alcuni contingenti di operai negli stabilimenti ausiliari francesi, migrazioni che si intensificarono notevolmente nel corso del 1917-1918. Infatti, nel marzo del 1917 su richiesta del Ministero della Guerra francese, vennero inviati 10.000 “operai borghesi”– edili, sterratori, carpentieri –per i lavori presso il campo trincerato di Parigi. Tale missione si rivelò fallimentare, perché i trasferimenti curati dal Commissariato Generale dell’Emigrazione e dalle stesse autorità francesi furono di fatto improvvisati: il mutamento delle destinazioni di lavoro nei dipartimenti del nord, la disorganizzazione dei cantieri, il maltempo, la precarietà delle condizioni di lavoro e di accantonamento scatenarono scioperi e proteste .
Dopo i primi risultati tutt’altro che incoraggianti, la migrazione organizzata verso le retrovie francesi venne ripetuta nel settembre del 1917 con un nuovo contingente di 10.000 lavoratori. Per evitare il ripetersi degli inconvenienti, il Comando Supremo, in accordo con le autorità militari francesi, costituì un comando autonomo incaricato di dirigere gli “operai borghesi” e con un’apposita convenzione si apprestò un contratto che rispecchiava, nelle sue linee fondamentali, quello in vigore nei cantieri militari sul fronte italiano. Per motivi di “decoro” e di prestigio nazionale, i lavoratori vennero equipaggiati a nuovo e inviati in Francia; circa 4.000 operai vennero impiegati in lavori ferroviari difensivi, nei lavori di trasporto di materiali e di vettovagliamento nelle immediate retrovie del fronte. Sottoposti a lavori pesanti, mal retribuiti, i lavoratori italiani furono marginalizzati e fortemente controllati dalle autorità militari francesi al fine di impedirne il passaggio verso lavori più retribuiti.
A partire dal gennaio del 1918 vennero inviati in Francia ulteriori scaglioni di lavoratori civili militarizzati; questi contingenti vennero in seguito rafforzati da due divisioni italiane e da altri 60.000 militari ausiliari (Truppe ausiliarie in Francia, T.A.I.F.) adibiti a lavori difensivi, ferroviari e stradali, richiesti dal governo francese in previsione della ripresa primaverile delle operazioni. L’ultima missione in terra francese ebbe un tenore puramente politico-propagandistico perché il governo italiano si impegnò a mandare personale di supporto alla missione militare americana in Francia; stanti le difficoltà interne si pensò di ingaggiare i lavoratori tra i profughi e irredenti. Sin dal maggio del 1918 esponenti dell’Alto Commissariato per i profughi di guerra presero contatti con il Commissariato Generale dell’emigrazione; in seguito, tra l’agosto e il settembre del 1918 iniziarono i reclutamenti, affidati al Ministero dell’Interno e all’Alto commissariato. Le autorità speravano di raggiungere una quota di 10-12.000 lavoratori, ma i risultati dell’operazione di propaganda furono deludenti, sia perché molti profughi erano già collocati al lavoro, come avveniva in Lombardia, Piemonte e in Liguria, sia ancora perché temevano di perdere il sussidio o di rientrare in ritardo nelle “Terre liberate”. Di fatto tra l’ottobre e il novembre del 1918 furono inviate in Francia via Ventimiglia 24 squadre per complessivi 616 operai, braccianti, carpentieri, muratori, edili, sterratori, in prevalenza operai profughi friulani, in minor numero veneti (Padova, Treviso, Cavazuccherina, Chioggia), ma anche profughi irredenti di Gorizia, Zara e Trieste . Le ultime squadre di operai borghesi impegnate sul suolo francese rimpatriarono nella primavera del 1919 .
8. OSSERVAZIONI CONCLUSIVE
Il conflitto fu caratterizzato da diverse tipologie di mobilità. Alle tradizionali migrazioni agricole, si affiancarono nuove migrazioni dirette verso le città industriali e le retrovie del fronte; se la grande maggioranza ebbero un carattere spontaneo, una parte non secondaria dei flussi fu organizzata dallo stato secondo un modello di migrazione militarizzata. Difficile quantificare con precisione questi movimenti, che furono esasperati dagli squilibri occupazionali e territoriali determinati dal conflitto stesso. Mobilità spontanea ed organizzata si intrecciarono strettamente, nel contempo competenze migratorie e professionali, o la loro mancanza, condizionarono le diverse esperienze di lavoro. Il ruolo dello stato in questi processi fu rilevante basti considerare che alla fine del conflitto, l’amministrazione statale e militare, per mezzo dei suoi organismi, Mobilitazione industriale, Segretariato Generale per gli Affari civili e l’industria “a domicilio” per la confezione degli indumenti militari, coinvolse complessivamente oltre 2.1 milioni di lavoratori esercitando quindi un potere direttivo di ampia portata sulla società italiana.
