Gli scaldini di Parigi

Giuseppe (Joseph) Boccaci chiamato Jojo, forse l’ultimo scaldino di Parigi (intervistato nel 2015 da Bruna Basini per Le Journal du Dimanche, nov. 2015, foto di Julien De Fontanay); è stato uno dei “testimoni privilegiati” che hanno raccontato a Catani buona parte della storia degli scaldini e in particolare di due famiglie, i Bo. e i Ba., che avevano come soprannome i “belli” (beaux) e i “croccanti” (croquants). Di queste Catani ha ricostruito l’albero genealogico che comincia per una con Ludovico Ba, nato nel 1840, e Margherita, nata nel 1850. Due famiglie che hanno sperimentato prima l’emigrazione a Londra e poi quella a Parigi dove diventano scaldini.

Prima versione pubblicata in francese nella rivista Terrain, n° 7 ottobre 1986: http://terrain.revues.org/document2907.html

Premessa

(di S. Palidda)

Nel corso di una ricerca sugli emigrati dell’Emilia-Romagna in Francia, nel 1983, realizzata grazie a Bruno Bracci allora responsabile dell’Istituto Santi-Francia, abbiamo scoperto una particolare categoria di immigrati a Parigi: gli scaldini[1]. Dopo, nel 1985, il progetto di Catani su “Les Scaldini de Paris” fu finanziato dal Ministero della Cultura francese e nel 1986 ne fu consegnato il rapporto (Catani (1986) Les Scaldini de Paris: un métier transmis de génération en génération depuis la Première Guerre mondiale, Paris, Ministère de la Culture et du Patrimoine, 145 p.). Rispetto al testo originale ho qui introdotto o aggiunto alcune precisazioni/aggiunte derivanti da mie ricerche successive ancora nel 2016 (durante un sabbatico) e anche alcune foto che ho potuto trovare nel 2016; purtroppo, quando fu realizzata questa ricerca, nel 1985, non si disponeva di macchine fotografiche digitali e di video-camera e negli archivi di Parigi non si trovava nulla su scaldini e caldaie. Per meglio apprezzare questo saggio si legga anche: Catani, antropologo-etnografo dell’emigrazione-immigrazione (con annotazioni su similitudini e differenze rispetto a Sayad), ASEI, 2019: https://www.academia.edu/38558751/Catani_antropologo-etnografo_dellemigrazione-immigrazione_con_annotazioni_su_similitudini_e_differenze_rispetto_a_Sayad

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Il nome “scaldini”, forgiato da loro stessi, viene da scaldare per riscaldarsi. Provenienti da alcuni comuni dell’Appennino parmense e piacentino, per almeno tre generazioni, gli scaldini hanno fatto funzionare le caldaie a carbone che a Parigi riscaldavano condomini privati, edifici pubblici quali ministeri, sedi comunali, scuole, ospedali, case popolari, metrò, alcune aziende e le chiese. Il caso di Notre-Dame, che vedremo in seguito, è esemplare. Per oltre un secolo scaldini italiani e in parte anche montanari francesi e nordafricani hanno scaldato Parigi ma ciò non è mai stato riconosciuto e nella storia nota della città.

La professione nacque negli ultimi anni del XIX sec. con lo sviluppo industriale e la produzione di energia bruciando carbone estratto allora in gigantesche quantità nelle miniere del nord e dell’est della Francia spesso da minatori italiani e di altre nazionalità. Le caldaie furono appunto una creazione essenziale di questo periodo di grande sviluppo economico al pari del motore a scoppio e altri macchinari. Ma, la categoria socio-professionale degli scaldini (la cui “traduzione” francese è chauffeurs de chaudières à chabon (ossia conduttori di caldaie a carbone, sui treni i fuochisti) non è mai stata riconosciuta né dall’amministrazione pubblica, né dai sindacati. Ne vedremo dopo il perché. Di fatto gli scaldini sono scomparsi senza aver conosciuto una definizione amministrativa, un contratto di lavoro ecc. Gli strilloni dei vari mestieri allora ambulanti (les cris de Paris -le grida di Parigi[2]– erano conosciuti sin dal Medioevo anche attraverso le immagini incise di spazzacamini, vetrai, arrotini, venditori di legna da ardere, terriccio, carbone, limonata, ecc. I conduttori di caldaie, invece, non hanno avuto alcuna iconografia, per esempio neanche nelle fotografie di Atget; le loro vite non sono state descritte nel celebre Tableau de Paris di S. Mercier[3]. Da notare che anche tanti spazzacamini erano di origini italiane (cfr. S. Ceccomori, Les Ramoneurs ‘lombards’ à Paris. Histoire d’une émigration séculaire, L’Harmattan, 2017, Paris e qui: https://altritaliani.net/spazzacamini-italiani-in-francia-storia-di-unemigrazione-secolare/).

Va ricordato che il riscaldamento centralizzato negli edifici / condomini privati e negli edifici pubblici è un fatto economico sociale e culturale relativamente recente, cioè dopo la fine del XIX. Prima ci si scaldava con i camini (legna) o con stufe a carbone poi anche a gas o a kerosene. Gli auvergnats o bougnats che vendevano legna e carbone fornivano appunto i privati come gli edifici pubblici. Solo dalla fine del XIX cominciano ad essere installate le grandi caldaie che in certi casi assorbono tonnellate di carbone al giorno. Ancora negli anni Ottanta in pieno centro di Parigi anche in appartamenti siti in edifici borghesi non c’era riscaldamento, né stanza da bagno e questo persino in abitazioni di insegnanti con due bambini (mia personale verifica).

Lo scaldino era un migrante come i savoiardi o gli alvernati (auvergnats); quelli che alla fine del XX sec. sarebbero diventati scaldini prima scavavano le gallerie per il metrò, opera che in tutte le grandi città del mondo durò ancora decenni (anche dopo la prima e la seconda g.m. e ancora oggi); la concezione di questa nuova professione diventò di per sé una novità. Era parte della frammentazione delle mansioni all’interno della società industriale e in particolare della grande metropoli che si sviluppa con essa. Non si tratta più delle attività di commercio itinerante, in senso lato, come quelle dei suoi predecessori quando il riscaldamento e la pulizia dei camini erano solo individuali. Così, strappato dalla strada e dalle sue grida, il “servitore” della caldaia – piccola ruota dentata di macchinari industriali – rimase letteralmente sottoterra sia fisicamente che simbolicamente. Ciò ha portato alla sua apparente inesistenza dal punto di vista storico, tanto che questa professione la scopriamo solo attraverso l’approccio biografico orale all’intero della migrazione di una regione. Lo stesso si potrebbe dire in parte per gli auvergnats, invece ben noti a Parigi perché dopo i cafés-charbon-limonade, negli anni Ottanta diventarono padroni di grandi brasseries, influenti sull’amministrazione comunale parigina e persino più in alto poiché ebbero anche un presidente della Repubblica originario d’Auvergne.

