TRA EMIGRAZIONE POLITICA ED ECONOMICA: LA COMUNITÀ ITALIANA A LISBONA TRA SETTE E OTTOCENTO

La storia dell’emigrazione italiana verso la penisola iberica in età moderna e contemporanea costituisce un case study che la recente storiografia di settore ha preso di nuovo in riferimento. Nonostante ciò, è comunque necessario fare dei distinguo sia per quanto riguarda le aree geopolitiche che compongono quello spazio euro-mediterraneo, sia i filoni di ricerca che hanno permesso di recuperare la memoria di una mobilità tra le due penisole, determinata da ragioni molteplici.
Il caso spagnolo – assolutamente prevalente tanto in passato quanto negli studi pubblicati nell’ultimo quinquennio – ha sortito la sua eco più recente nel contributo che Luca Carboni ha pre-sentato nel numero 12 (2016) di questa rivista , rilanciando l’attenzione sull’archivio di un’antica istituzione italiana presso la Corte di Spagna, depositaria di materiale prezioso e utile alla ricostruzione della comunità italiana a Madrid tra le metà del Cinquecento e quella dell’Ottocento. Egualmente, non vi è dubbio che il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia abbia contribuito a rilanciare in maniera sostanziale il filone politico. Vari sono stati gli studi che hanno rimesso in gioco l’idea stessa di formazione della coscienza nazionale tra le élites (più e meno ampie) che furono protagoniste del processo risorgimentale, geolocalizzando tale processo al di fuori dei confini naturali della patria a venire. Diversi sono stati gli approcci: da quello di stampo prosopografico di Agostino Bistarelli (con una valenza tassonomica utile a dare un’idea del numero degli espatriati liberali del 1821) all’analisi filosofico-politica di Maurizio Isabella , capace di scandagliare il divenire ideologico dell’esilio italiano.
Ma anche questi due studi – i più importanti apparsi nel frangente temporale di quella ricorrenza – hanno privilegiato il caso spagnolo, lasciando scoperto quello portoghese. Su quest’ultimo sono intervenute due ottime tesi di dottorato, realizzate in accademie italiane e francesi (ma con un rigoroso lavoro di fonti in terra lusitana), che hanno inquadrato in maniera più definita la questione relativa all’emigrazione politica risorgimentale nel paese più a occidente d’Europa. Il riferimento è ai lavori di Francesca di Giuseppe e Grégoire Bron , che hanno costituito l’impianto storiografico sul quale a sua volta chi scrive ha strutturato la propria ricerca di dottorato, sovrapponendo la dimensione dell’emigrazione politica a quella di carattere socioeconomico. L’ipotesi di partenza di quest’ultimo lavoro, discusso in tempi recenti , faceva riferimento alla possibilità di delineare la realtà d’emigrazione nella quale andava a inserirsi l’esilio politico: uno degli interrogativi di fondo scaturiva dalla necessità di rilevare l’esistenza di comunità di italiani in suolo portoghese preesistenti all’avvio del processo risorgimentale, per verificare quale fosse stato il grado di interazione tra esse e quegli emigrati politici che lì si erano recati dopo il 1821. Appariva infatti plausibile che chi giungesse in una terra straniera e sconosciuta ricercasse, quantomeno in prima istanza, un contatto con chi parlava la sua stessa lingua, o condivideva la stessa provenienza geografica. La memorialistica risorgimentale, nel suo complesso, è intrisa di riferimenti più e meno espliciti agli italiani “all’estero”. Nel caso in questione, quella relativa agli esuli in terra portoghese è stata utile a fornire ulteriori imput nella definizione del quadro analitico e metodologico (l’impianto prosopografico è servito a superare proprio il limite di quasi tutte quelle esperienze letterarie, che si limitavano a rappresentare singoli casi biografici, senza fare – per dirla alla portoghese – “do singular, plural”).
