Negli ultimi anni uno dei filoni più fertili degli studi etnici riguardanti gli Stati Uniti è stato l’analisi del whitening, cioè l’identificazione dei tempi e delle dinamiche dell’acquisizione di un’identità razziale bianca da parte dei membri delle minoranze europee di ascendenza non anglosassone. Questo processo viene generalmente considerato come un passaggio significativo per l’accettazione di tali gruppi nella società statunitense e, quindi, come un momento fondamentale per l’assimilazione. In questo ambito, una particolare attenzione è stata conferita all’esperienza degli immigrati italiani. Nel loro caso, almeno nella prima fase degli arrivi di massa nelle ultime due decadi dell’Ottocento, fu spesso messa in discussione la loro piena appartenenza alla razza bianca a causa del colore olivastro della pelle di molti di coloro che provenivano dal Meridione e per le presunte contaminazioni che la popolazione italiana avrebbe avuto dal contatto con gli africani nel corso dei secoli. In un secondo momento, invece, gli italo-americani riuscirono a superare l’ostracismo iniziale e a inserirsi nella nazione d’adozione, ottenendo il riconoscimento delle loro caratteristiche caucasiche, perché i discendenti degli immigrati si prestarono a condividere i pregiudizi che numerosi statunitensi nutrivano nei confronti degli afro-americani.
Le due monografie che vengono qui recensite affrontano il whitening degli italo-americani con un analogo approccio metodologico, ma in riferimento a due diverse epoche e con differenti prospettive temporali e analitiche. Entrambi gli autori si avvalgono della stampa etnica italo-americana quale fonte privilegiata e pressoché esclusiva per indagare la collocazione razziale e l’autopercezione degli italo-americani. Tuttavia, mentre Peter G. Vellon si sofferma specificamente i decenni dei flussi di massa dall’Italia tra il 1886 (quando a Vicksburg, in Mississippi, ebbe luogo il primo linciaggio di un immigrato italiano) e il 1920 (l’anno precedente all’entrata in vigore delle disposizioni restrizioniste), facendo seguire la sua indagine su questo periodo da una sintetica ricognizione dei successivi sviluppi fino al termine del Novecento, Eddy Menichelli si concentra esclusivamente sugli anni tra il 1961 e il 1965, il periodo che vide il repentino decollo delle rivendicazioni del movimento per i diritti degli afro-americani e il crollo del precedente regime di segregazione razziale negli Stati del Sud. Inoltre, se Vellon prende in considerazione numerose testate pubblicate non solo dai prominenti della comunità newyorkese ma anche da gruppi politici radicali di orientamento tendenzialmente anarchico del vicino New Jersey, Menichelli si limita allo spoglio del più diffuso e autorevole quotidiano in lingua italiana del tempo, “Il Progresso Italo-Americano” di New York, che fino dalla sua fondazione a opera di Carlo Barsotti nel 1880 si era segnalato per essere l’organo per antonomasia del notabilato della Little Italy. Infine, malgrado alcune ingenuità conseguenti alla inadeguata rivisitazione e al frettoloso riadattamento di un lavoro nato come tesi di laurea magistrale, Menichelli rivela un’approfondita conoscenza del dibattito storiografico sulla collocazione razziale degli immigrati italiani. Invece, Vellon, che pure ha ricavato la sua monografia da una dissertazione di dottorato statunitense, mostra una scarsa familiarità con le precedenti ricerche sui giornali italo-americani, quali soprattutto i lavori di Pietro Russo e i numerosi studi più recenti di Bénédicte Deschamps, e ignora la produzione storiografica italiana sui linciaggi, come la monografia di Patrizia Salvetti (Corda e sapone. Storie di linciaggi degli italiani negli Stati Uniti, Roma, Donzelli, 2003).