La professione era stagionale: lo scaldino “riscalda” per sei o sette mesi all’anno, a seconda della “freddolosità” e del reddito dei proprietari o degli inquilini, riempiendo di carbone due volte al giorno le caldaie di un certo numero di edifici. Al mattino presto, deve anche svuotare la caldaia dalle ceneri e fare attenzione, durante la stagione e alla fine, alla manutenzione ordinaria di questa macchina a volte gigantesca, temibilissima, ma anche fonte della sua esistenza e del reddito per la sua famiglia. Lo scaldino è un uomo di fiducia: ha accesso agli scantinati dei palazzi e anche per questo è quasi sicuro di ritrovare il suo lavoro ogni anno. In estate, come da sempre, può tornare a casa per partecipare a lavori agro-pastorali e, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, per restare a riparare o installare caldaie.

Per l’amministratore di ogni edificio lo scaldino è l’unico responsabile dalla caldaia. Poiché la remunerazione forfettaria era relativamente bassa (per caldaie piccole), lo scaldino era obbligato a “crearsi un giro”, occupandosi di diverse caldaie, rimanendo, se possibile, nello stesso quartiere in modo da spostarsi rapidamente nel maggior numero di scantinati. Anche prima del 1914, e più sistematicamente tra le due guerre, tutti gli scaldini cercarono di avere un impiego “fisso” come installatore-riparatore che gestisce anche le caldaie e uno come dipendente di un venditore di carbone, l’auvergnat (detto anche bougnats). Allo stesso tempo, attraverso i bougnats e con l’aiuto dei compaesani già stabilizzati a Parigi, hanno cercato di crearsi il giro personale di caldaie da accudire.

Gli auvergnats (alvernati) cominciano a immigrare a Parigi nel XIV sec. Dopo essere stati portatori d’acqua, soprattutto per i bagni pubblici; nel XVII sec. diventano artigiani che recuperano e lavorano i metalli, oppure arrotini, stagnatori di pentole e tegami. Nel XIX sec. passano anche al commercio della legna da ardere e del carbone che portano a domicilio (sono chiamati bougnats), poi anche gestori di piccole taverne e hotel per lavoratori. Infine, nella seconda metà del XX sec. diventano anche gestori di diverse celebri brasseries. Nel XIX sec. gli auvergnats erano la “comunità” immigrata più importante di Parigi. La loro catena migratoria è ancora forte e mantengono una forte coesione: ogni attività si passa da padre a figlio, da zio a nipote e comunque sempre fra auvergnats. Ancora oggi esiste il giornale L’Auvergnat -http://auvergnat.com/- che sino agli anni Ottanta era sempre zeppo di annunci di vendite e cessioni di attività espressamente riservati ad auvergnats. Nel colophon si legge:

“nato sullo zinco parigino il 14 luglio 1882 dal genio di Louis Bonnet, L’Auvergnat de Paris, nel suo 136° anno d’esistenza è il più vecchio settimanale francese ancora in attività. Consacrato a CHR (Cafés, Hôtels, Restaurants) accorda un’attenzione particolare ai flussi economici e sociali tra i territori auvergnats del Massiccio Centrale, Parigi e la sua regione. Ogni settimana, L’Auvergnat de Paris tratta dell’attualità professionale dei CHR: prodotti, distribuzione, vendite e acquisti di commerci. Tratta anche della vita dei proprietari e professionisti del mestiere, attraverso reportage sulle attività -cafés, bars, brasseries, restaurants- e delle biografie degli attori del settore. Anche se la sfera auvergnate illustra lo spirito e la filosofia del titolo, L’Auvergnat de Paris è innanzitutto il giornale di un settore e di una professione, dedicata a tutti gli imprenditori del mestiere siano essi dietro un bancone di bar o brasseria o nella loro impresa”.

L’“epopea” auvergnate li ha quindi portati ad acquisire anche un peso economico, sociale e politico relativamente importante rispetto all’amministrazione locale e poi persino a livello nazionale quando hanno avuto un presidente della Repubblica originario della loro regione.

una vecchia caldaia a Parigi

Due vecchie caldaie in disuso

Negli anni Ottanta, con due giri di dieci caldaie si guadagna abbastanza per far vivere la famiglia, con venti caldaie si metteva da parte un bel po’ di risparmi, con trenta si aveva quasi uno “stipendio da ministro” (detto da un vecchio scaldino). Si noti che negli anni Ottanta uno scaldino con venti caldaie poteva guadagnare tra i venti e i trentamila franchi durante i sei o sette mesi della stagione (il salario operaio medio annuale era di circa 25 mila franchi che quindi lo scaldino guadagnava in 6 mesi); ma questo guadagno doveva però bastare per dodici mesi dell’anno. Già dalla metà degli anni Ottanta quasi tutti i pochi scaldini che restavano ancora attivi erano remunerati mensilmente e gli “indipendenti” si contavano sulle dita di una mano. Ma solo quindici anni fa (anni ’60 e ‘70), un padre doveva essere in grado di prevedere ed eventualmente cercava di trovare un lavoro durante i mesi estivi. Prima della seconda guerra mondiale, invece, la maggior parte degli scaldini tornava a casa per lavorare la terra e badare al bestiame che si allevava. Ancora nel 1983 (periodo della nostra prima ricerca), quelli che trascorrevano due mesi al paese non erano rari: facevano il fieno, aiutavano i loro fratelli o i cugini a rimanere o diventare di nuovo agricoltori. La proprietà era tradizionalmente indivisa, quindi non molti anni fa, i risparmi accumulati all’estero venivano investiti in terra (oggi in appartamenti o imprese). Uno degli effetti di queste lunghi periodi di soggiorno al paese è che finivano per coincidere con le vacanze scolastiche dei bambini. Questo era di grande importanza per le relazioni intergenerazionali; i nonni passavano la stagione estiva nel paesello, nella casa che era stata di diverse generazioni.

Gli scaldini di origine italiana erano la maggioranza nella professione -una volta erano un centinaio, negli anni ’80 una quarantina; ma il mestiere è stato svolto anche da francesi (savoiardi e bretoni), da altri italiani o da immigrati del Nord Africa. Questa varietà di origini -soprattutto nella periferia di Parigi- dava maggiore risalto all’importanza e la durata degli scaldini dei quali qui raccontiamo la storia. Una storia che è in parte simile a quella degli auvergnats, che avevano il quasi monopolio del commercio del carbone all’ingrosso e al dettaglio. Ma non s’è mai visto un matrimonio fra auvergnates e scaldini; scaldini e bougnats sono sempre stati contigui e si sono stimati sino a quando i cafès-charbons sono esistiti (fra una caldaia e l’altra lo scaldino andava à casser la croute chez le bougnat -a fare uno psuntino presso il café-charbon). I due gruppi di emigrati-immigrati valorizzavano allo stesso modo il duro lavoro, la famiglia, la stessa “religione” della solidarietà tra compaesani e addosso la stessa fuliggine del carbone ed anche il gusto per il formaggio, i salumi e cibi di montagna. Perciò i cafès-charbons diventarono una sorta di quartier generale in cui incontrarsi.

