POPOLARE CON STRANIERI. COLONIZZAZIONE INTERNA NEL SETTECENTO SABAUDO

1. INTRODUZIONE
Nel 1728 arriva sulla scrivania di Ercole Tommaso Roèro, marchese di Cortanze e viceré di Sardegna dal 1727 al 1731, la relazione di alcuni non meglio specificati “commissari del regno” . Il documento offre un quadro sommario della consistenza demografica del dominio ultramarino sabaudo. Nell’isola si contano 82.314 nuclei familiari, composti da 154.206 uomini e 155.788 donne, per un totale di 309.994 abitanti. Cagliari, la principale città del regno, conta poco meno di 17.000 anime, seguita da Sassari (137.00) e da Oristano (4.646), Alghero (4.583), Iglesias (6.063), Bosa (3.883), Castel Aragonese (1.616) .
I circa 24.000 chilometri quadrati da cui è formata l’isola sono dunque largamente spopolati. Le aree spoglie d’uomini che potrebbero ospitare nuove colonie sono numerose, ma in massima parte esse sono di pertinenza feudale e il governo non vi può intervenire direttamente. In più, i maggiori feudatari risiedono in Spagna e forzare loro la mano potrebbe avere conseguenze negative nelle relazioni con Filippo V. La via maestra per affrontare un simile problema – suggerisce la memoria – è riscattare i feudi, pagando un indennizzo ai feudatari. L’operazione avrebbe un costo ingente per le casse dello Stato, che si potrebbe però recuperare con la vendita delle terre riscattate. Anche la verifica puntuale dei titoli feudali, nel caso in cui dovesse far emergere difetti di legittimità da parte dei concessionari, potrebbe ulteriormente alleggerire il peso del riscatto. Una volta riportati i feudi sotto la Corona, si potrebbe realizzare con relativa agilità un piano generale di popolamento dell’isola .
Il documento appena citato mostra come, fin dai primi anni di governo della Sardegna, i funzionari subalpini individuassero nell’intreccio di feudalesimo e sottopopolamento il nodo da scio-gliere per promuovere lo sviluppo del possedimento insulare. Come nelle altre cancellerie europee del XVIII secolo, anche a Torino e Cagliari la forza demografica è considerata un fattore decisivo per non restare schiacciati dall’aggressiva concorrenza degli altri Stati. Una competizione nella quale ogni cancelleria imita ciò che di buono fanno le altre, spesso indicando esplicitamente le politiche straniere come modello da seguire. L’approccio è empirico e non “intellettuale”, perché i mercantilisti che assistono i sovrani sono soprattutto statisti e uomini d’affari interessati a comprendere i meccanismi che governano l’economia del proprio Paese. La loro prospettiva è nazionale e concepisce il corpo territoriale dello Stato come strumento essenziale di potenza: ne va per questo definito il più razionalmente possibile il profilo frontaliero, debbono esserne riformate le gerarchie territoriali interne; occorre promuovervi lo sviluppo agricolo con la bonifica idraulica, l’attività manifatturiera, riattandovi strade e ponti e potenziando i porti. Prima di tutto il territorio deve essere abitato, il più densamente possibile.
Questo saggio offre una prima ricostruzione del dibattito che precedette e accompagnò la colonizzazione interna del regno di Sardegna. Fonte privilegiata del lavoro sono le relazioni prodotte dai funzionari governativi per studiare l’isola e i progetti di colonizzazione con cui si procedette alla formazione di colonie di popolamento nelle diverse aree del regno, nell’intento di integrare la grande isola mediterranea nel disegno di potenza perseguito da casa Savoia nel XVIII secolo.