Il volume di Vellon ricostruisce come la stampa etnica avesse elaborato un’immagine della “bianchezza” degli immigrati italiani per legittimarne la presenza nella società statunitense in risposta soprattutto ai linciaggi. Tali manifestazioni di giustizia sommaria, oltre a provocare la morte di almeno quarantasei italiani tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, dimostravano la difficoltà di collocare questa minoranza nazionale tra i gruppi caucasici. I linciaggi, infatti, costituivano punizioni extralegali che erano riservate principalmente agli afro-americani. In un primo momento, i giornali italo-americani rivendicarono la whiteness degli italiani in nome di una loro civiltà nazionale che veniva fatta risalire addirittura all’epoca della Roma classica ed era presentata come più elevata dell’American civilization poiché quest’ultima non riusciva a scongiurare forme cruente di giustizia popolare. I periodici etnici poterono così solidarizzare con le vittime afro-americane dei linciaggi, colpite al pari degli immigrati italiani dalla barbarie della violenza di massa, e concepirono una gerarchia razziale più complessa e articolata della mera contrapposizione tra bianchi superiori e neri inferiori che predominava invece nella società statunitense. Per esempio, se tali testate collocarono gli autoctoni americani nel novero dei selvaggi, cercarono anche di rivalutare la civiltà di altri popoli “di colore”, quali i cinesi e giapponesi, in parte perché anch’essi, al pari degli italiani, erano minacciati dai provvedimenti restrittivi sull’immigrazione.
Tuttavia, di fronte alla crescente polarizzazione della società statunitense tra popolazione caucasica e individui non bianchi, che non lasciava adito a posizioni intermedie, le testate italo-americane finirono per adattarsi alla lettura dicotomica della razza diffusa nel Paese d’adozione, presero le distanze da tutte le minoranze “di colore” e introiettarono i pregiudizi dell’establishment nei confronti degli afro-americani. Secondo Vellon, questa trasformazione sarebbe maturata alla fine del primo decennio del Novecento e avrebbe visto gli italo-americani solidamente schierati dalla parte dei bianchi in alcuni tumulti razziali scoppiati durante la prima guerra mondiale. In tal modo, Vellon non solo attesta una strettissima connessione tra razza e colore, ridimensionando la distinzione tra le due categorie che Thomas A. Guglielmo (White on Arrival. Italian, Race, Color, and Power in Chicago, 1890-1945, New York, Oxford University Press, 2003) aveva tracciato, per sostenere che la “bianchezza” degli italo-americani non sarebbe mai stata messa in dubbio. Anticipa anche i tempi del whitening, e dunque dell’americanizzazione, degli immigrati italiani, che parte della storiografia precedente ha invece collocato nel contesto delle ripercussioni della guerra d’Etiopia sui loro rapporti con gli afro-americani, se non ancora più tardi negli anni del secondo conflitto mondiale.
Per quanto affascinante, l’ipotesi di Vellon non tiene conto di esperienze alternative a quella di New York e del New Jersey. In California gli italo-americani si batterono per sbarrare le porte degli Stati Uniti agli asiatici sin dalla fine dell’Ottocento, quando – soprattutto in Stati del Sud come la Louisiana – i siciliani avevano già compreso che, se avessero voluto sottrarsi ai linciaggi, avrebbero dovuto rescindere qualsiasi rapporto con gli afro-americani (Bénédicte Deschamps, Italian Americans and the Chinese Exclusion Act, in Small Towns, Big Cit-ies: The Urban Experience of Italian Americans, a cura di Dennis Barone, New York, American Italian Historical Association, 2010, pp. 132-45). Inoltre, a San Francisco, gli italiani originari del Settentrione enfatizzarono a lungo la loro contrapposizione con i meridionali e presentarono la comunità locale come una “colonia modello”, radicalmente diversa dalle Little Italies della costa orientale abitate in prevalenza da immigrati del Sud [Tommaso Caiazza, “No Mafia Here”: Crime, Race and the Narrative of San Francisco’s Italian American “Model Colony”, “Italian American Review” 6, 1 (2016), pp. 31-53], smentendo la teoria di Vellon secondo cui la nozione di “civiltà italiana” avrebbe consentito di elaborare un’identità nazionale che superava le contrapposizioni regionali già alla fine dell’Ottocento. Infine, la pretesa di affrontare tematiche così complesse in appena 172 pagine è a dir poco velleitaria in quanto costringe l’autore a un tour de force contraddistinto da numerose omissioni. Non ultima e non poco sorprendente è l’esclusione dalla trattazione degli scontri razziali che contrassegnarono il secondo conflitto mondiale, quando proprio la partecipazione degli italo-americani all’assalto di Harlem a New York e di altri ghetti neri segnò di fatto il riconoscimento della loro identità bianca [“There were riots in Harlem in ‘43. I remember standing on a corner, a guy would throw the door open and say, ‘Come on down’. They were goin’ to Harlem to get in the riot. They’d say, ‘Let’s beat up some niggers’. It was wonderful. It was new. The Italo-Americans stopped being Italo and started becoming Americans” (Studs Terkel, “The Good War”. An Oral History of World War II, New York, Pantheon, 1984, pp. 14-42)].