Da notare che fra le tante foto d’archivio di auvergnats-bougnats non c’è mai scritto che una parte dei portatori di carbone fossero italiani perché si tratta dell’iconografia franco-francese che in quanto tale era ed è sempre sciovinista (cfr. Palidda 1988)

Gli scaldini cominciarono a venire all’inizio di ogni stagione invernale ancor prima della maggioranza degli altri italiani arrivati soprattutto prima della prima guerra mondiale e subito dopo e ancora a causa del fascismo. Dapprima i bougnats offrirono lavoro solo dopo il loro giro mattutino, quindi per la notte. Il cafés era quindi diventato il luogo di incontro, l’unico in cui non si era rifiutati -nonostante coperti di polvere di carbone- per fare uno spuntino prima di riprendere il giro del pomeriggio e della sera. Lì, gli scaldini si scambiavano le informazioni e si organizzavano per sostituire, gratuitamente, i parenti e compaesani che non potevano fare il loro giro per motivi di salute o altro. Allora non c’era telefono, ma anche quando cominciò ad esserci in ogni café-charbon, il rispetto reciproco è rimasto, cementato dall’apprezzamento che tutti gli italiani e gli auvergnats hanno nel portare dal paese di origine gli alimenti che “sono cose di noi” e rispetto rassicurante della fondamentale unità di opinioni che ogni gruppo di migranti -montanari e fieri di esserlo – trova nell’altro. “Per il riscaldamento, c’erano solo italiani”, dicono alcuni vecchi bougnats.

A volte gli Auvergnats erano anche i padroni di casa degli scaldini; un informatore racconta: (buona parte di questi viveva a La Villette o a Boulogne):

“Gli scaldini che vivevano a Passy avevano una ragione. C’erano edifici ricchi che sono rimasti dall’Exposition del 1900. Per questo è stato costruito tutto il Trocadero: boulevard de la Lucère, lo square Alboni, quello des Eaux, rue des Eaux sino al lungoSenna di Passy. C’erano tre scaldini (incluso mio padre) che vivevano lì nel 1934. Questo perché gli hotel di Passy, edifici superbi, splendidi, belli, avevano quarantotto caloriferi e sedici caldaie. I caloriferi riscaldavano gli edifici, le caldaie erano per l’acqua calda. C’erano quattro scaldini: avevano dodici caloriferi ciascuno e quattro caldaie. Il che faceva alzare queste persone alle due del mattino, quando la torre Eiffel suonava. Si alzavano e facevano i dodici caloriferi e le quattro caldaie. Dopo si lavavano e, verso le cinque del mattino, prendevano la metropolitana e arrivavano al Trocadero, Ségur … Così, facevano il loro (secondo) giro pulito. Poi sono stati condannati a vivere a Passy e abbiamo vissuto (anch’io ho vissuto qui – dopo aver raggiunto mio padre all’età di quattordici anni) in questa casa di auvergnats!”.

Il dopoguerra e l’accordo tra scaldini e bougnats (carbonai)

Il periodo più importante della diffusione del riscaldamento col carbone va dal dopoguerra sino ai primi anni 60. Fu il periodo del boom della “potenza carbonifera” francese (come di altri paesi … il puzzo di carbone nell’aria di tutte le grandi città d’Europa occidentale e orientale era fortissimo e si accompagnava al puzzo di nafta dei camion e bus).

Fu allora che Parigi ebbe il maggior numero di bougnats e soprattutto di grossisti di carbone, così come di spazzacamini e scaldini. Ancora oggi, gli scaldini in pensione parlano con grande considerazione dei mercanti di Gennevilliers tra cui verso il 1955 c’erano alcuni che possedevano centocinquanta camion per le consegne. Subito dopo la seconda guerra mondiale furono questi grossisti che non trovando abbastanza scaldini a Parigi, rinnovarono la tradizione dei savoiardi, ex-spazzacamini, offrendo loro alloggio, vitto e “buona paga”. Ma lo “sviluppo degli sport invernali”, racconta un vecchio scaldino, “li portò a tornare in Savoia” (che diventò una delle zone più ricche grazie ai campi di sci, residenze ecc.).

L’importanza che gli stessi scaldini attribuiscono ai luoghi di origine forse può portare questo nostro informatore a sovrastimare certi fatti, ma è certo che nel 1946 ci furono assunzioni per gli italiani che erano fuggiti da Parigi durante la guerra e che erano pronti a tornare. Lo stesso nostro informatore, che arrivò a Parigi il primo dicembre, iniziò a lavorare presso il suo capo di prima della guerra. Seguendo le orme del proprio padre, non mancò di chiamare i suoi fratelli e cugini. Come segno dell’importanza delle attività in quegli anni, gli informatori descrivono l’andirivieni incessante dei vagoni di carbone che dovevano essere scaricati nei depositi.

Il declino

Il declino del riscaldamento a carbone comincia tra il 1960 e il 1970, ma si compie soprattutto negli anni Ottanta: la Francia sceglie di abbandonare definitivamente il carbone e così si chiudono tutte le miniere da Saint Etienne al Nord Pas de Calais alla Lorena (zona di Farebersviller). Si impone la strategia energetica basata sul nucleare e quindi la produzione di energia elettrica incitando la popolazione a scegliere questa anziché il gas o il kerosene e altri combustibili. Lo sconvolgimento che questa grande trasformazione provoca è immane dal punto di vista economico, sociale e politico. E’ il trionfo della lobby del nucleare che in Francia è schiacciante: nessun altro paese al mondo produce oltre 60% dell’energia con le sue oltre 60 centrali nucleari che implicano sia la corsa all’accaparramento dell’uranio anche per vie illegali, sia l’alto rischio di contaminazioni concerogene.[4]

Ancora giovane e diventato installatore grazie anche al matrimonio endogamico, uno dei nostri informatori, che aveva raggiunto nel 1966 i suoi fratelli già in attività, aveva sentito dire che ci sarebbe stato lavoro come scaldino, ancora solo per due o tre anni. Dopo aver sposato la figlia di un anziano scaldino, nel 1976, lui stesso è diventato datore di lavoro di alcuni scaldini. Sebbene la scomparsa del mestiere sia stata inevitabile a causa del calo d’importanza di tutto ciò che riguarda il carbone e le sue vecchie tecnologie d’impiego, bougnats e scaldini si sono convertiti gradualmente in altre forme di riscaldamento senza rinunciare al vecchio. In numero ridotto, hanno ancora prospettive di lavoro interessanti perché i grossisti e gli installatori gestiscono anche contratti di riscaldamento e impiegano scaldini.

Da notare che di fatto, la modernizzazione del settore é stata alquanto debole tra il ’70 e l’80 e si è accelerata nella prima metà di quest’ultimo decennio. Questa lenta evoluzione sembra essere legata alla difficoltà di modificare le condizioni stesse dell’esercizio del mestiere ereditate dall’inizio del XX. Ci fu una forte resistenza ad abbandonare il riscaldamento a carbone perché la conversione all’elettricità o al gasolio e lo smantellamento delle vecchie e a volte gigantesche caldaie aveva ed ha costi molto alti.

Per gli scaldini, l’invisibilità dell’attività e la specificità delle forniture erano un vantaggio. Il patrimonio abitativo era molto frammentato: la riluttanza dei proprietari ad affrontare le ingenti spese necessarie si unisce alla relativa immobilità di professionisti, bougnats e scaldini, e alla prudenza degli amministratori e gestori degli edifici. Tutti i vecchi rami della nuova professione di ingegneria del clima fanno quadrato.

