MIGRAZIONI INTERNE E GRANDE GUERRA

La partecipazione della società italiana alla Prima guerra mondiale comportò degli effetti importanti per la mobilità territoriale interna alla penisola. In un quadro già estremamente articolato, composto da un fitto tessuto di molteplici tipologie di mobilità e da un’abitudine consolidata allo spostamento interno per motivi di lavoro, la mobilitazione bellica irruppe a complicare ulteriormente le cose. Percorsi migratori frequentati da sparuti gruppi di persone si videro improvvisamente ingranditi fino a diventare delle vere e proprie strade consolari presidiate dalle istituzioni, dove ora si muovevano centinaia di migliaia di individui; altri, al contrario, non trovarono più ragion d’essere e si interruppero. Spazi sociali consolidati furono modificati in profondità, insieme a molti dei paesaggi reali in cui fisicamente si collocavano; in alcuni casi si trattò di una fiammata improvvisa, che durò il tempo del conflitto per poi ritornare alla situazione quo ante, in altri casi dei cambiamenti importanti entrarono a far parte del panorama sociale e istituzionale della mobilità territoriale italiana.
Capire quanto la deflagrazione bellica abbia rappresentato appena una parentesi eccezionale per le migrazioni interne e quanto invece fu un evento che marcò un punto di non ritorno, è sicuramente una delle domande più significative da porsi. Per quel che riguarda gli spostamenti interni, la guerra è venuta a modificare davvero nella sostanza il comportamento degli italiani? Nel campo differente ma attiguo dei fenomeni di morbilità e mortalità la risposta sembrerebbe negativa, almeno secondo uno studio recente di Lucia Pozzi che ha affrontato la questione in profondità, con gli strumenti della demografia storica: la guerra sarebbe stata una parentesi che non ha apportato significativi cambiamenti né a livello di tendenza generale né nella composita geografia della mortalità . Per le emigrazioni all’estero invece sembra di poter affermare con un certo grado di sicurezza il carattere di cesura che rivestì la guerra e soprattutto gli effetti che determinò a livello internazionale sui rapporti tra mobilità territoriale e autorità statali .
Compito di questo saggio è quello di proporre una prima riflessione sul tema della mobilità interna alla penisola negli anni del conflitto, più in forma di spunti per ulteriori studi che non presentando delle conclusioni definitive. Si tratta in effetti di problemi che hanno interessato poco la ricerca storica italiana – per cui paradossalmente uno degli aspetti che conosciamo meno della mobilitazione militare e civile risulta essere proprio la mobilità in senso stretto, gli il quadro degli spostamenti complessivi dei militari e dei civili –, ma che rivestono una discreta importanza, soprattutto se vogliamo intendere i cambiamenti dei fenomeni migratori come segnali decisivi di un più complesso processo di mutamento della società. In questa ottica non è consigliabile limitarsi agli interscambi di popolazione con l’estero – come spesso si continua a fare anche all’interno di riflessioni sulla mobilità in senso lato –, ma conviene invece comprendere nel discorso anche i trasferimenti interni al territorio statale, aspetto quest’ultimo che si rivela più trascurato da un punto di vista storiografico, mentre rivestì un’importanza notevole negli anni del conflitto, come non mancarono di far notare gli osservatori più attenti.
In primo luogo fu il quadro economico a risentire dello scoppio di una guerra che riguardò inizialmente altri paesi e altri paesaggi. La contrazione degli scambi commerciali comportò alcune prime difficoltà nella produzione, sia in termini di export che di reperimento di materie prime, aggravate dalle minori possibilità di espatriare che incontrarono i migranti italiani. Sia il settore industriale che quello agricolo risentirono quindi immediatamente degli effetti del conflitto europeo, con conseguenze sulla mobilità territoriale interna. Ma il segnale più evidente delle perturbazioni scatenate negli altri paesi belligeranti fu un altro, intimamente legato alla precedente storia migratoria nazionale: “si riversavano in Italia folte schiere di operai occupati all’estero, cacciati dai paesi entrati in guerra; ritornavano privi di mezzi, angariati da frodi, danneggiati dal disordine monetario: ritornavano, secondo la rilevazione dell’Ufficio del lavoro, in quasi mezzo milione, oltre la metà contadini e terrazzieri, e restavano in gran parte disoccupati”, scrisse Arrigo Serpieri nel 1925 .
Le turbolenze che la guerra portò negli stati europei furono un motivo di rientro in Italia dei connazionali più forte del richiamo patriottico . Bisogna inoltre considerare che la recente impennata delle partenze – che avevano toccato il picco statistico assoluto proprio l’anno prima dello scoppio del conflitto – comportava la presenza all’estero di migliaia di persone la cui esperienza migratoria era ancora troppo fresca per non risentire profondamente dell’esplosione di un conflitto europeo tra opposti statinazione.