2. STRUMENTI D’INDAGINE E NORMATIVI
La guerra di successione spagnola si era chiusa col trattato di Utrecht, il quale aveva riordinato e sigillato la frontiera occidentale del ducato sabaudo con la Francia. La monarchia poteva ora occuparsi con più attenzione alle frontiere orientale e meridionale dello Stato e della nuova grande riviera marina al centro del Mediterraneo acquisita nel 1720. L’isola, sostanzialmente sconosciuta a Torino, era stretta tra malaria, corsa barbaresca e codice della vendetta. A corte ci si rese presto conto che si sarebbe dovuto affrontare una diffusa cultura giuridica contrattualistica di marca catalana e un sistema di valori di impronta castigliana. Bisognava insomma addomesticare un ambiente estraneo e segnato nelle aree rurali da un’agricoltura sostanzialmente primitiva e una pastorizia errabonda; sulle coste, da ibridazioni capaci di vaporizzare la legalità statale, consegnando l’isola a quel Mediterraneo transnazionale rimesso recentemente al centro della riflessione storiografica .
Una memoria, non datata né firmata, ma compilata verosimilmente negli anni 1730 a Cagliari dall’Intendenza Generale, fornisce una delle prime e più organiche diagnosi dei problemi del Paese, “per la metà almeno incolto e spopolato”, individuando nella “impresa dell’introduzione della popolazione […] uno dei mezzi più principali dell’introduzione del commercio” . Il rapporto di causa/effetto tra scarsità di uomini e assenza di attività commerciale è dunque stretto ed è aggravato dal fatto che gli isolani sono tutti impiegati in agricoltura e non hanno modo di dedicarsi ad altro. “L’aumento dei popoli” è insomma la via maestra verso il rilancio commerciale e verso il ripristino della “antica immensa popolazione [di cui] si legge ne’ suoi istoriografi” .
Ecco dunque come l’estensore del documento invita a procedere. Il re di Sardegna potrebbe rinnovare le norme in tema di colonizzazione promulgate dai sovrani catalani e spagnoli. Tra tutte quella con cui Alfonso V d’Aragona aveva imposto ai feudatari forestieri di risiedere nei possedimenti loro concessi nell’isola. Oppure la concessione, disposta sempre da Alfonso, di vantaggiose franchigie fiscali ai mercanti forestieri che si fossero stabiliti nelle città regie. Secondo il memorialista, questi provvedimenti ebbero l’effetto di accrescere il numero di abitanti delle città, attirandovi, oltre che feudatari e loro famiglie, mercanti genovesi, livornesi, siciliani, napoletani e francesi. Con un editto generale il re sardo dovrebbe allora rinnovare le franchigie per i mercanti forestieri che “dopo la residenza d’un decennio avranno già dati profitti al regio patrimonio con loro negozj e col pagamento de’ diritti della dogana […] e dimostreranno con sufficienti segni l’animo di voler […] domiciliarsi nel regno” .
Per ripopolare gli entroterra rurali, la relazione propone una soluzione diversa dal riscatto feudale vagheggiato in un primo tempo, la cui impraticabilità non ha evidentemente tardato a ma-nifestarsi. Molto meglio che il sovrano ripopoli i territori che egli controlla direttamente. Sarà utile a tal fine riproporre la carta reale promulgata nel 1686 da Carlo II d’Asburgo per attrarre in terra regia vassalli “naturali” del regno. In età spagnola il colono ideale era infatti un cattolico, non sposato, privo di beni immobili e di domicilio indipendente; insomma uno scapolo senza prospettive che avrebbe potuto riscattarsi trasferendosi nelle nuove colonie.
Ma per Carlo Emanuele III il colono ideale è quello straniero, possibilmente agricoltore, mercante o artigiano: l’editto del suo predecessore deve allora essere modificato così che anche i forestieri desiderosi di trasferirsi in Sardegna possano godere dei benefici che esso concede. Mescolandosi con gli stranieri “li regnicoli impareranno più facilmente le arti ed industrie de’ forastieri, e vice versa questi la coltura de terreni e qualche altra singola industria de’ regnicoli”. Lo stanziamento di tanti coloni aumenterà la sicurezza nelle “immensità di territorj spopolati” che finora hanno dato rifugio ai malviventi, sottraendoli “dal gastigo de’ crimini commessi”. Prenderà così forma in Sardegna la “società civile, dalla quale deriveranno molti vantaggi riguardanti il ben pubblico”.