Durante la loro festa nazionale, in agosto, gli scaldini attivi offrono la medaglia d’oro al più vecchio scaldino in pensione, una parte delle spese di questo incontro è a carico di un bougnat d’Auvergne che anche lui fa il viaggio almeno una volta. Anche nella complementarietà dell’accordo, si vede la differenza tra i due flussi migratori: gli scaldini mantengono l’importanza delle origini e comunicano con i discendenti attraverso una presenza efficace nel villaggio.

I valori della società originale degli scaldini

I comuni di origine della maggior parte degli scaldini sono Bardi e Bedonia, provincia di Parma e Bobbio, Bettola, Ferriere Olmo Farini, Morfasso, Vernasca e Gropparello in provincia di Piacenza[5]. In queste valli scoscese e boscose, questa profusione di luoghi non deve essere fuorviante rispetto al numero di persone interessate: sono solo minuscole frazioni situate tra i 400 e i 900 metri. Centrati su sé stessi e sugli scambi all’interno della stessa parrocchia, questi villaggi sono come la concrezione storica di una lenta crescita demografica. Spesso il loro nome coincide con quello di una famiglia e ci si sposava quasi sempre all’interno della stessa parrocchia (oggi l’endogamia non è del tutto scomparsa4). Gli appezzamenti di terra sono minuscoli e i loro proprietari hanno dovuto cercare un reddito extra dalla metà del secolo scorso per integrare il raccolto di alcuni cereali di montagna che, insieme al maiale, erano fino al 1960 la base dell’alimentazione in tutta la zona. C’erano attività comuni, legate alla fienagione e alla partenza per i pascoli (transumanza), che rinforzavano la competizione, la solidarietà e l’endogamia.

La tradizione vuole che i figli continuino a risiedere nella casa paterna anche dopo il loro matrimonio. La proprietà rimane indivisa fino alla morte o all’età avanzata del capofamiglia. L’obbligo di assistere la generazione precedente era assoluto e ancora oggi non si tratta di eluderlo delegandolo alle istituzioni statali, anche se le pensioni di vecchiaia hanno cambiato l’aspetto materiale delle cose. Quindi, la migrazione non è mai stata vista come una rottura, ma piuttosto come un viaggio integrato nei riti di passaggio. Per quasi un secolo, è stata una componente regolare delle relazioni sociali tra i sessi e le generazioni. La ricerca di risorse esterne è stata una costante, ma l’intero sforzo migratorio ha teso alla conservazione della società montana dei villaggi. Attraverso la regolarità stagionale della professione, lo scaldino rappresenta un caso estremo di questa valorizzazione del sistema di relazioni locali (grazie appunto a ciò che chiamiamo noria migratoria di umani che non è diversa da quella degli uccelli che non sono solo birds of passage).

Non sorprende che a Parigi sia mantenuta la coesione del gruppo – che si tratti di scaldini o di muratori e intonacatori o gessini delle stesse e di altre vallate[6]. Soprattutto perché, nel caso degli scaldini, è stato possibile trascorrere tutta la bella stagione nel borgo ricollegandosi con il lavoro e la vita della parrocchia (che comprende diverse frazioni) e il comune (che riunisce due, tre parrocchie). Mini-proprietari, gli emigrati, scaldini o meno, hanno investito i loro risparmi in acquisti di terra fino al 1970 o addirittura sino al 1975. Da questo punto di vista, vivere a Parigi era una specie di “speculazione” dovuta al cambiamento, riconosciuto e sfruttato tra due “qualità di vita”. Ciò che, per i parigini ansiosi di essere riscaldati, porta alla creazione e al finanziamento di una nuova attività, per i “servi” delle caldaie crea l’opportunità di mantenere una società di montanari.

Sino agli anni Ottanta, molto prima dell’alba, piegato sul suo motorino, lo scaldino attraversava Parigi e, quindici anni prima, quando erano ancora quasi un centinaio, “appena la mattina presto vedevi dal lato di Passy un uomo in blu, con il suo motorino, sapevi che era un cugino, uno zio, che veniva dal lavoro”. Per decenni, Parigi è stata vissuta come una successione di villaggi e itinerari in cui alcune strade e palazzi erano pieni di persone famose e dove i commercianti – a Boulogne, La Villette, intorno alla Gare de Lyon – erano italiani o avevo imparato l’italiano. Il riferimento di questa riorganizzazione spaziale della città era la società montanara che era stata parzialmente ricostituita perché c’erano molti – muratori, stuccatori/gessini, scaldini … – che restavano uniti in quanto endogami. Non mancavano gli incontri con i sacerdoti della Missione italiana, né i balli della domenica pomeriggio – occasione di fidanzamento e matrimoni – né le feste di calendario di fine stagione.

Scaldare Notre-Dame de Paris

La consacrazione del duro lavoro è stata, per alcune famiglie, il carico -quasi ereditario- di riscaldare un edificio pubblico: il caso della cattedrale di Notre Dame è estremo e significativo. Una famiglia ha riscaldato la cattedrale da padre in figlio, da zio a nipote, patrigno a genero tra il 1920 e il 1975, quando il teleriscaldamento ha sostituito le caldaie a carbone.

Foto della caldaia di Notre Dame de Paris

Nel 2016 ho cercato ancora di sapere che ne era stato delle caldaie a carbone di Notre-Dame de Paris chiedendo anche all’amministratore di questo duomo; infine ho trovato solo negli archivi di «architettura religiosa» la foto che copio qua sotto con accanto la scritta “calorifère du XIX siècle démoli en 1983, porte extérieure des foyers – Paris 4e Arrondissement-Cathédrale Notre Dame” (calorifero del XIX demolito nel 1983, porta esterna del forno”). Nella ricerca sempre a Parigi ho constatato che ancora oggi in alcun museo c’è traccia della storia delle caldaie a carbone e dei mestieri connessi. Mi pare che sia uno dei fatti più emblematici di come l’ultima “modernizzazione” abbia cancellato oltre un secolo di storia economica e sociale, al pari di come sono stati smantellati les Halles (i mercati generali che stavano dove c’è oggi il Forum des Halles di cui Louis Chevalier ricorda alcuni aspetti).

Se i guadagni non erano all’altezza morale del luogo, la responsabilità era piena: l’arciprete si limitava a controllare i conti registrando le spese. Lo scaldino trovava -al di là delle diverse e perfette condizioni materiali- la calma serenità dei rapporti con il parroco della sua parrocchia di origine. Ma arrivata l’estate, anche se aveva uno stipendio “fisso” che gli permetteva di lavorare alla riparazione o all’installazione della caldaia, senza eccezione, lo scaldino prendeva ancora almeno due mesi di vacanza (usanza abituale anche fra tanti altri immigrati africani che quindi escludevano l’impego in fabbrica). Raggiungeva la casa che era rimasta aperta e un giardino coltivato da almeno due coppie di pensionati partiti già in primavera. Il vecchio “servitore” di Notre Dame poteva essere orgoglioso di aver stretto la mano a quattro arcivescovi di Parigi, che non furono restii davanti allo sporco professionale del lavoratore… ma questa continuità nell’incarico di queste caldaie, questa quasi invisibilità fisica, è da capire innanzitutto come la rimanenza, in piena Parigi, dei vecchi cicli stagionali. Lo scaldino poteva concentrarsi sul borgo originale perché sapeva che finché ci sono le caldaie a carbone e il loro servizio ingrato, nessuno penserà a cacciarlo via. A due passi da Notre-Dame, le caldaie di Saint-Louis-en-l’Ile funzionavano ancora a metà degli ani ‘80. Lo scaldino soffriva appena delle conseguenze dell’andamento economico francese: “Anche in tempo di guerra si riscaldava, era più duro, ma si riscaldava”, dicono quelli che sono rimasti a Parigi in quel momento.