La guerra implicò dunque un improvviso cambiamento nell’interscambio di popolazione con l’estero; le conseguenze per la mobilità territoriale interna furono non meno profonde, per quanto difficilmente definibili. In linea teorica, le minori opportunità di impiego dovute alla guerra e alla saturazione dei mercati del lavoro avrebbero potuto portare a una minore mobilità interna. Tuttavia altri elementi spingono a conclusioni diverse e invitano a non limitarsi a deduzioni semplicistiche. Da una parte, gli spostamenti interni che in un contesto diverso avrebbero poi portato a un’emigrazione all’estero si dovettero limitare forzatamente al loro carattere di mobilità interna, aumentando quindi le probabilità di una loro trasformazione in un rientro o in un’ulteriore spostamento interno; dall’altra, lo squilibrio di situazioni economiche che si basavano da anni sull’interscambio migratorio con l’estero – come era il caso delle campagne meridionali o venete – potrebbe aver costretto a un maggior ricorso a una migrazione di fortuna a corto raggio, per integrare altrove il minor afflusso di risorse .
La mobilitazione bellica e il richiamo alle armi delle varie leve avrebbero poi operato un ulteriore sconvolgimento del quadro. La partenza dei maschi dal focolare domestico provocò forti scompensi nei delicati equilibri familiari. Si ascolti la ricostruzione – invero molto teorica – fatta da Luigi Einaudi in una sua famosa lezione universitaria tenuta a guerra conclusa:

Un numero notevole di abitanti di città si trova ad avere il proprio appartamento sulle spalle senza avere chiaro dinanzi alla mente il modo di poter pagare il fitto della casa. […] Coloro che invocano la liberazione del vincolo precedente di pagare gli affitti sono disposti a far a meno della casa che occupavano perché, essendo chiamati sotto le armi, mandano la moglie e i figli in campagna o presso i propri genitori o presso i genitori della moglie, ecc. Queste famiglie si stringono, trovano modo di vivere più a buon mercato e molti appartamenti si rendono in questo modo vuoti. […] Il fenomeno ha acquistato una intensità particolare in alcune zone italiane, per esempio in tutta la zona adriatica, le cui città videro un fuggi fuggi da parte della popolazione che poteva allontanarsi .

Il nesso tra livello degli affitti e migrazioni interne è un aspetto molto visibile e studiato al giorno d’oggi: non è però un fenomeno nuovo, data l’importanza attribuita al non riuscire più a pagare le alti pigioni delle città nel generare una micromobilità verso soluzioni residenziali più economiche. Ma non furono solo le città a risentire della partenza dei maschi, anzi. Secondo le prime ricostruzioni del dopoguerra, quasi la metà dei richiamati erano contadini. Si stimava che più della metà dei maschi adulti che rappresentavano il grosso della popolazione attiva in agricoltura (2, 6 milioni su 4, 8 circa) andò sotto le armi. La ricomposizione di un rapporto sostenibile tra bisogni lavorativi e manodopera fu la grande urgenza che attanagliò le società contadine nel corso del conflitto, con conseguenze sulla mobilità. Tra i mezzadri dell’Italia centrale la risposta fu di provare a ristabilire “un equilibrio fra il bisogno di lavoro della terra e la capacità di lavoro della famiglia”, diminuendo al minimo “la richiesta di lavoratori complementari dall’esterno”. Più difficile al sud, dove “la sostituzione nel lavoro dei richiamati si presentava spesso particolarmente difficile e faticosa, per la grande distanza dei campi dalle abitazioni” . Sono note le difficoltà date dall’organizzazione del sistema delle licenze e la discriminazione che subì il comparto agricolo rispetto a quello industriale . Un effetto della coscrizione e della mancata attenzione alla mobilità da lavoro agricolo da parte dei comandi militari era visibile nell’impennata che i salari agricoli femminili conobbero nel corso della guerra. Anche i salari agricoli maschili crebbero, se pur in misura minore; in ogni caso conobbero una crescita media superiore ai salari industriali .