Menichelli approfondisce proprio uno dei tasselli trascurati da Vellon nell’ultimo capitolo di A Great Conspiracy against Our Race. Attraverso un’accurata lettura degli editoriali e degli articoli di cronaca del più influente giornale in lingua italiana di New York, indaga l’atteggiamento degli italo-americani nei confronti delle rivendicazioni degli afro-americani nel corso della prima metà degli anni Sessanta del Novecento. Il suo studio si basa su un presupposto ragionevole e condivisibile, cioè che la posizione del “Progresso Italo-Americano” fosse rappresentativa di quella della comunità etnica alla quale si rivolgeva. Tale congettura, però, sarebbe uscita ulteriormente rafforzata se Menichelli avesse prestato maggiore attenzione al contenuto delle lettere inviate dai lettori al quotidiano (ne sono citate appena due).
In ogni caso, Menichelli documenta una significativa discrasia nel modo in cui gli italo-americani si rapportarono alla questione razziale nel corso della grande stagione del movimento per i diritti civili e politici dei neri. Dopo un complessivo disinteresse per tali campagne all’inizio del decennio, attestato dalla scarsissima copertura di queste vicende nelle pagine del quotidiano, le violenze di cui furono vittime i manifestanti afro-americani nonviolenti a Birmingham in Alabama nel 1963 e la successiva marcia a Washington guidata da Martin Luther King Jr. segnarono una svolta che vide una sostanziale denuncia della discriminazione razziale da parte del “Progresso Italo-Americano” e l’emergere di una sua più generale solidarietà verso le richieste dei neri che culminò nell’aperto sostegno all’approvazione del Civil Rights Act del 1964 e del Voting Rights Act dell’anno successivo. L’empatia, però, lasciò molto rapidamente il posto all’ostilità in risposta alle rivolte urbane innescate dalla componente più radicale e violenta del movimento afro-americano a partire dai disordini scoppiati a New York e a Rochester nel 1964 e soprattutto nel ghetto di Watts, a Los Angeles, nell’agosto del 1965. Pertanto, lo studio di Menichelli attesta come gli italo-americani fossero più che disposti ad accettare la parità dei diritti tra statunitensi bianchi e neri e come la loro avversione agli afro-americani fosse insorta soltanto in un momento successivo, soprattutto in reazione al fatto di sentirsi minacciati nella propria incolumità personale dall’esplosione delle insurrezioni nei ghetti alla metà degli anni Sessanta. In questa prospettiva, sarebbe stato utile e meritorio se Menichelli, anziché arrestarsi al 1965, avesse portato la sua ricerca avanti nel tempo per valutare l’impatto di programmi per affrettare i tempi dell’integrazione razziale, come l’affirmative action e il busing, che alcune minoranze etniche di ascendenza europea considerarono come forme di discriminazione alla rovescia dei bianchi.
Nondimeno, nonostante alcuni limiti, entrambi i volumi attestano l’interesse storiografico per l’identità razziale degli italo-americani e per la sua elaborazione attraverso il confronto degli immigrati e dei loro discendenti con gli afro-americani.