Mentre spalava i suoi mucchi di carbone, osservava non solo gli arcivescovi che passavano, ma i decenni. Taceva e, a differenza degli Auvergnats, non partecipava ad alcuna istanza istituzionale – associazioni, sindacati ecc.- ma negoziava il suo stipendio come poteva, al meglio, attraverso rapporti personalizzati.

La festa di fine stagione a Parigi e in campagna

I più vecchi scaldini, anche di oltre ottant’anni, alla fine degli anni ’80 ricordavano i giorni in cui avevano riscaldato solo cinque mesi e mezzo o sei: “ci siamo fermati a metà aprile o nei primi giorni di maggio … e il ritorno annuale della Fiera del Trono, quando di faceva ancora sul Boulevard Richard-Lenoir, annunciava che la stagione sarebbe presto finita. Poi è arrivato il momento di consultarsi per scegliere il giorno della festa, la fine della stagione e l’inizio del ritorno alle nostre borgate”.

Durante l’anno, tutti i montanari mantenevano i contatti, sia scaldini o lavoratori edili, o perché vivevano in una delle aree menzionate – La Villette, Gare de Lyon, Boulogne, Passy – o perché si erano incontrati – specialmente se erano scapoli- al ballo del pomeriggio di domenica. Dopo il 1950, Le chat noir, a Boulogne, era il luogo d’incontro per gli emigranti di entrambi i sessi provenienti dallo stesso comune, ma la festa di calendario quando gli abitanti delle frazioni si dirigevano verso i pascoli di lago Moo, alla fine della stagione riuniva solo gli scaldini. Festa essenzialmente maschile, in cui le donne e il ballo erano solo un incidente, ha permesso, sia negli anni Trenta che negli anni Cinquanta, di ritrovarsi tra uomini legati da legami familiari, di villaggio e di mestiere, ma che durante i loro giro di caldaie non si incontravano, non avevano avuto l’occasione di incontrarsi per lo spuntino da un bougnat, ma solo alla festa di fine stagione. Chi si incontrava, parlava di lavoro e, soprattutto, quelli che erano stati sostituiti gratuitamente dagli altri esprimevano la loro gratitudine offrendo un bicchiere di vino o un pasto.

La riunione generale degli scaldini che erano riusciti quasi a monopolizzare la professione almeno a Parigi intra muros e talvolta anche alcuni dei “buoni indirizzi” in periferia (chiese o imprese), la festa di fine stagione attirava l’attenzione anche dei bougnats. Un ex scaldino, che era diventato rappresentante di un bougnat, dotato di una potente auto segno visibile del suo successo, cercò durante una festa del dopoguerra, di convincere gli scaldini dell’opportunità di rifornirsi di carbone presso la ditta che rappresentava. Il suo successo non fu duraturo perché gli scaldini – uomini fidati responsabili delle loro caldaie – non vogliono legami esclusivi, ma anche perché questa manipolazione dei valori legati alle origini comuni metteva in pericolo l’unanimità dell’incontro. Un “leader” cercava di imporsi e l’economia del lavoro poteva avere la precedenza su quelle delle riunioni che non riguardavano esplicitamente gli affari e le strategie personali. Nell’impossibilità di considerare la festa come espressione dell’unanimità delle società di origine delle frazioni – che aveva permesso di affermare che non esisteva uno specifico “organizzatore” e quindi un “leader”- la festa fu allora disertata. Tanto più che la graduale sistemazione delle famiglie, l’acquisto della prima auto e la scomparsa, anche tra i francesi, delle vecchie forme di socialità espresse dal ballo nelle balere si aggiunsero all’allungamento della stagione del riscaldamento rendendo la festa anacronistica. Allo stesso tempo, la necessità finanziaria di lavorare ancora qualche settimana in un settore collegato era assai pressante prima di poter tornare al villaggio.

Tuttavia, le rappresentazioni relative all’unanimità hanno ancora una grande importanza. È sempre una questione di cercare di collegare le origini e il mestiere. Così, dopo varie vicissitudini, una nuova festa fu organizzata con modalità diverse: si svolgeva in un comune della zona d’origine – la scelta era senza difficoltà, così come i decorati di medaglie (“bisogna che tutti devono essere contenti”) e la presenza, almeno finanziariamente, di un bougnat fu un elemento importante dell’evento. Il pericolo di una nuova emersione di un “capo” era lungi dall’essere evitato – “non vogliamo essere costretti a dire che il carbone è buono se non lo è” – questo aspetto della questione è meno importante della bilateralità dei riferimenti che rivela (fra la zona di origine e il luogo e il mestiere dell’immigrazione). Qui non si tratta di dualismo, ma di una combinazione di tratti culturali. Non importa chi paga la medaglia o consente l’organizzazione della festa, dei partecipanti o del carbone; l’importante è che la medaglia sia data da un giovane discendente di scaldino forse futuro scaldino lui stesso, che col suo discorso leghi anche le due società di riferimento. Questo giovane, attraverso la sua partecipazione alla cerimonia, dimostra sia la co-presenza di tratti culturali e la loro combinazione, sia la continuità del progetto attraverso le generazioni. In sintesi, questa era l’etica dello scaldino.

La continuità delle generazioni

Il mestiere di scaldino ha offerto la possibilità di mantenere una vera doppia presenza in entrambe le località. Questo è il motivo per cui le frazioni da dove provenivano non si spopolavano come quelle i cui abitanti definitivamente installati nei paesi di immigrazione (in particolare in Francia, Gran Bretagna e, in misura minore, in Belgio), hanno dovuto scegliere altri mestieri. Nonostante un’evoluzione evidente nel tempo, la migrazione di questi montanari, in particolare di quelli degli scaldini, è ancora caratterizzata da un legame molto vivo con i borghi e le parrocchie di origine[7]. Questo collegamento implica la subordinazione della nazionalità acquisita o custodita. La continuità del progetto familiare, che collega tre generazioni è il tratto principale di questa antica migrazione: da quando le seguenti generazioni sono nate in Italia, Francia o in Gran Bretagna che acquisiscano o perdano una di queste nazionalità è un “fatto” valutato in funzione dei servizi che offre in relazione al lavoro e, eventualmente, al ritorno produttivo di tutta la famiglia (e anche rispetto agli investimenti dei risparmi).