Il problema delle connessioni tra migrazioni estere e migrazioni interne appare estremamente complicato e interessante, tanto da rappresentare uno dei campi più importanti per lo sviluppo degli studi migratori . Per quello che ci interessa, ovvero il contesto italiano nel corso della Prima guerra mondiale, i dati disponibili non sono di grande aiuto, a causa delle enormi imprecisioni che li caratterizzano. Il grafico 1 riporta le serie statistiche relative agli espatri e alle iscrizioni anagrafiche nel primo trentennio del Novecento. In linea di massima i cambiamenti di residenza non possono essere considerati dati affidabili almeno fino all’inizio degli anni Trenta, e anche dopo rimangono molte le cautele con cui utilizzarli. Inoltre negli anni bellici parte del sistema di registrazione saltò completamente: “in Italia, come in Francia del resto – scriveva Francesco A. Rèpaci ancora nel 1921 – per moltissimi comuni, in quelli che si trovavano nella zona delle operazioni belliche dal 1915 non si è fatto più nessun calcolo della popolazione ivi residente, per mancanza di dati” . Il richiamo alle armi dei dipendenti comunali, l’evacuazione delle zone di guerra, l’afflusso dei profughi e le varie disfunzioni belliche mandarono in tilt i meccanismi ordinari – già ampiamente imperfetti – delle iscrizioni anagrafiche. Perfino le amministrazioni responsabili furono interessate direttamente a fenomeni di migrazioni interne, come nel caso degli enti locali delle zone occupate che si ricostituirono in Emilia e in Toscana dopo la rotta di Caporetto .
Eppure, nonostante queste avvertenze, se consideriamo i dati aggregati e proviamo a seguire la serie storica del volume totale delle iscrizioni a livello nazionale è possibile osservare un andamento meno discontinuo rispetto a quello degli espatri, la cui misurazione era certamente meno imprecisa. Da un punto di vista quantitativo grezzo i livelli della mobilità interna appaiono in crescita sin dall’inizio del secolo, con un andamento sostanzialmente analogo – se pur con una minore discontinuità – a quello delle partenze. Con lo scoppio della guerra le migrazioni interne da residenza interruppero la loro ascesa, rimanendo su un livello più alto degli espatri che invece crollarono fino a lambire lo zero. Bisogna anche considerare che la chiamata alle armi limitò la mobilità residenziale delle categorie di popolazione generalmente più mobili, ovvero i maschi giovani. La fine delle ostilità portò poi a un sussulto di crescita per entrambe le serie, che dall’inizio degli anni ‘20 presero però andamenti divergenti: in diminuzione costante gli espatri, in espansione le iscrizioni anagrafiche. Solo dopo la Seconda guerra mondiale i loro cammini si ritrovarono nuovamente con un respiro comune, almeno per un ventennio .
L’impressione che si ricava dall’andamento dei due indici della mobilità territoriale più comuni – i trasferimenti di residenza e gli espatri – ci porterebbe a ritenere gli anni bellici come un periodo di stasi, di quiete, come se lo sforzo bellico avesse in un certo senso immobilizzato il corso ordinario degli spostamenti. Se il calo degli espatri registrati è da collegarsi soprattutto al contesto internazionale e rispecchia sostanzialmente l’andamento delle emigrazioni, quello delle iscrizioni anagrafiche nasconde in realtà la clamorosa impennata conosciuta dalla mobilità territoriale interna nel corso della guerra. Per il periodo bellico, in effetti, i trasferimenti di residenza rappresentarono degli indici ancora meno rispondenti alla situazione effettiva delle migrazioni interne di quanto non lo fossero negli anni di pace. Questo da una parte perché come abbiamo visto la situazione, soprattutto nelle città settentrionali, era particolarmente caotica e la popolazione presente – già normalmente sottostimata dall’anagrafe – sfuggiva in larga parte ai controlli. Un esempio: nel 1918 il confronto tra la popolazione di Torino registrata all’anagrafe comunale e quella risultante dai dati dell’Ufficio Annona della stessa amministrazione municipale dava una differenza di ben 38.000 persone in più rispetto a quanti vantavano una regolare residenza . La radice delle difficoltà statistiche, tuttavia, risiedeva nella natura stessa degli spostamenti, legati come erano all’eccezionalità della mobilitazione bellica e industriale.
La guerra, ha scritto Antonio Gibelli, ha introdotto nel ricco e variegato universo migratorio delle campagne italiane “un diverso tipo di mobilità, coercitiva ed eterodiretta”, che ha inibito alcuni spostamenti costringendo ad altri, differenti . Il riferimento principale è ovviamente la chiamata alle armi dei soldati, la “mobilità in uniforme” che coinvolse oltre cinque milioni di maschi adulti appartenenti alle leve dal 1874 al 1900, di cui circa 4, 2 milioni destinati al fronte . Nel grafico si dovrebbero dunque aggiungere nella parte centrale – se ciò fosse possibile – gli spostamenti di quasi un milione di uomini mobilitati nel 1915, dei 1, 4 milioni del 1916 e degli oltre 2 milioni mobilitati nel 1917 e nel 1918. Il buco che notiamo negli anni centrali fu sì un’interruzione nella mobilità ordinaria, ma non segna affatto un periodo di minor mobilità, si trattò al contrario di un rimescolamento forzoso e convulso di popolazione come non si era mai realizzato in Italia: l’esplosione di un complesso intreccio di migrazioni interne in uniforme grigioverde.