A Torino il Consiglio supremo di Sardegna non concorda con questa impostazione, ritenendo che le nuove colonie di popolamento debbano in tutti i casi essere aperte solo ai forestieri . Del resto, questo indirizzo era stato formalmente espresso dallo stesso sovrano nella carta reale del’11 gennaio 1737 . In un parere di quello stesso anno, il Consiglio di Sardegna aveva poi rinnovato le sue perplessità circa l’impiego di indigeni (anche limitatamente all’entroterra) e chiesto al sovrano di esplicitare nuovamente i propri desiderata in proposito.
In questo quadro ha luogo la fondazione di Carloforte . La nuova cittadina, primo frutto della politica demografica sabauda, è coerente con l’unico punto sul quale c’è completo consenso sia a Cagliari che a Torino, cioè l’impiego esclusivo di stranieri per le colonizzazioni costiere, per le ragioni ribadite negli accordi firmati da Intendenza Generale e marchese Bernardino Genovese per l’infeudazione della nuova cittadina .
C’è incertezza invece su quale sia la strategia migliore per il popolamento delle regioni interne di pertinenza regia che sono peraltro largamente sconosciute. Si cerca allora di provvedere. Negli anni 1740 l’Intendente Generale conte Cordara di Calamandrana, accompagnato dagli ingegneri Craveri e Oselia, compie un viaggio ispettivo attraverso l’isola. Il risultato è un resoconto dettagliato delle terre regie passibili di ripopolamento . Nel 1751 il viceré Manuel de Valguenera ordina un nuovo censimento. La popolazione viene classificata per sesso e comunità di residenza. Di ogni villaggio è indicato il distretto territoriale di appartenenza, la diocesi e il feudatario cui è sottoposto. Il quadro demografico e fiscale è corredato da una vera e propria mappa feudale del regno, con una sezione finale dedicata alle città regie . Quattro anni dopo, Carlo Emanuele III fa sottoporre un questionario a Giambattista Pellegrino Alfieri, zio e tutore del celebre poeta Vittorio, che negli ambienti di governo è considerato uno dei massimi conoscitori della Sardegna, “fra tutte le persone che sono andate per il regio servigio” . Non è tutto: a Torino si studiano anche le politiche di incremento demografico adottate in altri tempi e/o da altre cancellerie, come legislazione d’età asburgica per la Sardegna e la carta di popolamento che nel 1743 le autorità prussiane adottano per incentivare la formazione di colonie greco-ortodosse nella Slesia appena strappata all’Austria. L’elemento saliente di quel provvedimento era la concessione ai greci di una piena libertà di culto . Libertà che anche Carlo Emanuele III sembra orientato a concedere alle migliaia di greco-ortodossi della Maina disposti a trasferirsi nell’isola. Un progetto di grande ambizione che però fallisce a causa della resistenza opposta dai vescovi sardi e da papa Benedetto XIV . Forse anche in virtù di una simile esperienza, il governo sardo escluderà puntualmente Roma dalla delicata trattativa che nei primi anni ‘50 porterà alla tracciatura della frontiera con la repubblica calvinista di Ginevra, in base a un accordo nel quale sarà decisiva la propensione sabauda a riconoscere una moderata e temporanea tolleranza religiosa .

3. NOBILTÀ IN CAMBIO DI COLONIE
Gli studi condotti in archivio, le missioni esplorative e il confronto con altre esperienze europee forniscono la piattaforma conoscitiva di base per la definizione di una più chiara linea d’azione per il ripopolamento dell’isola. I nuovi borghi saranno edificati su terre regie spopolate, ma non sarà il governo a farsi carico del loro stabilimento. Le aree da popolare verranno infeudate e ai concessionari sarà fatto obbligo di introdurre “la popolazione per mezzo di persone forastiere, con decorare tali feudi con titolo di marchesado o contado” . In cambio i nuovi feudatari godranno di un titolo di nobiltà proporzionato alla dimensione della colonia progettata, i redditi demaniali percepiti dal fisco prima della concessione e l’amministrazione della giustizia.
Dunque, nonostante le perplessità espresse da alcuni alti funzionari, il governo conferma la volontà di stanziare solo forestieri, sia nelle colonie costiere che in quelle d’entroterra. Sarà compito dei feudatari reperire quanti più stranieri possibile, mentre viceré e Intendente Generale dovranno convincere i facoltosi del regno o esteri a investire nel ripopolamento della Sardegna .