È superfluo sottolineare che lo studio della presenza di italiani in Portogallo non è iniziativa degli studi succitati, ma deve ascriversi a una storiografia già datata. Pensiamo ai lavori del padre camelitano Prospero Peragallo, risalenti agli inizi del Novecento ; e a quelli più vicini nel tempo di Virginia Rau (senza dimenticare l’interesse di altri studiosi, come Carmen Radulet ). In tempi più recenti, gli studi di Nunziatella Alessandrini hanno evidenziato gli stretti rapporti tra il Regno del Portogallo e la penisola italiana in epoca tardo-medievale e rinascimentale, riscattando dagli archivi segni di una presenza italiana, notevole e influente, a Lisbona e nei territori della corona. Nel 2013, padre Sergio Filippi di Nostra Signora di Loreto (la cosiddetta “chiesa degli Italiani”) ha posto ulteriori punti fermi sull’identificazione della comunità nella capitale, gravitante attorno a quella istituzione religiosa . Ma lo studio di questa presenza tende a affievolirsi per quanto riguarda la seconda metà del Settecento, eccezion fatta per gli studi (prevalentemente in lingua portoghese) sulla storia del teatro e della musica in quel periodo . I risultati della ricerca hanno dunque restituito una dimensione tanto sorprendente quanto immaginabile: la presenza italiana nella capitale e in altre parti dei possedimenti si mantiene costante ove non cresce, e gli esuli liberali che a partire dal 1821 si recano nel paese lusitano incontrano comunità organizzate e strutturate nel tessuto socioeconomico portoghese, con ruoli non secondari in vari settori, come quello commerciale.
A metà degli anni venti dell’Ottocento nella capitale lusitana sono censiti 340 italiani residenti, provenienti da tutte le principali realtà peninsulari (234 dal regno di Sardegna, 51 dal regno delle Due Sicilie, 34 dallo Stato della Chiesa e sue legazioni, 21 dal Granducato di Toscana) . Si tratta di un numero assolutamente sottostimato, dal momento che non comprende tutta una serie variabili che son state escluse in fase di ricerca. A tal proposito è necessario premettere che nello studio del caso è insito un gap ab origine, dettato dall’interdizione ai ricercatori dell’archivio della chiesa di Nostra Signora di Loreto. Circostanza che penalizza chi lavora a ricostruire la presenza italiana in città in epoche più recenti. È un dato di fatto che non si può trascurare e che ci si augura venga capovolto, permettendo a tutti di accedere a un fondo documentale strategico per il presente campo di studio.
Nel dato indicato in precedenza, mancano tutti gli italiani di origine lombardo-veneta, che all’epoca si trovavano sotto giurisdizione austriaca e non venivano considerati come “italiani” dalle autorità portoghesi. Non erano poi registrati i membri del clero, molto numerosi in città (si pensi, per esempio, al folto numero di frati cappuccini che integravano la congregazione dei Barbadinhos Italianos), e dunque il numero dei “romani” è da considerarsi al netto di queste presenze. Siccome la rilevazione degli stranieri residenti in città era effettuata dalle autorità di polizia, mediante l’ausilio dei consolati e legazioni estere che provvedevano alla compilazione di elenchi di residenti (queste autorità denunciavano sovente non poche difficoltà nella raccolta delle informazioni ), negli archivi di riferimento poche sono le tracce di coloro che provenivano dai piccoli ducati dell’Italia centrale, privi di rappresentanza diplomatica in Portogallo (si annoverano gruppi di artigiani emigranti, come i figurinai lucchesi). Infine, si consideri che il registro degli stranieri obbligava solamente i membri di sesso maschile a effettuare il registro. Dunque, nel caso di nuclei familiari di origine italiana, erano solamente i capifamiglia ad avere l’obbligo di presentarsi presso l’Intendenza di Polizia per dichia-rare origine e luogo di residenza in città.
Alla luce di quanto rappresentato, dunque, il numero degli italiani effettivamente residenti a Lisbona in quella decade va considerato superiore a quello accertato in fase di analisi documentale, dal momento che nel calcolo complessivo andrebbe considerata una certa quantità di fuochi (di composizione variabile). Il numero è destinato a crescere se all’interno di questo gruppo sociale si fanno rientrare sia coloro che avevano già ottenuto lo status di sudditi della corona portoghese (in particolar modo, i commercianti, che per poter esercitare le loro attività erano obbligati a richiedere la “naturalização”), sia coloro che erano discendenti di italiani (di prima o seconda generazione) e che, seppure sudditi della corona di Portogallo, godevano dei privilegi accordati alle “nações estangeiras” (come quello di ricadere sotto la giurisdizione di un giudice speciale, il juiz conservador da Nação italiana) se all’atto del battesimo venivano registrati negli elenchi parrocchiali della chiesa di Nostra Signora di Loreto (questo valeva anche per quelli nati fuori Lisbona). Questi ultimi appartenevano a una dimensione meticcia che si può definire della luso-italianità , e che è riscontrabile ancora oggi nella società portoghese mediante i numerosi cognomi di origine italiana, conservatisi intatti nella trascrizione (ex. Bottino, Ferrari, Sassetti), parzialmente corrotti (Espínola, Honorato, Júdice, Marrare) o definitivamente trasposti (ex. Carducho [Carducci], Geraldes [Giraldi], Paquette [Paghetti]) . La sedimentazione dei cognomi italiani nell’antroponimia portoghese è la più diretta testimonianza del lungo percorso di fusione tra queste due culture peninsulari, che come detto ha le sue radici nell’epoca medievale e che il letterato José Leite de Vasconcelos aveva già provato ad abbozzare in un suo (poco celebre) studio della prima metà del Novecento.