Solo sporadicamente questi spostamenti furono segnati come cambiamenti di residenza, nel caso in cui andassero a formare le guarnigioni in pianta nelle città. Rimanendo all’esempio di Torino, tra 1911 e 1914 la presenza militare nel comune si aggirava sulle 12.000 presenze; nel 1916 si gonfiò fino a raggiungere le 60.000 unità per poi ridursi negli anni successivi fino a toccare alla fine del 1920 quota 14.000, quasi il livello dell’anteguerra . Le caserme e gli ospedali militari furono però soprattutto dei veri e propri “polmoni demografici”, mantici che si gonfiavano e contraevano, richiamando ed espellendo continuamente soldati attraverso il reticolo dei trasporti ferroviari, in un continuo viavai dagli 88 distretti in cui era divisa l’Italia al fronte e poi alle retrovie, e viceversa. “Il completamento dei corpi e dei servizi in uomini e quadrupedi – scrivevano fonti ufficiali riferendosi alle prime settimane di mobilitazione – aveva portato ad una grande moltiplicazione di trasporti, che poco si conciliava con la nostra rete ferroviaria, assolutamente impari a sopportare il doppio peso della mobilitazione e della radunata” : considerando il gonfiarsi dei numeri degli uomini chiamati alle armi, questa pressione logistica ai limiti della sopportabilità entrò a far parte dell’esperienza bellica ordinaria. In questi percorsi potevano incrociarsi veterani in licenza con reclute addestrate in fretta e furia, feriti e sani, disertori e volontari, militari e civili. Giorgio Mortara ha reso assai bene la centralità dell’intreccio di questi movimenti, aspetto spesso trascurato dai lavori storici recenti sulla Grande guerra che tendono invece a trattare i vari momenti come fenomeni separati e successivi :

Tra la zona di guerra e il resto del paese si stabilisce un continuo ed intenso ricambio di uomini, all’infuori delle normali relazioni, in parte ristrette per conseguenza della guerra. Sono complementi e nuovi reparti che accorrono al fronte, sono lavoratori civili che affluiscono nelle retrovie, sono ammalati e feriti che vengono sgombrati dalla zona delle operazioni verso le regioni retrostanti. Dall’inverno del 1915 in poi s’intensifica anche il movimento dei militari, che sono inviati in licenza dall’esercito alle loro case, che tornano poi al loro posto; più tardi s’ingrossano altre minori correnti, come quella degli esonerati dal servizio militare per lavori industriali ed agricoli indispensabili alla sussistenza della popolazione od alla resistenza dell’esercito. […] Il progressivo ingrossamento dell’esercito operante rende di mano in mano più vasti gli scambi di uomini fra esso e il paese, e accresce i turbamenti demografici determinati dalla mobilitazione.
L’esperienza di guerra può essere quindi vista come una eccezionale “serie di movimenti” dalla diversa natura e dai differenti significati, di cui è difficile valutare a fondo la complessità e le possibili implicazioni sulla successiva mobilità postbellica.
Un primo immediato aspetto da notare è la sua dimensione di “scoperta del mondo”: la mobilitazione portò centinaia di migliaia di soldati semplici in luoghi nuovi, li obbligò a percorrere città e paesaggi che non avrebbero mai visto altrimenti. Si legga il noto Diario di guerra di un contadino toscano di Giuseppe Capacci, nato nel 1895 a Monterchi in provincia di Arezzo. Richiamato al distretto del capoluogo nel gennaio 1915, da qui fu subito condotto alla stazione e caricato sul treno per Milano. “Tutti ammassati a’ finestrini per vedere il nuovo mondo che mai veduto ancora! Al passare dei paesi, agli arrivi in istazione, al vedere dei passanti, al fermarsi delle curiose ragazze, tutti si faceva sentire la nostra voce trasformata in mille e più dimande: belle, brutte, scorrette, dolce, amorevole, intusiasmose, acconpagnate da gesti come per un abbraccio, all’offrire di un bacio, o segno di minaccia” . La storiografia si è interrogata sullo stato d’animo dei soldati richiamati e delle rispettive comunità rispetto all’adesione o meno alla guerra: registriamo qui un dato più elementare ma non per questo meno importante, ovvero la commozione di conquistare uno spazio nuovo e sconosciuto, l’esigenza di riempire questo vuoto di conoscenza con la voce, moltiplicando i contatti con l’ambiente circostante. Gli aspetti emotivi erano certamente amplificati e moltiplicati dall’incognita del proprio destino rispetto alla guerra, ma ci interessa sottolineare come questa esperienza avvenne per lo più in contesti nuovi.