Nella memoria del 1728, citata in apertura di questo saggio, l’anonimo estensore riteneva che nessun sardo avrebbe offerto colonie in cambio di nobiltà, perché gli isolani “non abbondano molto di danaro, oppure amano più tosto impiegarlo in censi al’8% […]” . Ma non appena il programma demografico sabaudo viene pubblicizzato simili previsioni trovano puntuale smentita. Sul tavolo del governo arrivano infatti le proposte di Ferdinando Amat, barone di Sorso, che vorrebbe insediare nei suoi feudi una cittadina abitata da maltesi, in cambio del titolo di duca per sé e di marchese per i primogeniti della sua casata . Maltesi sono i coloni ingaggiati anche dal cagliaritano Salvatore Lostia per ripopolare la colonia indigena di Santa Sofia nel Sarcidano . Sardo è anche Bernardino della Guardia, il fondatore della tabarchina Carloforte , così come Antonio Todde, che a metà secolo, prima coordina per conto del governo la distribuzione delle terre al villaggio greco di Montresta, poi le acquista in feudo . Nel 1771, si fa avanti anche Michele Pes di Tempio per promuovere uno dei primi tentativi di urbanizzazione di Longone (oggi Santa Teresa di Gallura) .
In seno alla società isolana del Settecento non mancano dunque i cognomi che, nel tentativo di dare corpo alla propria grandezza familiare, cercano e trovano un coordinamento stretto coi di-segni del trono. Tuttavia, la monarchia non rinuncia ad accogliere le proposte che arrivano anche dall’estero. Come in Russia, negli Stati Uniti e nella gran parte dei Paesi europei, anche a Torino e Cagliari si ingaggiano forestieri per l’esplorazione, la conquista e la colonizzazione dei territori interni .
La burocrazia regia deve discutere dunque del progetto spedito nel 1750 dal marsigliese Jean Guerin, ellenista con importati aderenze alla corte di Francia, il quale vorrebbe formare colonie miste greco-sarde . Francesi sono anche i fratelli Giuseppe Gioacchino e Antonio Felice Velixandre, ai quali il 20 gennaio 1768 viene infeudata una parte dell’Asinara, perché i due la popolino di stranieri . Ci sono poi il maltese Salvatore Vella, che negli anni 1750 tratta per la formazione di borghi con suoi conterranei ; i greci Elia Cassara e Antonio Barozzi, che progettano cittadine di culto ortodosso; i liguri tabarchini Agostino Fico e Giovanni Porcile ; il colonnello corso Matra; il veneziano Pietro Smecchia e, da Gerusalemme, Giovanni Jagrat, che con due progetti distinti propongono entrambi lo stanziamento di sudditi ottomani di fede cattolica .
La compagine di imprenditori del popolamento è dunque eterogenea: ne fanno parte sia “naturali” che forestieri, sia aristocratici che “mezzani”, sia individui che già possiedono un feudo e altri che cercano di ottenerne uno. Ad accomunarli è l’interesse per i vantaggi personali e famigliari che potrebbero trarre dall’impresa. Il governo ha stabilito una procedura piuttosto chiara alla quale ciascun progettante deve attenersi. Per prima cosa il candidato deve trasmettere al sovrano il proprio progetto di colonia, precisando quale sia l’area da colonizzare e con quali coloni. Nel caso in cui Torino reputi interessante la proposta, il progettante ne concorda i dettagli con l’Intendente Generale a Cagliari. In questa fase viene definita l’entità del sostegno economico che la corona garantirà all’impresa e si stabiliscono diritti e doveri del concessionario in pectore, le franchigie fiscali e l’estensione del territorio concesso. Superato con successo anche questo secondo passaggio, il proponente dovrà concordare con i coloni le condizioni del loro stanziamento nell’isola. Anche quest’ultimo accordo dovrà essere approvato dall’Intendente Generale, che lo valuta insieme alle più alte magistrature del regno.