Alla luce di quanto detto si può dunque ipotizzare che, all’inizio del terzo decennio dell’Ottocento – in concomitanza con l’avvio della diaspora liberale – a Lisbona risiedessero in pianta più o meno stabile più di mille italiani. Ad ogni modo, la città che accoglie quel segmento di emigrazione risorgimentale costituisce uno spazio urbano dove la diffusione di cognomi di origine italiana è circostanza abbastanza diffusa. I loro portatori sono rappresentazione attiva di una emigrazione che affonda le sue radici in generazioni più e meno lontane nel tempo, ma che vede irrobustire la comunità soprattutto nel corso del Settecento, dove più evidenti sono i tratti di una mobilità di carattere socioeconomico. Già in quel periodo gli italiani in Portogallo – e in particolare nella sua capitale – costituiscono un gruppo popolazionale ampiamente riconosciuto in quanto tale (os Italianos) dalla società di accoglienza e dotato di una propria vitalità sociale ed economica.
Gli italiani in città agli inizi degli anni venti erano impegnati prevalentemente in attività commerciali (36, 87%; nel 1824 si contano 40 attività commerciali in mano a italiani in centro città ), nel campo della ristorazione (12, 81%) mediante la gestione di cafés, botequinhos, casas de pasto o nella conduzione di confetterie e piccoli pastifici (aletreiros) e in quello delle arti e spettacolo (scenografi, stuccatori, italiatori, musicisti, cantanti etc., pari al 12, 50 dell’intero gruppo) . I restanti erano distribuiti su settori molto vari, dall’artigianato (ramai, calzolai, orafi, etc.) al lavoro domestico (cuochi, servitori) alle mansioni più umili (carrettieri, facchini). Nel gruppo più numeroso, quello dei sardos (in prevalenza genovesi), gli impiegati nel settore commerciale costituivano la componente più importante; mentre tra i napoletani prevalevano le mansioni di carattere artigiano, e comunque più umili (come quella dei catreiros, i rematori dei gozzi che facevano la spola tra una riva e l’altra del Tago). Per quanto riguarda invece la loro distribuzione nello spazio cittadino, essa risulta abbastanza diffusa, con le principali concentrazioni di italiani nei quartieri (freguesias) di Encarnação (area compresa tra il Bairro Alto e l’odierno Chiado, con il 18, 83% di residenti), São Paulo (14, 61%, area limitrofa ai moli del Cais do Sodré) e Mártires (11, 68%, area mediana tra lo Chiado e la Baixa pombalina).
Procediamo dunque a ritroso. A conferma del dato stimato in precedenza interviene quello indicato alcuni anni fa dalla storica della demografia Teresa Rodgrigues, che indicava in 882 il numero degli italiani residenti a Lisbona agli inizi del secolo . Il dato fornito era elaborato a partire dallo studio dei documenti dell’Arquivo Histórico Parlamentar da Assembleia da República (in particolar modo della comissão estatística) e faceva riferimento a un censimento della popolazione del 1802-1803. Questo dato conferma la possibile stima fatta per il periodo 1823-1826 ed elaborata a partire dai registri della Intendência Geral da Polícia, che per il ruolo assurto da questa istituzione nel periodo di riferimento si rivelano fonti molto utili e attendibili per un calcolo approssimativo degli italiani presenti in città (in assenza dei documenti dell’archivio del Loreto). A tale dato se ne può affiancare un altro egualmente significativo, quello degli ingressi frontalieri, ove nel biennio 1820-1821 vengono registrati più di cento italianos , tra i quali molti calderai e stagnini meridionali (altro caso di studio sviluppato negli ultimi anni) , a conferma di una migrazione di mestiere stagionale che conduceva nella penisola iberica abili artigiani del rame, in gran parte lucani.