Torniamo al fante Capacci. Una volta arrivato a Milano fu la metropoli d’Italia a colpire la sua fantasia: “sortiti dalla stazione ci misero per quattro; e via si va: da un borgo all’altro, da una contrada all’altra, non si arrivava mai! ‘Oh, quante è grande questa città?’, ci domandavamo fra noi. Da tutti i corsi si vedeva file di tranvi, autumobeli, cucchieri: quanta gente!” . Ma lo stupore non si limitò allo scenario urbano. Trasferito a fine maggio per una rapida formazione a Campagnola Superiore, in provincia di Brescia, la meraviglia del contadino toscano venne destata dall’immersione in un rarefatto paesaggio alpino:

Un bel giorno di luglio ci condussero in una altissima montagna, conducendo con noi lo zaino; le stradicciole erano cattive e ritte, nascoste nella macchia. […] Finalmente si giunse nella più alta cresta: al di sotto si vedeva la città di Brescia, si guardava stupefatti quella posizione come se ci fosse apparita in sogno; al di là vi era dei brutti diserti impraticabeli. […] giù per la crina di quel monte vi era un vicolo praticato, e noi ci incaminammo come per scoprire un nuovo mondo, come fece Cristofero Colombo.

Il paragone con il navigatore del Nuovo Mondo è certamente esagerato, ma è utile a Capacci per esaltare la dimensione dell’esplorare. Tutte queste annotazioni sono relative alla fase prece-dente l’arrivo al fronte: l’impatto con la guerra guerreggiata ancora non c’è stato, ma l’esperienza della mobilità territoriale è già certamente significativa.
Per una conferma passiamo dall’altra parte del paese, alla vicenda del bracciante siciliano Vincenzo Rabito. Tra i ragazzi del 1899, Rabito ricevette la chiamata nel febbraio 1916: presentatosi al distretto di Siracusa, venne poi trasportato a Palermo. Dopo qualche giorno trascorso in caserma, un rischio di epidemia di tifo lo fece trasferire a Trapani per una degenza ospedaliera: “Io a Trapene non ci aveva stato maie, ma era tutto cirato di mare, e li trampe c’erino, e ho visto che era una cità bellissima” . Quindi tornò a Palermo, da dove venne poi riportato a Siracusa e da qui – dopo quattro mesi – spedito per le esercitazioni in una località vicino Salerno. Ancora per un’epidemia di tifo fu ricoverato in ospedale a Cava dei Tirreni, per poi finalmente essere caricato su un treno che fece scalo a Napoli (“a Napole ci hanno fatto fare 3 ore si sosta e io ho visto Napole che non l’aveva vista maie” ), poi a Firenze e quindi il fronte. La mobilitazione militare fu anche una scoperta del paese, un’esperienza di viaggio che rimase impressa nella memoria dei coscritti. Anche l’esigenza di tenere il ricordo di quanto visto è indicativa, come segnalava il sarto piemontese Giovanni Busso: “io scrivevo su dei bigliettini, avevo un blocchetto della Cinzano e su questo scrivevo tutto, le date, i posti nei quali passavo, i paesi, tutto” .
La mobilità dei soldati si componeva quindi di una serie più ampia di tipologie rispetto al semplice trasporto dei coscritti al fronte. Come abbiamo visto nel caso di Rabito, le esigenze sanitarie erano gravide di conseguenze sugli spostamenti. Si pensi ad esempio alla mobilità dei feriti, ai quasi 950.000 uomini che riportarono offese fisiche gravi nel corso della Grande guerra. Il sistema di trasporti di questi militari divenne un aspetto logistico fondamentale, in cui la velocità e l’efficienza assumevano un’importanza cruciale per lo stesso andamento bellico; in alcuni casi furono costruiti nuovi raccordi ferroviari per portare i degenti direttamente all’interno delle strutture ospedaliere senza perdere tempo in ulteriori trasbordi . Furono quasi 90 i treni speciali dedicati al trasporto di feriti e ammalati, che riportarono indietro dal fronte 81.000 soldati nel 1915, 305.000 nel 1917 e 334.000 nel 1918 .