4. COLONIE SARDE, COLONI FORESTIERI
La notizia della disponibilità di terra e franchigie in Sardegna si diffonde rapidamente nel Mediterraneo e suscita interesse soprattutto negli ambienti delle grandi diaspore mediterranee. La Sardegna appare come un’opportunità ai tanti che hanno dovuto lasciare la propria terra a causa di conflitti, occupazioni, espulsioni. La dispersione della colonia ligure di Tabarca è uno degli effetti collaterali dell’arretramento spagnolo nel Mediterraneo. Senza più il suo storico protettore Genova non è più in grado di conservare i tradizionali avamposti lungo la linea di faglia tra cristianesimo e Islam. L’isola dei Lomellini viene dunque progressivamente evacuata e gli esuli assorbiti dai popolamenti promossi nella Sardegna di Carlo Emanuele III (Carloforte e Calasetta) e nella Spagna di Carlo III (Nueva Tabarca) .
L’attenzione per le terre sarde si accende anche nelle comunità cristiane di Levante. Sono migliaia i greci disposti a lasciare la Maina per tentare la sorte all’ombra del sovrano subalpino. La fede ortodossa è certo una complicazione, perché non tutti i coloni sono disposti a fare professione di fede al pontefice, come preteso dai vescovi cattolici. Ma sono difficoltà che altrove non hanno impedito alla diaspora greca di dispiegarsi e percorrere l’intero bacino mediterraneo, connettendone i porti e le piazze commerciali ai mercati Nord europei e atlantici . Nell’Adriatico i greci si sono sostituiti a Venezia nella mediazione tra Ottomano e paesi cristiani ; nella Crimea del secondo Settecento garantiranno ai russi le competenze marittime che proietteranno l’impero zarista verso i mercati occidentali ; a Minorca sono uno dei più stabili sostegni all’espansione militare e commerciale britannica nel Mediterraneo; ovunque alimentano manifatture e commerci, ma investono talvolta anche in miniere , saline e tonnare. Di questa dispersione espansiva sono parte integrante anche i greci che nel secondo Seicento prendono dimora nella costa centro-occidentale della Corsica. Nel Settecento la loro fiorente cittadina Paomia viene distrutta, perché nella rivolta corsa anti-genovese i greci si schierano a difesa della Repubblica . Minacciati dai loro conterranei alcuni tra questi partecipano alla fondazione di Montresta in Sardegna .
Insieme ai greci arrivano nell’isola sabauda anche gli esponenti della diaspora maltese. Il Mediterraneo considera questi isolani degli ottimi agricoltori e ne apprezza specialmente l’abilità nella coltivazione e lavorazione del cotone . Essendo cattolici, i maltesi si installano negli spazi imperiali spagnoli e nei porti di Francia molto più agilmente dei greci, sia ortodossi che cattolici di rito orientale . Anche in Sardegna i maltesi godono di ottima fama e sono dunque diversi i progetti pensati per favorirne lo stanziamento. Tutta la storiografia sarda ha sempre indicato nel borgo di Santa Sofia di Sarcidano, edificato da Salvatore Lostia, una fondazione maltese. In realtà, trattandosi di un villaggio sorto come presidio di un’area interna dell’isola, le condizioni di infeudazione avevano autorizzato Lostia a popolarlo con gente del luogo. Tuttavia, il duca era riuscito ad attrarvi quasi esclusivamente sbandati, evasori fiscali e criminali; gente che, non appena concluso il periodo di franchigia, era scomparsa negli stessi boschi dai quali era emersa, senza nemmeno restituire i prestiti ricevuti. Per evitare il fallimento dell’insediamento, l’Intendente Generale propone allora di assegnare il villaggio alle circa trenta famiglie ottomane di culto cattolico che, il 2 novembre 1776, per tramite di Giovanni Jagrat nativo di Gerusalemme, hanno chiesto di essere accolte in Sardegna. Insieme ai greci di Montresta, questi sono gli unici stranieri che si cerca di collocare nell’interno dell’isola. Si tratta di eccezioni, perché in seguito ad alcune traumatiche esperienze il re accetterà i suggerimenti dell’Intendenza Generale, autorizzando l’impiego di isolani celibi per le colonie d’entroterra .