Esiste una relazione diretta tra attaccamento alle origini, continuità familiare e mestiere. Questa “professione” è vissuta come un’attività libera e sembra esserlo davvero, almeno nel caso del giro delle “proprie” caldaie. Se hanno potuto trasferire a Parigi quasi tutto il vecchio sistema di relazioni, è perché il mestiere si tramanda di generazione in generazione nella linea diretta o attraverso il matrimonio (perché è un mestiere che si svolge se si acquisisce la fiducia del proprietario dell’immobile, cioè accumulando capitale professionale e sociale). Quando i giovani della terza generazione – se si calcola dall’ultima guerra mondiale, o della sesta o settima, quando si calcola dalla prima migrazione – diventano “colletti bianchi”, ammirano però i nonni e antenati che di fatto non avevano padrone. Con la “crisi” accade che alcuni stanno riprendendo il ricambio perché sono sicuri di trovare un buon lavoro ben pagato che possono svolgere come gli pare. Il mantenimento della vita del villaggio ha condizionato o addirittura determinato il processo migratorio. Naturalmente, il fenomeno non è particolare a questo gruppo, ma per la sua durata, permette di mettere in discussione l’opinione corrente che stabilisce un legame troppo diretto e unico tra l’emigrazione, la proletarizzazione e la destrutturazione della società rurale[8].

Contatti regolari durante il lavoro, incontri sociali la domenica e alla fine della stagione, il supporto in caso di disagio o disgrazia, il controllo dell’attività, così come la medaglia d’oro assegnata collettivamente, tutto ciò permette la trasmissione del mestiere e disegnano un’unità mantenuta e persino rafforzata attraverso questo. Il mestiere, un quasi monopolio di fatto, permette alle famiglie di dare una buona sistemazione ai discendenti, garantendo loro reddito che lo rendono interessante se non cambiano direzione andando a studiare o dopo ciò: non riescono a trovare lavoro con i loro diplomi. Piccolo ingranaggio legato al miglioramento tecnico delle condizioni di abitazione, ma la cui assenza è inconcepibile, ma la cui assenza è quindi inconcepibile una volta che non si è ancora lasciata la caldaia aa carbone nel sottosuolo della «casa borghese» o dell’usine à dormir (dormitoio) che la “libera professione” ha permesso di avere ancora per qualche anno come integrazione e non assimilazione alla società francese. La supremazia data alla scelta del divenire personale e familiare nella società francese è ovvia per le famiglie che si sono dirette in Francia, ma sanno anche di avere parenti in altri paesi, ai quali ci si può rivolgere in caso di bisogno o semplicemente per tentare la fortuna altrove. Il mestiere parigino ha attutito lo shock della transizione che s’è svolta senza asperità e l’identità personale e culturale non si sono perdute[9].

A differenza degli auvergnats, gli scaldini non hanno investito i loro risparmi a Parigi – anche se alcuni, pochi, hanno la loro impresa. Gli scaldini non hanno associazioni, mentre tra gli auvergnats abbondano; non hanno nessun politico che glorifichi il regionalismo in funzione della loro ascesa a Parigi, anche se i discendenti di questi immigrati “riscoprono” la cultura regionale.

Salvo qualche eccezione, gli scaldini hanno spesso acquisito la nazionalità francese, ma sino ad anni recenti, il loro principale riferimento era il luogo di origine. Gli investimenti sono stati fatti lì e il va-e-vieni dei pensionati delle famiglie mantiene integrate nella società francese, sebbene lontani, tre o quattro generazioni che compongono ciascuna famiglia. Se non vivono insieme sotto lo stesso tetto, la domenica continuano a mangiare insieme. L’endogamia non è una regola assoluta, ma è ancora frequente e non v’è alcun dubbio che il marito francese di una ragazza figlia di uno scaldino non passa almeno quindici giorni nella frazione affinché i nonni abbiano il piacere di stare con i nipoti (si tratta qui di un caso assai simile a quello dei Ciociari studiato da Catani stesso).

La supremazia data al divenire individuale rende possibile ordinare due riferimenti culturali in una reversibilità orientata delle scelte

All’epoca dei macchinari industriali, l’immigrazione era principalmente studiata dal punto di vista della proletarizzazione. Il caso degli scaldini, come quello degli auvergnats, mostra che c’erano altre possibilità. Certo, buona parte degli immigrati ha cercato e trovato lavoro nella grande industria e, di conseguenza, è stata necessariamente integrata nelle ampie categorie socioprofessionali del lavoro salariato[10]. Ma anche nel secolo scorso e all’inizio di questo secolo, per non parlare del presente, un emigrante poteva trovare lavoro anche nel settore dei servizi, il “terziario”. Questa possibilità non era solo un’alternativa alla condizione della classe operaia in senso stretto, ma sembra che alcuni immigrati preferissero questo tipo di inserimento. Molte attività legate al riscaldamento (bougnat, charbonniers, scaldini, spazzacamini) rientrano in questa categoria di servizi, almeno dal punto di vista delle persone che le praticano. I conduttori di caldaie sono stati savoiardi, piemontesi, valdostani, friulani o bretoni, hanno valorizzato questo settore del riscaldamento, tanto quanto gli scaldini dell’Appennino di Parma e Piacenza, perché erano padroni del loro lavoro. Era lo stesso per gli auvergnats, grossisti o bougnats nel grande periodo del riscaldamento a carbone. Di fronte ai condizionamenti dell’industria, questi immigrati, interni o internazionali, hanno cercato occupazioni che non mettono in discussione la loro concezione della vita. Montanari, allo stesso tempo allevatori e contadini, hanno mantenuto uno spirito di piccoli o futuri piccoli proprietari, attraverso l’accanito attaccamento al villaggio. Questo giustifica, al momento dell’inserimento in Francia e dopo, il ricorso all’intero reticolo di parentela e al sistema di relazioni di compaesanato. Tra gli Scaldini, in particolare, l’emigrazione non è mai stata concepita come una rottura con il passato, ma come una scelta interna al progetto famigliare e coerente con esso. Certo, questo è il caso di ogni migrante, ma in realtà in alcuni casi, certe scelte rendono più facile di altri il mantenimento di questa coerenza (vedi nota 7).