Vediamo a proposito un caso specifico. Il pastore abruzzese Francesco Giuliani venne ferito alla coscia sinistra da una scheggia nemica, mentre combatteva sull’Ortigara il 23 giugno 1917. Dopo qualche giorno di ricovero a Primolano, alle spalle del fronte, fu portato in un ospedale a Milano. Un mese più tardi, data la gravità della ferita, fu necessario il trasferimento a Caserta, dove passò parte dell’estate in degenza alla Reggia. “Questo palazzo è veramente grande e bello, ma per la mia ignoranza in architettura non posso farne ora neanche la minima descrizione” , scrisse alla moglie appena arrivato; “se non era per la cagione della mia ferita – annotò qualche giorno dopo –, questa meraviglia per me resta una sconosciuta” . Da Caserta venne dimesso a fine agosto con l’ordine di passare la convalescenza a Messina. Per aver ritardato di due giorni la partenza Giuliani venne arrestato e dalla prigione di Benevento fu tradotto a Napoli, nel carcere di Poggioreale. La natura umiliante di questi spostamenti non gli impedì di apprezzare i luoghi in cui passava: “la distanza che separa Caserta da Napoli è una bella pianura che io non ho visto un’altra che può stargli a paragone […] e chi se l’avrebbe aspettato di fare il giro di Napoli in carrozza e ammanettato come un volgare delinquente” . Dopo un mese di prigionia venne portato a Messina dove fu subito liberato. Dieci giorni più tardi lo rimandarono al fronte: partito l’11 ottobre da Messina, la sera del 13 era a Cormons, appena in tempo per la rotta di Caporetto.
Abbiamo visto finora casi di accettazione passiva da parte dei soldati di una mobilità imposta dall’alto. Come ha osservato Antonio Gibelli, nella vita militare, e in particolare in quella caotica del periodo bellico, “la logica e la direzione degli spostamenti sfuggono, in quanto dipendono da un disegno superiore sconosciuto” . E se “la renitenza e la diserzione possono dunque essere intese come tentativi di recupero del controllo sulla propria vita e, più specificamente, sulla propria mobilità” , con il primo conflitto mondiale “la guerra tra mobilitazione di massa e renitenza contadina, tra registrazione statale e anonimato della gente comune, si è largamente concluso con la vittoria dello Stato”: “a quel punto sottrarsi, fuggire, far perdere le tracce della propria identità è diventato quasi impossibile”, al limite si possono avere casi “di rientri tardivi al reparto, di sbandamenti, di smarrimenti […], di fughe inconsapevoli piuttosto che di deliberate scelte di diserzione” .
Ci sembrano indicazioni preziose per indagare le possibilità di scelta soggettiva che ebbero i coscritti nel periodo 1915-1918, i margini di libertà che riuscirono a erodere i fanti sul complesso sistema delle imperscrutabili logiche militare. Si potevano forzare i tempi delle licenze – con il rischio di essere arrestati, come nel caso di Giuliani – per rendere più umana l’esperienza della coscrizione, allungando i tempi dei rientri a casa o delle pause dal fronte. Rabito, ad esempio, dimostra nella sua autobiografia una grande consapevolezza di quanto si potesse tirare la corda delle infrazioni senza rischiare delle pene troppo severe:

erimo soldate scapate che potemmo antare allo trebunale miletare, e magare potiemmo essere fucilate, se per caso mancassemo 48 ore, perché era tiempo di querra e partiemmo senza nessuno au-terezazione. […] E alla sera, verso li 9, ci abiammo presentato alla chiesa di dove avemmo partuto. Così, abiammo quardato dove c’erino fessate li ordene del ciorne e ci notavavino li 48 ore della nostra asenza. Però, doppo una mezza ora, hanno chiamato l’apello. […] All’apello avemmo resposto, quinte non forino più 48 ore di assenza, ma foreno sole 24 .

Quanto poter scommettere sulla disobbedienza nella propria mobilità – ovvero come ottenere il massimo di libertà con il minimo di gravità nelle infrazioni – era questione estremamente delicata, fondamentale tuttavia per l’equilibrio psico-affettivo dei soldati. Giovanni Bussi, classe 1898, originario di Cossano Belbo, fu ferito nel giugno 1917, mentre si spostava sulla riva del Piave in un camminamento sotto il fuoco nemico, a causa dello scoppio di uno spezzone di granata. Ricoverato all’ospedale di Rovigo, una mattina il personale sanitario appese sopra il suo letto l’ordine di servizio che lo destinava a Caltanissetta per curarsi.