Si consolida così la pratica che riserva ai forestieri le coste, spazio granulare di frontiera che il governo desidera ordinare e controllare più efficacemente. A Nord, in Gallura, l’occupazione delle isole intermedie di Caprera, Spargi e La Maddalena, rivendicate da Genova, fa da cornice a un’azione diretta a tracciare un limite invalicabile tra Sardegna e Corsica, installando sulle coste insediamenti compatti, da sviluppare intorno a chiese parrocchiali affidate a preti sardi. Si cerca così di mettere fine alle continue transumanze spirituali dei corsi di Gallura, che ogni anno si trasferiscono a Bonifacio per comunicarsi, farsi battezzare e sposare . Merci e persone circolano dunque liberamente e con essi anche agenti, spie, banditi sardi, genovesi e francesi . I possessori corsi di terre sarde debbono dunque decidere: o giurare fedeltà al re di Sardegna o andarsene. Dall’appaesamento dei corsi, dei quali il governo si fida poco o nulla, nasceranno i borghi di Santa Teresa di Gallura, Palau, La Maddalena. Riempire la frontiera di colonie forestiere è una soluzione che lo Stato sabaudo non adotta solo nelle sue isole: a ripopolare dal 1770 la cittadina di nuova fondazione Carouge sono soprattutto forestieri e dissidenti religiosi, come i valdesi, che altrove hanno avuto (e avranno anche in futuro ) un rapporto piuttosto complicato con la corona sabauda . Proprio quello Stato affida loro il compito di chiudere la frontiera che separa il cattolicesimo sabaudo dal calvinismo ginevrino.

5. VERSO UNA NUOVA GEOGRAFIA MORALE
Già da metà Settecento i funzionari sabaudi iniziano a leggere la Sardegna (e con essa tutto il Sud Europa) attraverso filtri interpretativi di matrice montesquieuiana . Negli ambienti governativi anche i più alti funzionari di origine sarda, come il fondatore del Censorato Generale Giuseppe Cossu, mostrano di conoscere bene la lezione di Antonio Genovesi, specie il suo decalogo sulle “cause che cagionano la decadenza delle popolazioni” .
Tuttavia, per tutta la seconda metà del secolo, la politica demografica resta pragmaticamente agganciata a quanto si verifica sul campo. L’adozione di sudditi forestieri non dipende, come spesso ha sostenuto la storiografia sarda, da un pregiudizio negativo nei confronti degli isolani. Certo, le censure ci sono e sono destinate a crescere col tempo, anche in virtù delle resistenze che settori rilevanti della società sarda oppongono ai disegni governativi. Tuttavia, i pregiudizi piemontesi non sono diretti ai soli sardi. Torino diffida di tutte le genti che la stessa Corte chiama a popolare l’isola: pessimo è il giudizio sui greco-corsi, considerati infidi e insolenti; dei corsi si dice che agiscano come banditi e contrabbandieri; dei tabarchini che sono pigri. Ma la necessità di riempire di uomini la Sardegna e potenziare lo Stato è più forte dei pregiudizi e dei luoghi comuni. È necessario attirare quanta più gente possibile e ricollocare quella che già abita l’isola in modo razionale, perché un regno più popoloso, presidiato e sicuro sarà anche meglio coltivato, capace di sviluppare manifatture, esportare e spingere all’attivo la bilancia commerciale.
Più che l’emergente pregiudizio eurocentrico e anti-meridionale è la lezione del riformismo duosiciliano e del cameralismo tedesco a ispirare le politiche di colonizzazione sabauda. Un inse-gnamento che mette al centro dell’agenda governativa il rapporto di causa/effetto tra struttura insediativa e floridezza del sistema economico “nazionale”, chiedendo al sovrano di farsi garante del miglior equilibrio territoriale possibile, attraverso una ripartizione omogenea della popolazione e il bilanciamento demico tra città e contado, ovvero tra luoghi di produzione e di consumo .