Attraverso il ritorno regolare, il lavoro di scaldino offre l’opportunità di tracciare la storia del periplo, ma aiuta anche a capire come sottarsi a questo valorizzando la famiglia. Il periplo, che ha caratterizzato l’emigrazione del secolo scorso fino all’ultima guerra mondiale e anche dopo, è stato considerato dagli scaldini come una “la commedia dei sei mesi qui e sei mesi là”. Non volevamo più essere l’attore, sebbene il mestiere si prestasse mirabilmente ad adattarsi a una doppia attività in due luoghi diversi. Alla fine la famiglia mononucleare ha superato la famiglia “patriarcale”. L’installazione all’estero è diventata la regola. Se di recente (1970), il periplo (o la noria) è stato abbandonato da tutti, anche se alcuni uomini di quarant’anni si chiedono se non potrebbero ancora gestire da soli il commercio che hanno acquistato al paese, la coscienza delle origini ne ha preso il posto. Le vacanze almeno ad agosto, con l’attribuzione di una medaglia d’oro al più vecchio scaldino e la festa del santo patrono, permettono di vedere come ciò avviene. La medaglia mantiene una certa unità professionale: concretizza la necessità di rimanere uniti anche se non ci sono quasi ritorni definitivi nei villaggi. Diventando “francesi” agli occhi dei compaesani, il gruppo deve riunirsi in Italia e in Francia, dove la competizione eccessiva potrebbe minare gli interessi individuali molto fragili. Ma, allo stesso tempo, questa affermazione di sé è fatta a pochi giorni dalle feste di calendario dei vari santi protettori che sono stati spostati, spesso, in agosto (per ovvia comodità). Ma c’è qualcos’altro: è ancora durante questo mese che si va al cimitero dicendo esplicitamente che si sostituisce così il 2 novembre (il giorno dei morti). Dato che, allo stesso tempo, non c’è dubbio che la maggior parte delle famiglie e dei figli trascorrono le loro vacanze di due mesi fuori dal villaggio e che tre generazioni si riuniscono così nella casa di famiglia – o nella nuova casa – mentre la fienagione è in pieno svolgimento, è chiaro che questi bambini non sono solo visitatori estivi, ma persone che fanno parte di una continuità di rappresentazioni e valori. Va aggiunto a quanto è stato detto sulla solidarietà che, molto spesso, gli emigrati che sono morti all’estero sono sepolti nel cimitero parrocchiale. “Il corpo del defunto di una famiglia che non ha i mezzi può ancora essere mandato al villaggio prima ancora dei famigliari”, la colletta tra gli scaldini e, più in generale, tra emigrati delle stesse origini, permette di regolare questo tipo di difficoltà. Alcuni cimiteri hanno dovuto essere ingranditi e se n’è evitato l’abbandono se non ci fosse stata questa particolare categoria di sepolture. Se il ritorno dopo il viaggio è quasi scomparso perché i figli di coloro che erano emigrati nel 1920 o nel 1946 hanno studiato in Francia (così come nipoti, che stanno iniziando a diventare genitori a loro svolta), il principio guida della “cronaca familiare” è stato ancora legato, nel 1986, ai valori della società di origine. La continuità intergenerazionale e le relazioni “parrocchiali” consentono il “divenire individuale”[11], attraverso il successo del progetto intergenerazionale. Di generazione in generazione, non si eredita solo la terra – spesso incolta oggi – o le case che possono essere restaurate: si ereditano anche le sepolture. Anche se subordinati alla scelta di vivere in Francia, terreni, case e tombe sono ancora uniti in una totalità – instabile, ma reale -: il mese di agosto che condensa l’attribuzione della medaglia da parte di un giovane al più vecchio scaldino, la festa del santo e la commemorazione dei morti. Attraverso la riuscita migratoria la supremazia è data alla configurazione dei valori della società francese, ed è anche certo che le rappresentazioni dello stato-nazione ereditate dal secolo scorso sono messe profondamente in discussione da fenomeni questo tipo. Anche se la subordinano al loro personale divenire nella società francese, gli scaldini e i loro discendenti hanno l’esperienza, contemporanea, di una totalità sociale locale, intergenerazionale e transnazionale. Questa esperienza è lontana dall’essere un arcaismo.

I membri di queste famiglie sono tutti autori del loro divenire personale – subordinano qualsiasi rappresentazione dello stato-nazione attraverso la loro svalutazione della nazionalità – e gli eredi di un progetto mantenuto10. La loro scelta a favore della Francia non impedisce agli scaldini di valorizzare le loro origini e la continuità delle generazioni. La fedeltà alle origini – in virtù delle rappresentazioni che chiamo ctoniche[12] – è il senso che questi individui e le generazioni hanno dato a un mestiere amministrativamente non repertoriato, sconosciuto, logorante, che sporca (“nel 1920, i bidelli francesi non volevano sporcarsi le mani”), lavoro  scoperto da questi montanari intorno al 1900, mentre lavoravano nelle gallerie della metro. Un lavoro di cui si sono appropriati e che hanno mantenuto in un sistema di relazioni di compaesanato sempre rinnovato, anche se sono diventati parigini per il lavoro e, a poco a poco, francesi per nascita. Questo “lavoro da forzato”, sotterraneo e “non da fattucchiere”, vale a dire molto semplice, secondo gli stessi scaldini non richiedeva l’apprendimento. Sarebbe un lavoro di scarso interesse per la storia urbana se fosse considerato come aspetto particolare della storia del riscaldamento: anzi, è dominato da quello dei costruttori e delle invenzioni dell’automazione progressiva delle caldaie e della loro trasformazione con il gas, i derivati del petrolio e poi l’elettricità in Francia fornita dal nucleare; non illuminerebbe quindi la storia degli uomini che le hanno mantenute per più di un secolo.

Ma questo lavoro è, al contrario, di grande importanza per capire come le famiglie e le reti di immigrati-emigranti danno significato al loro progetto di vita e ai suoi vari cambiamenti nel tempo. Fondamentalmente transnazionali, gli scaldini e i loro discendenti sembrano in grado di assumere i riferimenti locali di questo progetto e la sua continuità internazionale. Possono annunciare una particolare, nuova forma di interazione tra culture.

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Fra non molto non andrà più a carbone (Bientôt il n’ira plus au charbon)

da un articolo di Bruna Basini, Le Journal du Dimanche, Nov 2015, https://www.pressreader.com/

Ritratto di un artigiano di un’epoca passata, Joseph Boccacci, un conduttore (chauffeur) di caldaie a carbone a Parigi da quarant’anni; si sta preparando per il suo ultimo giro di riscaldamento: ha un fisico da giustiziere del West e un aspetto malizioso. Ma cavalca soltanto uno scooter lanciato sulle strade della giungla urbana. Giuseppe Boccacci, detto “Jojo”, inizia il suo ultimo tour “tra l’essere stufo e la nostalgia”. Chauffeur di caldaie da padre in figlio, trascorre la sua vita nel carbone come gli altri nelle fogne, nelle camere blindate o davanti a un forno da cucina. Un mestiere sotterraneo che è sfuggito al radar dell’amministrazione e dei sindacati. “Siamo sempre stati fuori dal campo e io sono l’ultimo dei Mohicani”, dice.

Chauffeur, è un mestiere che non si vede e che sporca chi lo fa. Alle prime ore del giorno, lo chauffeur arriva allo scantinato, antro obbligato per le caldaie, controllo la sua macchina da calore, l’alimenta di carbone, toglie le ceneri del giorno prima. A volte simpatizza con la portinaia o uno dei proprietari. Passando da una caldaia all’altra a due ruote, finisce il suo giro verso mezzogiorno, salvo i giorni di grande freddo quando le caldaie «hanno fame» e reclamano un secondo servizio. Jojo ha infornato montagne di carbone. Joseph Boccacci ha recuperato gli ultimi edifici a carbone di Parigi, Boulogne e Asnières, “18 in tutto, 22 elettrodomestici, quasi una caldaia per quartiere”, dice. Dalla scuola di musica di rue Saint-Jacques alla chiesa di Sainte-Geneviève d’Asnières. “Boulevard Saint-Germain, rue Boissy-d’Anglas, rue de Chazelles, boulevard Lannes, rue du Docteur-Lancereaux, rue Cambacérès e rue Jean-Goujon”, dice. Tanti resti industriali destinati a sparire come il suo lavoro, COP21 o no. Lui ha vissuto l’epoca d’oro degli anni ’60. Negli anni ’90 è subentrato il riscaldamento a gas. Ma con Gégé, il suo amico bougnat, Cantal, Jojo ha infornato montagne. “Con tutto il carbone che mi ha mandato e che ho buttato nella fornace si potrebbe coprire la Torre Eiffel”, racconta mostrando le mani nere di fuliggine, mentre mangia una bistecca al Relais Aubrac, ad Aubervilliers, con i suoi compagni d’“avventura”, Gégé, Jean-Louis e Bernard.
È qui che viene a ritrovare i suoi ricordi del riscaldamento. Gli piace “rimescolare ceneri fredde” al bancone del bar. “È il momento in cui si rompe la solitudine del lavoro”, dice. Jojo ha visto di tutto, le settimane a meno 10°C, i festanti della San Silvestro che offrono un bicchiere di champagne prima di tornare, i giorni di manifestazioni che bloccano l’accesso agli edifici. I suoi ricordi si mescolano a quelli di genitori, nonni, fratelli, cugini e zii, generazioni di uomini che, come lui, hanno lasciato il loro sudore negli scantinati. “Mio nonno ha vissuto le rivolte del 1934. Papà dovette tornare nel 1940 perché noi italiani non eravamo più dalla parte giusta della storia. C’è anche mio zio che ha scaldato Notre-Dame, una pepita trasmessa con venerazione e orgoglio di generazione in generazione, o il cugino che s’è riempito gli occhi alle Folies Bergère. E tutte le feste perse, una madre stanca dall’attesa e un padre che si alza nel cuore della notte e non bisognava svegliare quando tornavamo a casa da scuola.