La sera stessa – scrive Bussi – vennero a prenderci con i camion per portarci alla stazione sul treno per Caltanissetta. Io non potevo andare perché così non avrei più visto i miei famigliari. Allora tolsi la base da sopra il letto perché quelli che non partivano non ce l’avevano. La suora […] si accorse che io non ero partito, ma io risposi che non sapevo niente. Attaccò un’altra volta la base al letto e poi se ne andò. Io allora guardai e vidi: Alessandria, che non fosse solo Alessandria d’Egitto. Infatti quando le chiesi che Alessandria era mi rispose che era l’Alessandria che volevo.

La libertà nella mobilità che il soldato guadagnava nel corso delle licenze era anche un contrappunto rispetto alla realtà della guerra di trincea, alla costrizione e alla morte trovata nello spazio di pochi metri di terra conquistata. Erano considerazioni ben note alle gerarchie militari, tanto da essere consapevolmente adottate quando ritenevano fosse il caso di allentare un po’ la disciplina e far riposare le truppe, permettendo loro di praticare una mobilità anche oltre i limiti stabiliti dai regolamenti.
Furono anche altre le migrazioni che scaturirono direttamente dall’andamento bellico. Il riferimento va agli oltre 630.000 profughi che scapparono dopo l’ottobre 1917 dalle terre occupate dagli austriaci (in cui rimasero pur sempre quasi 900.000 cittadini italiani) e dalle aree sgomberate al di qua della linea del Piave, una mobilità definita dal suo maggior studioso come “la prima, grande tragedia collettiva che investe la popolazione civile italiana durante la Grande Guerra e, in termini assoluti, la più vasta fino al periodo 1940-1945” . Altri spostamenti forzati si erano verificati in precedenza, come i 42.000 civili espulsi dal Regno Austro-ungarico subito dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, i 52.000 evacuati dalle zone del fronte dalle autorità militari italiane o i 110.000 profughi seguiti alla Strafexpedition sul piano dell’Asiago nel maggio 1916 .
Questa particolare forma di migrazione interna portò lontano dal fronte – nei nodi urbani del fronte interno – gruppi di persone che testimoniavano pubblicamente con la loro sola presenza le dimensioni immani che aveva ormai raggiunto la guerra, il suo carattere di dramma anche civile e non solo militare. Una volta attraversati i ponti sul Tagliamento e sul Piave, infatti, a piedi e con i carri, o saliti su treni carichi all’inverosimile, il primo centro di raccolta e ricovero fu trovato nella città di Treviso, che ne rimase stravolta. Da qui decine di migliaia di persone – in gran parte donne e bambini – furono inviate via treno nelle varie città di smistamento: Milano e Bologna al di sopra degli Appennini, Firenze, Roma e Napoli al di sotto. Le autorità statali cercarono di controllare spostamenti che si svolgevano in maniera autonoma e di organizzarne altri che potevano portare da un acapo all’altro dello Stivale, ad esempio da Bassano del Grappa alla Sicilia. Si trattò di veri e propri sradicamenti che si muovevano su traiettorie assolutamente inedite, il cui impatto non venne quindi attenuato da consuetudini precedenti. “Quando si rendevano conto che la loro destinazione definitiva era una località dell’Italia meridionale – ha scritto Daniele Ceschin –, numerosi profughi scendevano dai convogli alle stazioni intermedie cercando ricovero in città dove non erano state ancora approntate misure d’assistenza oppure erano già riservate ad altri. Si trattava di una ‘irregolare immigrazione’ che secondo le autorità andava vietata” .
La gestione dell’assistenza nei confronti dei variegati gruppi di profughi dislocati in tutta la penisola, alloggiati spesso in sistemazioni di fortuna e sempre in condizioni estremamente difficili, rappresentò un problema di primo piano in una nazione in guerra. A una prima fase di emergenza – in cui l’obiettivo era quello di smaltire le concentrazioni di profughi nel territorio italiano – ne seguì una di assestamento, in cui molte comunità di affetti cercarono di ricongiungersi e si fecero impellenti i bisogni lavorativi. Ha notato a proposito Ceschin:

Se l’esodo del dopo Caporetto aveva condotto la maggior parte dei profughi non abbienti in località che non avevano scelto, ora la necessità di lavorare faceva scattare dei meccanismi molto simili all’emigrazione e alle sue dinamiche, ovviamente secondo criteri che venivano sempre stabiliti dal Ministero dell’Interno o dall’Alto commissariato: una forma particolare di emigrazione interna, indotta e controllata, dove lo spazio della scelta individuale era ancora una volta minimo.