Per queste ragioni non si fonda una colonia con la “spopolazione o detrimento di altre ville” ripetendo il fatale errore commesso dalla Spagna che, scrivono i funzionari sabaudi, è “ormai spo-polata dalle continue trasmigrazioni de’ suoi nativi alle Indie” . Solo con coloni forestieri si aumenta la popolazione nazionale senza indebolire la rete insediativa già esistente. Qualora poi i nuovi arrivati siano anche buoni agricoltori, mercanti, artigiani o marinai, essi potranno contribuire anche al riscatto economico del regno. Ma in prima battuta, non è così importante che essi siano moralmente irreprensibili, “culti” e “politi”. La fiducia che ispira i riformatori sardo-piemontesi li ha persuasi che sia possibile mutare il bandito corso, l’ex nemico greco, l’ambiguo tabarchino e il pastore sardo in sudditi fedeli e produttivi; persino i “filibustieri stabiliti nell’Isola di Madagascar” potrebbero essere invitati a stanziarsi nei porti sardi così da profittare del “commercio che in essi quella gente avrebbe introdotto” .
Solo col tempo, la colonizzazione, da progetto di incremento demografico, tende a trasformarsi in riforma della geografia morale del corpo territoriale statale. Aumentare la popolazione resta l’obiettivo primario, ma sullo sfondo emerge con crescente nitidezza il proposito di impiantare nel regno di Sardegna un’agricoltura modellata sullo standard dei Paesi più avanzati. Ecco perché ai maniotti ortodossi disponibili a trasferirsi nell’isola è fatto “obbligo preciso ed indispensabile di ridurre almeno la vigesima parte [della terra loro assegnata] in vigna […] riservandosi il resto per seminarvi”. La colonia ortodossa dovrà inoltre ospitare “fabbricatori di seta, corami, polvere, tabacco e de bastimenti, con altri artefici” . I maltesi originari di Casal Furnaro, proposti nel 1751 dal barone di Sorso, dovranno essere “gente atta a lavorare la campagna, seminando molte specie d’effetti che non furono mai in uso in questo regno, come sono cotone, tumenia (grano timilia), giuggiulena (sesamo orientale), erba di cenere, canne di zucchero, caminu agro e dolce” e gelsi mori per la produzione della seta, che verrà lavorata da tecnici appositamente ingaggiati . Ancora: uno dei primi obiettivi per cui la Corona concede ai fratelli Velixandre l’isola dell’Asinara è appunto “l’inesto e piantamento degli olivari, giacché la moltitudine degli olivastri selvaggi nati e cresciuti in quell’isola ne indica e fa sperare la riuscita” .
Agli occhi del sovrano i forestieri non sono moralmente superiori ai sardi, ma più di loro sembrano capaci di piantare nel cuore dello Stato sementi esotiche, tecniche agricole innovative, commerci e manifatture e di trasmettere agli indigeni le consapevolezze, le prospettive e i valori che hanno fatto la fortuna soprattutto dei paesi nord europei. Da parte loro, gli imprenditori e i coloni che rispondono all’appello sovrano sono mossi dal desiderio di promuovere il proprio benessere, ma la loro presenza innesca una circolazione di valori che alla lunga incide nelle coscienze e negli immaginari collettivi, a tutti i livelli della scala sociale.
La burocrazia si è mossa col proposito di aumentare la popolazione nazionale, ma ha attivato meccanismi che conducono alla autocolonizzazione. Come in un arendtiano effetto boomerang , nel tentativo di afferrare e stringere uno spazio sfuggente, lo Stato finisce col trasformare se stesso , inoculando priorità, sensibilità, urgenze e trasferendole ai territori sotto forma di legislazione, riforme, borghi di nuova fondazione. Una semente che trova terreno fertile nella stretta élite isolana di funzionari, nobili di toga e possidenti mezzani che si coordina con la politica assolutistica per occupare gli spazi sociali che questa sembra aprire loro, ma che proprio a partire da simile relazione inizia a leggere se stessa e la propria “patria” attraverso categorie interpretative di marca riformatrice.