Si valuti, inoltre, un importante dato economico, che attesta come tra le due realtà peninsulari intercorresse un rilevante scambio di merci e beni: nel passaggio da un secolo all’altro, infatti, gli scambi commerciali tra il regno del Portogallo e le varie entità statali della penisola italiana si attestano su valori sensibili, con la bilancia commerciale pendente sul piatto dei porti atlantici: infatti tra il 1796 e il 1807 il Portogallo esporta in Italia, in valori assoluti, merci per 34.325.449, 906 Rs. (Réis, la moneta corrente dell’epoca) a fronte di importazioni complessive pari a 15.975.526, 668 Rs. La data del 1807 è significativa, in quanto indica il distaccamento formale della colonia brasiliana dalla metrópole europea, a seguito della prima invasione francese del territorio portoghese e della conseguente fuga della corte reale a Rio de Janeiro. I produtos coloniais (soprattutto cotone e legno del Brasile) costituiscono una voce predominante nelle esportazioni verso la penisola italiana (che ritorneranno a livelli costanti dopo il 1815), e costituivano merce di intermediatori italiani a Lisbona trattavano con gli importatori della madrepatria. Dalla penisola italiana si importava prevalentemente grano e prodotti derivati, quali la pasta (massas alimentícias), capace di scatenare un’accesa questione protezionista durante il governo del triennio liberale .
Come anticipato in precedenza, questa presenza commerciale affonda le sue radici in epoche precedenti; ma nel corso del Settecento, e in particolare nella seconda metà del secolo, mutano la connotazione socioeconomica dell’emigrazione italiana in Portogallo. Si supera, sostanzialmente, la predominante importazione di uomini detentori di capitali e figure legate all’ambito finanziario-commerciale, che avevano facilitato l’installazione tanto nella capitale come nel resto del territorio nazionale (si pensi alla regione dell’Algarve) di prospere colonie (o “nazioni”) di mercanti italiani, capaci di allestire floridi empori. Di conseguenza, in quell’epoca il processo migratorio allarga il suo flusso tanto da inquadrare gli italiani in tutti i libelli dell’economia sociale, con funzioni diversificate. In particolare, la seconda metà del Settecento si delinea come fase di affermazione di una emigrazione più legata al mondo della cultura: arte e scienza sono gli ambiti più vitali, nei quali si contribuisce a quella italianização della cultura portoghese che sarà determinante nell’acquisizione e riconoscimento definitivo dell’elemento dell’italianità all’interno della società lusitana. Una dinamica già chiaramente in nuce all’ambiente di accoglienza, come testimoniato da un episodio che ha luogo nel 1729, in occasione della visita in città dell’infanta Maria Bárbara, principessa del Brasile e figlia di Don Giovanni V. In queste circostanze era usanza delle nações estrangeiras erigere degli archi trionfali (temporanei) come pratica di omaggio e celebrazione, mediante contribuzione pecuniaria da parte delle varie componenti in esse integrate. A fronte del rifiuto del gruppo dei fiorentini (storicamente il più riluttante all’unione con il resto della comunità italiana) di partecipare all’allestimento dell’arco della nação italiana (da erigersi nei pressi della chiesa del Loreto) , è significativa la rimostranza avanzata dal console genovese (rappresentante della componente più folta della comunità), che ricordava al giudice chiamato a dirimere il contenzioso come “[…] os florentinos são italianos, e o ducado de Florença está em o centro de Itália, entre o estado de Genova e Roma, e sempre foram reputados para Italianos, e, como taes, gozam dos privilegios concedidos à nação italiana e respondem nas suas causas perante o conservador da dita nação” . Posizione accoltà dalle autorità portoghesi, che obbligano i fiorentini a contribuire alla costruzione dell’arco della nazione italiana che, da quello che traspare dalle cronache coeve, diede del suo meglio nel largo del Loreto.
In conclusione, non resta che evidenziare come lo studio dell’evoluzione della comunità italiana in Portogallo – e, particolarmente, nella sua capitale – dalla metà del Settecento secolo in poi da un lato ha svelato una presenza assolutamente rilevante, capace di rilanciare sotto nuova luce il valore delle relazioni lusoitaliane a partire da quell’epoca (con importante riverbero sul periodo risorgimentale); dall’altro, lascia ancora intravedere significative ipotesi di lavoro, che possono condurre al recupero definitivo di una importante memoria italiana su quelle sponde atlantiche.