Poiché per potersi spostare nel territorio nazionale i profughi dovevano ricevere il permesso della Questura, da apporre nel passaporto per l’interno, strumento introdotto già nei primi del ‘900 ma poco utilizzato fino ad allora , spesso queste esigenze si traducevano in migrazioni illegali, per lo più verso le città del Nord.
L’Italia settentrionale fu la meta di molti altri tipi di migrazioni, legate alle opportunità di lavoro che la guerra stava generando sia nei contesti urbani e industriali che nelle aree attigue al fronte. Per quel che riguarda le grandi città, si tratta di fenomeni ben studiati: l’esplosione della grande industria direttamente legata alle esigenze belliche portò a un enorme ampliamento dei suoi bacini di reclutamento (furono oltre 900.000 i lavoratori direttamente coinvolti negli stabilimenti ausiliari della Mobilitazione Industriale), con uno sconvolgimento profondo nei rapporti tra campagne e città (“le nuove e difficili popolazioni che si innestano a grandi getti sul tronco della vecchia città” , come ebbe a scrivere Francesco Coletti) e le prime avvisaglie di significative migrazioni dal Meridione verso le aree industriali padane e la Toscana. Anche a livello micro la mobilità tra le diverse fabbriche era continua, talmente elevata che la stessa relazione con cui fu emanato il regolamento applicativo della Mobilitazione Industriale definiva come “uno dei più gravi inconvenienti” proprio il “passaggio continuo del personale da uno stabilimento ad un altro in cerca del maggior guadagno, spesso invitato dagli stessi industriali che si fanno così dannosa concorrenza nella mano d’opera, provocando continue interruzioni di lavoro” . Queste parole risalivano a pochi mesi dallo scoppio della guerra: con il procedere dello sforzo bellico il problema si fece ancora più pressante e portò a un aumento dell’attrattività delle fabbriche .
I grandi centri industriali nel Nord Italia videro quindi un gonfiarsi improvviso e importantissimo di popolazione – sia residente che non residente – seguito però da un successivo sgonfiamento negli anni del dopoguerra, con la parziale eccezione di Torino. Fondamentalmente venne a confermarsi un trend iniziato negli anni dello sviluppo economico di primo Novecento, con l’aggiunta di un inizio di apporto significativo di popolazione proveniente da regioni distanti. Leggermente diverso invece il caso di Roma. La capitale registrò per il decennio 1911/1921 un tasso di crescita dovuto all’immigrazione in una misura tale che non si realizzava dal primo decennio successivo all’annessione al Regno d’Italia; ora però l’apporto della popolazione meridionale si rivelava ben più intenso rispetto al primo periodo, in cui invece furono soprattutto i settentrionali ad abitare la città . “Nella capitale in guerra – ha scritto Alessandra Staderini – grandi novità si verificarono nel terziario: alla burocrazia ministeriale dipendente dallo stato si sommarono infatti i tanti dipendenti degli istituti nati proprio a Roma per le esigenze del conflitto” . Si può affermare che un effettivo cambiamento strutturale avvenne nel corso degli anni bellici non tanto per le città settentrionali quanto per la capitale?
Per i fabbisogni lavorativi legati alle operazioni militari nel Nord-est, la costellazione urbana legata alle aree di guerra, con al centro Udine, venne investita dall’arrivo di una pletora di figure professionali pronte a fornire i propri servizi . Si sviluppò inoltre l’impegno del Segretariato Generale degli Affari Civili nel reperire manodopera civile da mandare nelle immediate retrovie e al fronte: furono circa 650.000 i lavoratori ingaggiati tra 1916 e 1918, di cui 210.000 dalle regioni meridionali. A questo proposito Matteo Ermacora, che ha dedicato all’argomento importanti studi, ha avanzato l’ipotesi che l’organizzazione di queste migrazioni da parte dello Stato fu una sorta di laboratorio per il successivo impegno pubblico nel campo della mobilità territoriale . Questa proposta, insieme a un’altra formulata dallo stesso Ermacora sul ruolo di apripista che ebbero nel corso della Grande guerra le migrazioni dei profughi dal Friuli al Triangolo industriale , ci riporta alla domanda con cui abbiamo aperto il saggio: il rimescolamento migratorio legato alla Prima guerra mondiale, comportò dei cambiamenti di lungo corso o fu invece un fenomeno che rimase isolato agli anni bellici? In altri termini, una volta accertata la complessità del grande caleidoscopio della mobilità territoriale bellica, possiamo cercare di distinguere il mutamento accidentale da quello strutturale? Ci auguriamo che le suggestioni contenute in questo saggio – espresse più in forma interrogativa che assertiva – possano contribuire a un avanzamento nella ricerca, da condursi con puntuali verifiche documentarie.