Il riscaldamento, una specialità italiana
La professione di chauffeur di caldaie è nata negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Fu allora che tutti gli edifici borghesi installarono il riscaldamento centralizzato, termosifoni e radiatori per offrire alloggi riscaldati e acqua calda, estate e inverno. E i cafè-charbons fioriscono nelle strade della capitale. I primi “conduttori di caldaie” sono savoiardi e bretoni, ma molto rapidamente, il riscaldamento è diventato una specialità italiana, degli scaldini, originari di montagna, per lo più villaggi con forti pendenze e province boscose di Parma e Piacenza, in Emilia-Romagna, che non nutrono più i loro uomini. Boccolo, il luogo di nascita del padre di Giuseppe Boccacci, ne contava solo più di 100 negli anni ’60.

Stagionale per natura, il riscaldamento è un affare. Da ottobre ad aprile si riscalda; da maggio a settembre tornano al loro villaggio per fare il fieno e rivedere la loro famiglia. Viaggi che continuano oggi. Una stagione calda e un bellissimo tour, da 30 a 40 caldaie, hanno permesso di vivere bene e risparmiare denaro per acquistare terreni, una casa o un business nel paese in cui si torna sempre. “Avrei potuto fare qualcos’altro ma così non sono responsabile nei confronti di nessuno e questa libertà merita qualche sacrificio. E poi, tra i chauffeurs c’è sempre stata una solidarietà molto speciale. Veniamo dagli stessi villaggi, condividiamo gli stessi antenati. Al minimo colpo duro, gli amici assicurano sostegno. L’ultima palata (di carbone), a maggio, sarà per “papà, nonno e tutti gli amici”. Un gesto fatto meccanicamente per quarant’anni carica quel giorno di significato.

[1] vedi Campani, «Assimilation et réseaux. L’immigration italienne en France », Peuples méditerranéens, n° 31-32, 1985 ( da ricerca di Campani e Catani per la Consulta Emigrazione della Regione Emilia-Romagna e dell’Instituto F. Santi. Vedi anche Campani, Catani, «Les réseaux associatifs italiens en France et les jeunes», Revue européenne des Migrations internationales, n° 2, 1985; Palidda, Catani e Campani G. (1988) Scaldini, Ciociari et Reggiani entre indifférence, méfiance, fascisme et antifascisme dans les années 1920, in CEDEI, ed., L’immigration italienne en France dans les années 20, Paris, Éditions du CEDEI, pp. 223-246.

[2] Massin, Les cris de la ville. Commerces ambulants et petits métiers de la rue, Albin Michel, 1985, Paris

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Eug%C3%A8ne_Atget; https://fr.wikipedia.org/wiki/Tableau_de_Paris

[4] Resistenze ai disastri sanitari, ambientali ed economici nel Mediterraneo, 2018

[5] vedi qui https://www.google.it/maps/@44.7134121,9.6497898,10z. I migranti della zona non sono tutti scaldini, ovviamente, ma soprattutto muratori, stuccatori … La migrazione è iniziata prima dell’unità italiana (vedi nota 1) e si è sviluppata nell’ultimo quarto del secolo scorso. Cfr. Luigi Taravella, Storia sociale degli abitanti di Rocca di Ferriere (Piacenza) emigrato nella regione di Parigi, attraverso racconti biografici, 1880-1980. Tesi di laurea in sociologia, Univ. Parigi VIII, giugno 1983.

[6] Sui gessini e altri del piacentino e in particolare di Rocca di Ferriere, si vedano le pubblicazioni di Luigi Taravella (anche in L’imprenmditorialità italiana e italo-francese nella circoscriz. Conmsolòare di Parigi, CIEMI, 1992) e il celebre les Ritals di François Cavanna

[7] Gli scaldini hanno permesso il continuo sfruttamento di terre che altrimenti sarebbero state abbandonate; davano lavoro ai muratori costruendo le loro case, a volte lussuose. Insieme ai turisti italiani facevano lavorare i commercianti durante l’estate. Ma tutto questo non basta a salvaguardare un’economia montana praticamente priva di industria (il 18% degli attivi lavora nelle costruzioni). Lo Stato italiano ha finanziato la “Comunità Montana” delle valli dell’Arda, Trebbia e Nure ma esse sembrano destinate al declino demografico.

[8] F. Piselli, Parentela ed Emigrazione, Torino, Einaudi, 1981

[9] Per il dettaglio nel caso di una migrazione interna (Mayenne-Parigi), vedi M. Catani et S. Mazé, Tante Suzanne, une histoire de vie sociale, Librairie des Méridiens, Paris, 1982.

[10] F. Alberoni, M. Baglioni, L’Integrazione dell’immigrato nella società industriale, Bologna, Il Mulino, 1965.

[11] Cito questa espressione, “divenire individuale”, nel senso dato da L. Dumont, Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne, Seuil, Parigi, 1983. Allo stesso modo, riferendomi all’identità collettiva e all’interazione tra essa e l’ideologia universalista, mi riferisco all’articolo dell’autore  « Identités collectives et idéologie universaliste : leur interaction de fait », Critique, n° 456, 1985. Vedi anche Catani e Palidda (1989) Devenir Français : pourquoi certains jeunes étrangers y renoncent ?, Revue Européenne des Migrations Internationales, 5 (2), 89-106, http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article /remi_0765-0752_1989_num_5_2_1020

[12] Chiamo “ctoniche” le rappresentazioni che possono essere considerate sufficientemente definite in termini di “valorizzazione del luogo di origine,” perché gli investimenti, le riunioni di famiglia e di gruppo con le loro cerimonie e soprattutto sepolture disegnano un succedaneo della trascendenza propriamente religiosa. Questo succedaneo è creato volontariamente dagli emigrati immigrati e dai loro discendenti. Vedi Catani, «Les migrants et leurs descendants entre devenir individuel et allégeance chthonienne », Cahiers internationaux de Sociologie, 2e semestre 1986.