Tra gli autori più letti da questa élite è Antonio Genovesi, che traccia una limpida gerarchia tra le nazioni, alla vetta della quale colloca i Paesi agricoli. La Sardegna non è tra questi. Quella isolana è una società pastorale, di quelle che sperimentano libertà dal sapore anarchico, che male si combinano col rispetto delle leggi dello Stato, delle proprietà individuali, della sicurezza delle persone, del commercio. Certo, i sardi non sono primitivi come gli indigeni d’America o d’Africa, ma la società dominata dal pastore, che sempre si confonde col bandito, è comunque sospesa tra legalità statali e codici della vendetta, tra Europa e Africa. Se questa è l’isola allora popolamento e colonizzazione sono qualcosa di più che una mera azione di riassetto insediativo. Colonizzare significa riscattare o conquistare una “terra vergine”, innestandovi pratiche, competenze, mentalità considerate espressione della più raffinata politesse europea.
Colonizzare è allora compiere un “atto di civiltà”, frutto di un dialogo policentrico tra élite di terraferma e isolane, tra piemontesi e quei sardi che più nitidamente percepiscono l’urgenza di riscatto . Si tratta di una stretta minoranza (di cui fecero parte Giovanni Maria Angioj, Gavino Cocco, Giuseppe Cossu, Antonio Todde e altri) spesso schiacciata dal peso dei settori più conservatori, gli stessi che scatenano una fortissima opposizione alle colonie volute dal governo.
Quello del privilegio era un mondo che lucidamente intravvedeva nelle colonizzazioni, più che la risposta al sottopopolamento, l’ennesimo tentativo del sovrano di addomesticare o mettere all’angolo chiunque rifiutasse il concetto e la pratica assolutistica. L’avversione di città come Bosa o Iglesias all’impianto di forestieri è feroce. Il nobile sassarese Andrea Manca Dell’Arca manifesta nella sua celebre opera tutta la sua diffidenza nei confronti delle riforme agricole , proposte dal governo anche attraverso intellettuali a lui vicini . Giuseppe Cossu, il più grande riformatore sardo del Settecento, fondatore del Censorato Generale del Regno di Sardegna e attivissimo promotore del riscatto agricolo del regno viene umiliato quando, sull’esempio di Torino, dove nel 1785 era stata costituita la Società Agraria, cerca di istituirne una anche a Cagliari . Sebbene sostenuto dal governo, Cossu viene irriso dalle prime voci dei tre bracci del Parlamento sardo e, nella giunta convocata per discutere del tema, tra le numerose voci contrarie, si leva quella dell’arcivescovo di Cagliari. “Quello che in Sardegna aligna – sentenzia l’alto prelato – altrove non sarà buono, e vice versa”. Cossu replica con argomenti stringenti ma viene subito zittito e bruscamente ricondotto al contegno e all’obbedienza cui è tenuto chi è socialmente inferiore. A quel punto, come lo stesso Cossu scrive, “si convenne tacere e chinar capo”.
La storiografia che in passato si è soffermata sulla politica demografica dello Stato sabaudo l’ha giudicata “fallimentare” sulla base di un poco convincente raffronto tra i popolamenti “riusciti” in età asburgica (decine) e in quella sabauda (pochi, secondo l’interpretazione prevalente) . Secondo una statistica compilata negli anni Settanta del Settecento sono 18 i centri urbani edificati dal secondo Seicento al secondo Settecento. Vi hanno preso dimora 7.717 persone, alle quali è stata affidata terra da coltivare pari a circa 8.165 starelli .
Bastano queste cifre a cogliere appieno l’impatto della colonizzazione interna promossa dallo Stato Sabaudo? Forse servirebbe affiancare all’analisi quantitativa lo studio sistematico di ognuno dei nuovi insediamenti, ricostruendo le trasformazioni e le resistenze che essi attivarono, alla scala locale e translocale, sul piano sociale e culturale, nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
Il peso della colonizzazione interna andrebbe inoltre valutato alla luce del solco che i ceti tradizionalisti sardi tracciarono per limitarne quanto più possibile il raggio d’azione. Perché la colonizzazione voluta dal re, non solo smosse equilibri territoriali consolidati, ma anche gerarchie sociali ritenute intangibili, sebbene un numero crescente di osservatori indigeni le considerasse l’ostacolo più grande alla costruzione di una società più cosmopolita e aperta alla modernità occidentale.