Il sommario quadro che si è cercato di delineare – e che attende ancora una esaustiva sistematizzazione – mette in evidenza l’importanza della dimensione migratoria durante il conflitto: a frontiere bloccate o poco permeabili subentrò una mobilità funzionale alle diverse esigenze dell’economia bellica; nel contempo la guerra dava una nuova accelerazione a fenomeni destinati ad affermarsi nei decenni successivi, quali i processi di urbanizzazione, il progressivo controllo statale del mercato del lavoro e delle migrazioni . Considerato in una prospettiva più ampia, il conflitto segnò una profonda cesura nella storia migratoria italiana, non solo perché ridusse le dimensioni dei flussi e ne mutò le direzioni, ma anche perché introdusse profondi mutamenti nelle relazioni internazionali, ben presto orientate al restrizionismo migratorio. La guerra pose fine a modelli migratori consolidati (emigrazione verso gli Imperi centrali, le migrazioni transoceaniche verso gli Usa), e ne aprì di nuovi (la Francia, la Romania); altresì, dopo conflitto si perse gradualmente la cadenza stagionale nella componente migratoria continentale e la pendolarità pluriennale in quella transoceanica, obbligando gli emigranti a permanenze più prolungate o definitive.
Le vicende belliche, peraltro, inaugurarono, in maniera embrionale, emigrazioni di lungo raggio, da sud a nord, da est a ovest, nonché preparavano la strada a nuove destinazioni migratorie come nel caso della ricostruzione delle zone devastate del nord della Francia; altresì alcuni flussi migratori non si interruppero, come le migrazioni agricole stagionali, o come le migrazioni delle tessili venete e friulane verso il biellese e il comasco; dopo una breve stasi migratoria nell’immediato dopoguerra, si ripartì con una quadro migratorio ed economico in rapido mutamento. Sul versante della gestione delle migrazioni, sin dal 1914-15 si affermò il potere dello stato che ebbe facoltà di concedere o meno il nulla osta all’espatrio; al Commissariato Generale dell’Emigrazione, cui durante il conflitto furono assegnati compiti di agevolazione dei rimpatri degli emigranti all’estero e accordi di scambio di manodopera, si affiancarono altri strumenti regolatori delle migrazioni quali la Mobilitazione industriale e il Segretariato Generale. Laddove nel primo istituto si fecero più forti le esigenze di industriali, nel secondo, sia pur con forti pressioni dei comandi militari, si poteva avvertire quel processo di elaborazione teorico sui problemi della disoccupazione e del collocamento che era stato al centro della riflessione degli organismi socialisti e di alcuni settori dello stato durante dell’età giolittiana . Proprio partendo da questi presupposti il Segretariato Generale riuscì ad organizzare una migrazione di lavoro massiccia, politicamente selezionata, regolata nei flussi e nelle sue modalità (contratto, norme), dalla partenza al rimpatrio, disciplina impensabile in tempi di pace. Anche l’esperienza francese, per molti tratti fallimentare, confermò l’utilità delle convenzioni sulla base della parità di trattamento e dei contratti collettivi o nominativi; in questo modo si rafforzò ulteriormente la tutela statale sul movimento migratorio, una formula che fu perseguita con intensità nell’immediato dopoguerra.
Pur nel quadro di una progressiva militarizzazione del lavoro, nel corso del periodo bellico rimasero larghi spazi per la mobilità spontanea. In questo contesto con diversità di approcci, resistenze e fenomeni di faticoso adattamento, le competenze migratorie furono sagacemente utilizzate per trovare nuove opportunità occupazionali e redditi in una situazione bruscamente sconvolta dalla conflagrazione europea; così come era avvenuto nei decenni precedenti, la continuità salariale, tuttavia, non coincise con una stabilità occupazionale, piuttosto fu il frutto di continui spostamenti, motivati dalla ricerca di migliori condizioni economiche e di lavoro .
Nondimeno, la guerra, impose l’immissione nel mercato del lavoro di nuovi soggetti sociali, quali giovani, le donne, che fecero una drammatica esperienza di nuovi contesti lavorativi soprat-tutto di carattere industriale, acquisendo competenze migratorie e una nuova confidenza con enti di collocamento e patronati; la conquista di nuovi spazi di autonomia attraverso il lavoro e processi di rapida sindacalizzazione li resero protagonisti di un ciclo rivendicativo che, apertosi nel 1914-15, ebbe il suo culmine radicale nel “biennio rosso”.